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Elisabetta Falchetti

 

Elisabetta Falchetti

Elisabetta Falchetti

 

Laureata in Scienze Naturali all’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, ha effettuato ricerche ed esperienze sul campo. Ha lavorato allo Zoo di Roma e dal 1998 al Museo Civico di Zoologia di Roma come curatore e responsabile del Dipartimento educativo. È specializzata nella interpretazione e valorizzazione del patrimonio culturale, in particolare scientifico. Nelle Istituzioni in cui ha lavorato si è dedicata all’apprendimento permanente, alla didattica e all’educazione, al dialogo sociale, profondamente convinta del valore e delle potenzialità della cultura nel miglioramento della qualità della vita per gli individui, le società e per l’ambiente. Ha insegnato in Università italiane, in corsi universitari e post-universitari Educazione e comunicazione scientifica, Educazione ambientale e alla sostenibilità, Educazione, mediazione e comunicazione museale, Museologia e museografia naturalistica, Didattica della Biologia. Ha elaborato piani e progetti originali per la formazione scolastica e professionale. I suoi interessi attuali includono il ruolo e le potenzialità del patrimonio culturale nella formazione, nell’inclusione socio-culturale e nella sostenibilità individuale, sociale, ambientale; la narrazione del patrimonio come elemento di comunicazione e dialogo inter-transculturale. Questi temi sono oggetto delle sue ricerche, condotte in collaborazione con Agenzie e Istituzioni nazionali e internazionali e delle attività di formazione che progetta e realizza. È autrice di molti contributi e libri nei vari campi di sua specializzazione e in particolare sull’educazione, comunicazione e mediazione museale. È vice presidente dell’Associazione Nazionale Musei Scientifici.

 


Insieme…per ricordare Elisabetta

 

30 settembre 2022, ore 17.00
Museo Civico di Zoologia, Sala Balena Via Ulisse Aldrovandi, 18

Ore 17.00 – Accoglienza in Sala Balena.

Introduce Carla Marangoni 17.10 – 17.30 “Atteone”. Performance da Ovidio, scritta e narrata da Sista Bramini con musica originale dal vivo per viola e voce di Camilla Dell’Agnola.

 

A seguire gli interventi di: Roberto Argano (già Università degli Studi di Roma “La Sapienza” )
Gloria Svampa e Spartaco Gippoliti (già Giardino Zoologico di Roma- Museo Civico
di Zoologia; Società Italiana per la Storia della Fauna "Giuseppe Altobello")
Maurizio Gattabria (già Museo Civico di Zoologia)
Nicola Margnelli, Ilaria De Angelis e Simona Quattrini (Coop. Myosotis Ambiente)
Silvia Caravita (già Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione, C.N.R.)
Andrea Rossi (ANISN Associazione Nazionale Insegnanti di Scienze Naturali)
Fausto Barbagli (ANMS Associazione Nazionale Musei Scientifici)
Cristina Da Milano (ECCOM Idee per la Cultura)

Dopo gli interventi programmati, i partecipanti potranno condividere un ricordo (a voce o scritto).

Si raccomanda la puntualità e il rispetto dei tempi.

Grazie!

 


Immaginare un futuro migliore. Il patrimonio culturale per il recupero e il reinserimento sociale di giovani soggetti a misure penali

di Elisabetta Falchetti pubblicato in MUSEOLOGIA SCIENTIFICA nuova serie • 14: 139-151 • 2020 ISSN 1123-265X

uno degli ultimi suoi lavori è disponibile


 

 

Pubblichiamo i ricordi di:

Claudio Longo ispirato anche da una lunga amicizia personale

Silvia Caravita

Lucia Capuano 


 

L’ho intravista la prima volta a Roma nel 1991 a un convegno internazionale sulla didattica della biologia. In quel periodo avevo deciso di abbandonare la ricerca per occuparmi solo dell’insegnamento che mi dava più soddisfazioni.

Ma la vera conoscenza è iniziata 9 anni dopo, ancora a Roma, a un altro convegno da lei organizzato al Museo Civico di Zoologia. L’ultimo giorno sono arrivato con un enorme mazzo di fiori che avevo comprato per conto dei miei compagni di congresso. L’enormità voleva dimostrarle quanto ci eravamo trovati bene. La consegna è stata un piccolo spettacolo teatrale. Lei stava salendo la scaletta che dal suo studio nel seminterrato raggiungeva il cortile... – e proprio in quel momento io stavo scendendo col mio carico di fiori. Ci siamo incontrati a metà scala.
...e ora, scrivendo, mi dispiace non poter rievocare con lei questo ricordo...


Elisabetta aveva lavorato allo zoo di Roma che poi si era staccato dal Museo zoologico ed era passato a gestione privata. E così lei che era dipendente pubblico aveva dovuto passare al Museo. Credo che questo distacco dagli animali vivi con i quali aveva un gran feeling le fosse costato molto. Ma con lo zoo non aveva rotto tutti i rapporti. Quando mi aveva portato a visitarlo mi aveva colpito con quanto affetto la salutavano i guardiani. Era lo stesso affetto, la stessa gentilezza che Elisabetta dimostrava nelle relazioni col personale del Museo, particolarmente con i giovani. (Quelli dei “piani alti” erano un’altra cosa, con loro bisognava combattere)

...e a proposito di feeling con gli animali mi raccontava che aveva allevato in casa una piccola pantera nera nata allo zoo, particolarmente bisognosa di cure. Poi l’aveva riportata là ed era tornata a trovarla parecchio tempo dopo. La pantera la riconosce subito, le allunga una zampa oltre le sbarre in segno di saluto,
come darle la mano. Disgraziatamente un artiglio dell’animale si infila fra un dito di Elisabetta e l’anello che lei a questo dito portava. Situazione davvero critica, un movimento sbagliato e sarebbe stato un disastro. Fatto sta che imponendo estrema calma a se stessa e alla pantera Elisabetta era riuscita a liberare lentamente il suo dito dall’artiglio.

C’è stato nella mia vita un periodo di più o meno vent’anni durante il quale venivo spesso a Roma a trovarla. Lei cercava di coinvolgermi in tante attività vincendo la mia natura pigra. A volte ci riusciva.
Ricordo il suo studio nel seminterrato. Dalle ordinate vetrine del Museo si scendeva in un altro mondo, quello di tutti i relitti che non venivano esposti al pubblico - per me molto più affascinante delle ordinate vetrine.
Scendendo una scala ti guardava enorme la testa di un bufalo africano infissa nel muro. Dietro un vecchio tavolone da riunioni una tigre si lanciava all’assalto di una povera giraffa il cui lunghissimo collo emergeva dal pavimento (nelle mie fantasie il resto della giraffa doveva trovarsi al piano inferiore)
Il suo studio era un caos di carte, di scatole, di tutto, ma lei ci si trovava a suo agio. Riceveva tante persone, aveva tempo per tutti, non so come faceva.
Più tardi era riuscita a ottenere una stanza bellissima (non dimentichiamo che era dolce e gentile e affettuosa ma sapeva anche essere una combattente che non mollava) C’era una bella vista sul giardino, dal soffitto pendeva un calamaro gigante lungo quasi come la stanza, da una vetrina dietro la scrivania la guardava un orango.

Mi metteva al lavoro per qualche progetto o libretto ma mi portava anche in giro. A Roma mi mostrava con orgoglio il liceo dove aveva studiato e che era stato coinvolto in un episodio della Resistenza. Mi portava alla Città della Musica da poco inaugurata e mi diceva: qui siamo come sotto un ombrello, contrapposto al malgoverno di altre città. Un ombrello che si è strappato presto, purtroppo.

Ma anche fuori Roma. Un giro nei Monti della Tolfa. Mi raccontava degli antichi Romani, gran tagliatori di alberi che però avevano
i loro boschi sacri. Nel limpido torrente che scorreva in uno di questi boschi mi ha fatto vedere la danza nuziale delle libellule. Più bello che alla Scala (io venivo da Milano).
A Canale Monterano, nello spiazzo della Fontana del Bernini c’erano tavoli e panche di legno con vari gruppi a picniccare. Ci sedemmo anche noi, poi Elisabetta si alzò e andò in esplorazione sotto le vecchie rovine. Tornò con una specie di gnocco peloso. Una borra di barbagianni, mi disse. Poi cominciò a smontarla tirando fuori gli ossicini che stavano dentro, probabilmente di un topo. Dei bambini seduti al tavolo vicino vennero a guardarla con curiosità. Estratti tutti gli ossicini Elisabetta cominciò a rimontare lo scheletro e intanto a raccontare. I bambini erano estasiati; schifati i genitori che erano venuti ad assistere anche loro.
Danze nuziali di libellule, rigurgiti di barbagianni, scienza regalata al primo venuto, questa era Elisabetta.

Negli ultimi anni ci vedevamo a Firenze, a metà strada fra Milano e Roma. Giravamo per la città, ammiravamo le tante bellezze (ma anche il mercato coperto) ci raccontavamo. Cose personali, cose di lavoro. Mi raccontava con entusiasmo della sua attività nelle carceri in cui riusciva a portare cose incredibili, alcune minuscole, altre enormi – ossa, conchiglie, chissà? Immagino per ognuno di questi oggetti attenta osservazione, poi scambi di ipotesi e infine un suo racconto. Come quella volta dello scheletrino ricomposto...
A Firenze pranzavamo al Yellow Bar in via del Proconsolo, il personale la conosceva. Domande, risposte, gentilezza reciproca.

Era una grande amicizia la nostra, che comprendeva anche il diritto di critica. Mi diceva: “Sei troppo spirituale. Non hai i piedi ben piantati in terra”. Accettavo. Dei piedi non ben piantati ero convinto. Dello “spirituale” – boh!
E un’altra volta, seduti nel Battistero di Firenze, mi aveva fatto una predica che in realtà riguardava tutti i maschi “Facile per voi scrivere delle cose perfettamente rifinite, ce l’avete il tempo. Noi donne invece - lavoro, casa, figli... questo lusso non ce lo possiamo permettere”
E cosa mai avrei potuto controbattere?

L’ultima volta che ci siamo visti a Firenze era l’ottobre 2019.
Avevamo visitato da cima a fondo il trecentesco Palazzo Davanzati. Quante ripide scale! Nel pomeriggio ci eravamo rilassati nel cortile del Bargello, lei mi raccontava di un progetto europeo sulla biodiversità, mi voleva coinvolgere... e come tante altre volte ci è riuscita!

Vedo che ho scritto più di due pagine dense. Devo concludere.
Concludo:
Era una combattente gentile. Ma la sua più grande virtù era la generosità. Diceva: “Mi tirano tutti per la giacchetta” E lei si lasciava tirare e si buttava senza badare alle sue forze.
Sentiva fortemente le ingiustizie, di tutti i tipi. Diceva: “Noi vecchi possiamo resistere ma siete voi giovani che vi dovete ribellare”

Nella sua ultima lettera (12 giugno 2022):
“Mi piace ancora molto leggere. Tuttavia guardo il mondo con disillusione, cercando di mantenere viva la speranza di cambiamento che io non vedrò, ma auspico per tutti.”

 


Per Elisabetta

 

Silvia Caravita


Ricordo bene la prima volta che ho incontrato Elisabetta.
E fu lei a chiedere di incontrarci.
Lei lavorava ancora presso il Giardino Zoologico, io ero ricercatrice dell’Istituto di Psicologia
del CNR nel reparto di Psicopedagogia, che si era trasferito in una sede distaccata presso
locali adiacenti al Museo di Zoologia. Tutte e due sapevamo poco dell’attività dell’altra e
quello che sapevamo non ci convinceva per motivi diversi: a me sembravano troppo
“scolastici” i materiali didattici che venivano dati alle classi in visita allo Zoo, forse a lei
troppo “cognitiviste” le proposte di educazione biologica che sperimentavo con bambini e
insegnanti. Fu buffo come all’inizio ci “annusassimo”, ognuna un po' sulle sue. Poi pian
piano ci andammo sciogliendo sempre più incuriosite l’una dell’altra e non abbiamo più
smesso di farlo.
Mi è mancata la telefonata di Elisabetta in autunno negli ultimi due anni.
“Siiilvia! – e questo era un abbraccio e …una chiamata alle armi! – anche questa volta ce
l’ho fatta….ma che fatica!! Dai, forse riusciamo anche a portarli fuori, a fargli conoscere la
città”.
Annunciava, con la vitalità fiduciosa che metteva in tutti i progetti, che ci saremmo ancora
trovate insieme a pensare e a fare attività con i ragazzi dentro il carcere o con ragazzi con
misure penali che frequentavano un centro diurno. Giovani a cui far conoscere qualcosa di
bello, da emozionare nella speranza che questo li proteggesse da un ambiente di vita senza
orizzonti.
Negli anni del Covid il nostro sistema scolastico e quello formativo più ampio, le istituzioni
che producono e diffondono cultura, stanno facendo i conti con i loro fallimenti più che
con i loro successi: sono preoccupanti la perdita di controllo sui modi di usare le tecnologie
da parte di piccoli e grandi, l’abbandono scolastico al 13% della popolazione scolastica, lo
svantaggio sociale non recuperato, la ricerca educativa che non riesce a incidere sulla
pratica, la diffusa acriticità nell’uso dell’informazione…
Sembra che costruire conoscenza sia un processo troppo lento rispetto alla velocità del
tempo con cui scorrono le cose.
Tuttavia siamo certi, credo, che il desiderio di sapere, la voglia di capire non sono diminuiti
nei piccoli e nei grandi. Le condizioni storiche cambiano e in chi ha responsabilità di
educatore (e anche di ricercatore) si ripropone continuamente nuovo il problema di non
eludere e deludere questo desiderio, di trovare i modi più efficaci per accompagnare
processi attivi e personali che portino a dare significato alla realtà, a costruire il proprio
posto nel mondo in cui ci è dato di vivere, ma anche a immaginare oltre quello avendo
orizzonti cui tendere e strumenti mentali ed emotivi che ci sostengano.
Non funzionano algoritmi, indicazioni prescrittive sperimentate una volta per tutte. Gli
educatori devono accettare di arrovellarsi in ogni nuova interazione, ascoltare, osservare,
magari sentirsi spiazzati, voler interpretare quello che va succedendo mentre si impara
appoggiandosi alle conoscenze ed esperienze precedenti.
Elisabetta accettava di misurarsi con questa sfida fino allo sfinimento e combatteva contro
chi resisteva a questo, colleghi, funzionari, istituzioni, con una determinazione e durezza, a

volte di cui io per carattere non sono capace e che invidiavo un po'. Una “combattente
gentile” come ha scritto il prof. Claudio Longo
Richiamava gli scienziati alla consapevolezza della diversità del loro sguardo sul mondo
rispetto a quello comune e quindi alla responsabilità di farsi carico di come accorciare la
distanza con gli altri, come andare verso le tante diversità: di età, di cultura, di stato fisico,
di storia personale ….
Diceva che nel suo territorio un museo dovrebbe presentarsi come modello culturale,
come spazio di incontro, occasione per accorgersi di una pluralità di voci, visioni, linguaggi
esperti e non, su ciò che ci interroga nel discorso pubblico o che invece ci sfugge. Non
basta offrire informazione, che rischia di restare sterile se non si riesce a ricomporla dentro
quadri complessivi di pensiero. Per esempio, comprendere meglio chi siamo in mezzo a
tutti gli altri viventi, ripensare come noi umani possiamo stare nel pianeta ha bisogno di
una consapevolezza evolutiva ed ecologica che non è una evidenza accessibile nella
esperienza quotidiana. Ma anche questo non basta!
Con Elisabetta, spesso ci siamo confrontate su un altro aspetto della comunicazione.
Affinché sostenibilità, cura dell’ambiente, equità, benessere non restino parole ripetute
fino a perdere il loro senso, chi le comunica ad altri deve saper impegnare non solo il
pensiero razionale. È quando ci troviamo in condizioni che ridestano intuizioni, suggestioni,

emozioni, l’indicibile che ci portiamo dentro, che scatta un tipo di comprensione speciale

(“intelligenza spirituale”?) che smuove più profondamente la nostra persona e forse

il nostro modo di essere.
Pur essendo d’accordo con Elisabetta, ero intimamente un poco cauta quando insieme
ricercavamo come mettere in pratica questa convinzione, forse restia ad abbandonare
territori più conosciuti e timorosa di non saper trovare il punto di equilibrio che impedisce
di cadere nella banalizzazione, nella falsità emozionale.
A lei invece la ricerca dei modi adatti veniva naturale e penso che il più delle volte avesse
successo perché le radici di quei modi erano in una seria e profonda attenzione alla vita
interiore.
Con le sue parole:
“Educare per una nuova cultura è un percorso difficile, perché richiede grossi cambiamenti
anche nel nostro modo di pensare e insegnare. Chiede (…….) anche pratiche interiori di
autotrasformazione, ad esempio riflettere, meditare, essere consapevoli e quindi
abbandonare (e far abbandonare) abitudini frettolose, che colgono solo immagini fuggevoli
o superficiali; di rinunziare (e insegnare a rinunziare) a soluzioni facili e accomodanti; di
lasciarci (e lasciare tempo) per coltivare se stessi; di vivere con un atteggiamento di ricerca
personale e di apertura verso il mondo. Non ultimo chiede di star bene con se stessi, per
poter aiutare a star bene il resto del Pianeta. Ma questo è particolarmente complesso!”
Da: Per una ecologia dell’educazione ambientale. A cura di Elisabetta Falchetti e Silvia
Caravita. Scholè, 2005, p.99.

 

Lucia Capuano ricorda
Dall'estrema periferia di Roma Est al Museo Civico di Zoologia, in viaggio a bordo di un tram, in compagnia di esuberanti
ragazzini di scuola media, ben felici di saltare le lezioni. 
Sempre ad accoglierci la nostra cara Elisabetta, sorridente e serena, con l'aiuto degli operatori della cooperativa
Myosotis e del Museo stesso.
Elisabetta sapeva come porsi ai ragazzi, suscitando in loro interesse e curiosità. 
Attraverso il gioco, la visione di campioni, l'esperienza pratica, anche con l'uso di strumenti specifici, venivano guidati ad
osservare, confrontare, interrogarsi ed esprimere il proprio pensiero, le proprie ipotesi.
Persino i più difficili o i più timidi venivano coinvolti.
La Scuola andava al Museo ma pure il Museo si recava a Scuola!
La stessa Elisabetta ed i suoi collaboratori venivano a trovarci, carichi di materiale, con questionari, schede di
osservazione, libri,..
I ragazzi erano entusiasti!
Bellissimo vederli lavorare ed elaborare insieme i dati raccolti, approfondire la ricerca anche con l'ausilio dei testi, dei
propri quaderni, per avvicinarsi ai grandi temi della biologia e dell'ecologia, quali la diversità, l'adattamento, le reti
alimentari… i processi fondamentali come la fotosintesi clorofilliana e la respirazione,...
Sono grata ad Elisabetta per la meravigliosa opportunità che ci ha regalato!
La sua è una preziosa testimonianza d'impegno e di abnegazione nel diffondere l'amore per la natura e nell'avviare un
percorso di conoscenza attraverso l'acquisizione di un maggiore senso critico, più autonomo, rivolto a soggetti diversi
per origine, condizione socio-familiare, religione,..
Il suo ricordo rimane vivo nei nostri cuori e nelle nostre menti, credo anche in quei ragazzi ora uomini e donne.