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La Luna sull'Aventino e il cappello dell'Abate

 

 

 

 

Ritratto di Benedetto Castelli (1577/8-1643), Museo degli Uffizi, Firenze.

La Luna sull'Aventino e il cappello dell'Abate

 

In-attualità scientifiche

 

Marco Piccolino e Nicholas J. Wade

 

  

Si svolge, la nostra scena, circa quattro secoli fa, tempo sufficiente a giustificarne la collocazione tra le “in-attualità scientifiche” di questa rubrica, coniugate nel senso di “inattualità”, senza trattino. Si tratta di un notturno romano, non musicale però, ma scientifico, e singolare anche perché i personaggi che lo animano sono per lo più esponenti del clero, e anche eminenti: un abate (il narratore), un dotto prelato vaticano esperto di sacre scritture, e altri dialoganti di “nobile conversazione”. Che molta acqua sia da allora passata sotto i ponti è chiaro, non tanto in base al puro dato cronologico (si era nell’estate nel 1639), e neppure per il fatto che i signori che qui si intrattengono in piacevoli e dotti conversari sono in carrozza invece che in automobile, ma per l’argomento appunto delle loro discussioni. In un’epoca come quella attuale, in cui uno dei leitmotiv di una certa cultura vaticana retrograda è che la scienza sia responsabile di molti dei guasti della modernità, si farebbe infatti fatica a pensare che un gruppo di prelati romani si intrattenga con interesse a parlare di scienza, e – come vedremo – addirittura a fare degli esperimenti; semplici certo, come quelli che si possono fare per strada, con un cappello da abate come strumento di prova scientifica. La discussione verte su un fenomeno visivo, indicato ai nostri giorni come “illusione della Luna”, per cui i corpi celesti (la Luna, ma non solo) osservati all’orizzonte appaiono di dimensioni maggiori che quando vengano a trovarsi nell’alto del cielo, a dispetto del fatto che le misurazioni astronomiche non mettono in evidenza alcuna differenza di grandezza. Mentre la carrozza percorre pigramente il lungotevere, ecco spuntare il globo lunare dall’altra parte del fiume, sull’Aventino. Allora, «tutti quasi ad una voce dissero della Luna, o come è grande, come è bella» e, alla richiesta del narratore di dare una misura delle dimensioni percepite, i presenti rispondono «che pareva di diametro quattro, ò cinque braccia». Subito l’abate-narratore oscura con l’ala del proprio cappello la vista dell’Aventino, in modo però da non interferire con la visione della Luna. Ed eccola divenir subito piccola, che «non pareva due dita». La conclusione dell’esperimento, è che – rimanendo uguale nelle varie condizioni di osservazione la grandezza dell’immagine della Luna sulla retina – la dimensione percettiva dell’oggetto celeste viene a dipendere dal confronto che si stabilisce con gli altri oggetti del campo visivo: grande quando la si confronta alle vaste dimensioni del monte lontano, minuta quando la si paragona all’ala del cappello vicina.

 

Nell’esporre nel 1639 queste considerazioni in un suo Discorso sulla visione, il narratore, il monaco benedettino Benedetto (al secolo Antonio) Castelli, fa poi fa riferimento a un altro inganno molto più sottile, & artificioso comunicatogli dal suo Maestro, e cioè Galileo Galilei, il grande scienziato pisano che con l’allievo condivide l’interesse per la visione e le sue evidenti fallacie. Di Galileo, Castelli è l’allievo più antico e più amato, collaboratore appassionato e prezioso sin dagli anni delle prime osservazioni telescopiche. Quelle che nel 1610 culminarono nella pubblicazione del Sidereus nuncius, il piccolo e rivoluzionario volume scritto e dato alle stampe con foga, quasi un instant book d’altri tempi, con il quale Galileo minava alla radice l’impianto della cosmologia tradizionale ponendo le basi del pensiero scientifico moderno. Un’opera che a pochi giorni dalla stampa (e ancor prima che Galileo gliene abbia fatto pervenire una copia), l’allievo si procura in gran fretta, comunicando poi subito al maestro di averla «già letta e riletta più di dieci volte con somma meraviglia e dolzezza grande d’animo, e benissimo intesa la dottrina profonda, gli alti pensieri, dotte speculazioni». Al dono del volume Galileo farà poi seguire quello di un telescopio propiziando in lui una passione dell’astronomia che l’accompagnerà per tutta la vita. E con l’astronomia l’interesse per la visione, i suoi inganni e le sue fallacie, argomenti del Discorso in cui l’allievo parlerà del suo esperimento lunare. Insieme con altri testi di Castelli il discorso fu pubblicato solo nel 1669, a quasi trent’anni dalla sua morte (avvenuta nel 1643, un anno dopo quella di Galileo). Vi si descrivono una serie di osservazioni ed esperimenti visivi, argomento privilegiato delle conversazioni dei dotti prelati, due dei quali sono menzionati esplicitamente (il romano Ferdinando Cesarini, fratello di Virginio, dedicatario del Saggiatore di Galileo e il senese Domenico Cittadini, che chiede a Castelli di metter per iscritto le sue osservazioni).

  

L’illusione della Luna, su cui Castelli si sofferma nel Discorso, è forse l’illusione visiva “naturale” che più d’ogni altra mette in evidenza l’impossibilità di ridurre il processo della visione a un semplice fenomeno fisico di tipo ottico-geometrico. All’orizzonte, le immagini fisiche dei corpi celesti non sono infatti di dimensioni maggiori che allo zenit, come gli astronomi dell’epoca potevano verificare agevolmente con i loro strumenti, e come ora – ancor più facilmente – noi possiamo dimostrare con una macchina fotografica. Per Castelli la grandezza maggiore dell’immagine percepita dipende dalla presenza di una scena visiva a cui l’immagine viene riferita (l’Aventino nel caso della scena notturna), scena visiva che manca o è meno influente per gli oggetti celesti osservati in alto sulla volta del cielo. Nell’esempio dell’Orsa Maggiore, con cui nel Discorso era stato introdotto questo tipo di “inganno” visivo, quando la costellazione è nell’alto del cielo noi – dice Castelli – potremo riferire la sua grandezza solo alle sommità degli edifici, mentre invece quando  è  all’orizzonte  la paragoniamo «colle lunghe tirate di monti, e delle  vaste campagne», giudicandola allora di dimensioni molto maggiori.

 

Castelli arriva alla sua interpretazione partendo da alcune sue osservazioni su un altro fenomeno percettivo, quello delle immagini postume, cioè le immagini visive che permangono per un certo tempo nel nostro occhio dopo la fissazione di un oggetto particolarmente luminoso. Per spiegare il perdurare di queste immagini al cessare dello stimolo, egli ipotizza che la luce, giungendo nel fondo dell’occhio, produca l’immagine visiva attraverso una “conturbazione” della retina di durata variabile a seconda della intensità dello stimolo, in modo analogo all’acqua di un vaso   che   venisse   improvvisamente «dalla nostra mano diguazzante  commossa». Queste immagini persistenti, prodotte dalla prolungata “conturbazione” retinica, permettono a Castelli di realizzare un esperimento in grado di rendere ragione dell’illusione della Luna. A tutti coloro che si trovano nella sua stanza viene chiesto di «affissare gli occhi in una finestra invetriata illuminata chiaramente dal Sole» per il tempo necessario a recitare il Salmo Miserere. Chiudendo poi gli occhi si continua, con sorpresa, a vedere l’immagine della finestra «di varissimi colori dipinta, ora gialli, ora verdi, ora rossi, ora pavonazzi, e poi svanire, e di nuovo tornare ad apparire, e di nuovo dileguarsi». Più sorprendente ancora è ciò che avviene mantenendo gli occhi aperti dopo la prolungata fissazione della finestra luminosa. Se infatti si guarda verso un muro lontano, l’immagine rimasta nell’occhio appare più grande della finestra reale, più piccola invece se si fissa un muro vicino, e del tutto minuta «guardando un foglio di carta bianco posto lontano dall’occhio tre palmi».

  

 

 

 

Diagrammi sul discorso sulla visione

Il diagramma del Discorso sulla visione con cui Castelli rende ragione della diversa grandezza percettiva delle immagini postume. L’immagine HL che rimane sulla retina per un certo tempo dopo osservazione prolungata dell’oggetto luminoso PG, apparirà più grande dell’oggetto se l’occhio fissa poi il muro lontano AB, più piccola se lo sguardo si posa invece sul muro vicino CD.

 

 

Queste osservazioni sono spiegate da Castelli assumendo che l’estensione retinica dell’immagine ottica sia un indizio ambiguo della grandezza fisica dell’oggetto dello spazio visivo da cui l’immagine viene generata. Nel caso delle immagini postume solo il confronto con oggetti visivi esterni situati a distanze variabili di cui – per pregressa esperienza – noi conosciamo dimensioni e forma ci permette di attribuire una grandezza definita alla “conturbazione” di una certa porzione della nostra retina. Qualcosa di analogo accade per Castelli anche nel caso delle costellazioni e della Luna (e del Sole, aggiungiamo noi), oggetti ai quali, per la loro immensa distanza fisica, noi possiamo assegnare una dimensione visiva solo in rapporto ad un confronto percettivo. La grandezza attribuita alle immagini degli oggetti celesti dipenderà allora dal confronto con altri elementi della scena visiva o dalla diversa distanza percettiva alla quale noi   li collochiamo, sulla base della presenza o assenza delle «lunghe tirate di monti, e delle vaste campagne».

 

Quattro secoli dopo il Discorso l’interpretazione di Castelli rappresenta ancora una spiegazione valida dell’illusione della Luna, sebbene il fenomeno appaia ora molto più complesso, coinvolgendo altri fattori oltre quelli considerati dal dotto benedettino. Il punto importante è che Castelli è stato il primo a fornire una teoria percettiva di un fenomeno ben conosciuto, ma a lungo attribuito a un meccanismo ottico dovuto alla maggiore presenza di vapori nelle zone basse dell’atmosfera in grado di influire più nella visione all’orizzonte che allo zenit (spiegazione che non rendeva comunque conto dell’assenza di differenze significative alla misurazione astronomica nelle due condizioni).

  

spiegazione di Galileo della “illusione del Sole”

Schema che illustra la spiegazione proposta da Galileo della “illusione del Sole”, fenomeno analogo a quello descritto da Castelli per la Luna che è percepita più grande all’orizzonte che allo zenit. La spiegazione di Galileo è basata sull’effetto ottico del maggior spessore dei vapori atmosferici che si interpongono tra osservatore e Sole all’orizzonte rispetto allo zenit: a, b e c sono rispettivamente la posizione del Sole all’alba, a mezzogiorno e al tramonto; h-d-l rappresenta
la superficie della Terra; e-f-d la superficie dei vapori terrestri a cui Galileo imputa l’effetto illusivo. Lo schema appare in un’opera pseudonima di Galilei del 1606 Considerazioni d’Alimberto Mauri sopra alcuni luoghi del Discorso di Lodovico delle Colombe intorno alla stella apparita 1604. Nel 1623 la spiegazione verrà ripresa da Galileo nel Saggiatore. 

 

  

Che sia stato un astronomo della cerchia galileiana il primo a metter il dito sull’importanza di fenomeni percettivi in questo importante “inganno dell’occhio” non è un caso, considerata l’importanza della riflessione sul senso visivo nella rivoluzione scientifica propugnata da Galileo. Questa rivoluzione comportò non solo una de-localizzazione fisica dell’uomo dal centro astronomico dell’universo antico ma anche una mutazione profonda del suo rapporto cognitivo con il mondo, di cui egli non occupò più da allora una posizione centrale neppure dal punto di vista sensoriale e percettivo.         

 

 

Bibliografia

  

 

Il Discorso sulla visione inserito in Alcuni opusculi filosofici del Benedetto Castelli pubblicati a Bologna nel 1669 è reperibile in forma digitale nel sito Gallica della Biblioteca Nazionale di Parigi (http://gallica.bnf.fr) e nel sito del Museo Galileo di Firenze.

  

ROSS H.E. & PLUG C., The mystery of the moon illusion: exploring size perception, Oxford University Press, Oxford 2002.

 

 

PICCOLINO M., Lo zufolo la cicala: divagazioni galileiane tra la scienza  la sua storia, Bollati Boringhieri, Torino 2005.

  

PICCOLINO M. & WADE NICHOLAS J., «Galileo  Galilei’s  vision  of  the  senses», Trends in Neurosciences,  31,  pp.  585-590, 2008.

  

PICCOLINO M. & WADE NICHOLAS J., «Galileo e i segni dei sensi», Sapere, 56, 2009, pp. 56-63.

  

PICCOLINO M. & WADE NICHOLAS J. Galileo's Visions: Piercing the spheres of the heavens by eye and mind. Oxford University Press, Oxford, 2013.