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Passeggiate romane

 

Vicolo della fontana 

Passeggiate romane

 

Ambulando solvitur

 

 

Luciano Luciani

 

 

 

 

 

Sulla destra della via Nomentana, in direzione Porta Pia, mi si apriva d’improvviso Villa Paganini: di solito la prima tappa degli itinerari che, nella lontana terra di nessuno tra fanciullezza e adolescenza, mi portarono a una personalissima scoperta di Roma. Qui, inconsapevole che quei luoghi pochi anni più tardi sarebbero diventati la sede privilegiata di una mia confusa e complicata educazione sentimentale, percorrevo i viali del parco curati da silenziosi e solerti giardinieri e mi sedevo su una panchina fatta di lunghe assi di legno di color verde scuro. Tutt’intorno pini, camelie, alberelli di canfora, alberi di Ginkgo biloba e, addirittura, un giovane esemplare di sequoia americana. Finalmente riuscivo a posare gli occhi sui giornalini che mi ero portati da casa e per un’ora, un’ora e mezzo, fantasticavo su quell’epica a fumetti: senza macchia né paura Roland Eagle, Liberty Kid, il Principe Chiomadoro e le loro eroiche imprese colorate mi aiutavano nel riscatto da un quotidiano insignificante, dalle tempesta ormonale già in atto con tutti i suoi annessi e connessi e da una scuola arcigna che, sia pure dietro le spalle per qualche settimana estiva, continuava a proiettare sulla mia vita di quasi adolescente uno sgradevole cono d’ombra. Mi avrebbero rimandato a settembre in latino? E se in sede di scrutinio incombente la stronza di matematica avesse magari voluto aggiungere anche il suo ben noto giudizio negativo sulle mie men che mediocri capacità logiche? Chi glielo diceva a casa che avrei dovuto riparare addirittura due materie? Meglio non pensarci e tornare a immergersi nelle mirabolanti avventure dei miei eroi di carta preferiti e a sorridere dei buffi litigi di Arturo e Zoe e delle disavventure di Pedrito el Drito, sceriffo pasticcione di un Far West molto ma molto made in Italy.

 

Era un tempo, quello, solo e soltanto mio, Mia anche la villa che mi accoglieva col suo laghetto rustico, la fonte compresa in una nicchia rivestita da scogliere e sormontata da decorazioni graffite, una grotta e le aiuole occultandomi alle durezze di un’esistenza bambina ma già, ne avevo avute ampie prove, puntuta e tagliente. In quelle lontane mattine provavo una sensazione di splendido isolamento e di felice fusione coi luoghi raramente ritrovata, poi. nel tempo a venire. Il Poeta avrebbe detto che Lingua mortal non dice / quel ch’io sentiva in seno; io, più modestamente, che “stavo ‘na favola”. Destinata a durare poco, perché il sole salito nel cielo e la stagione preestiva rivendicavano i propri diritti: iniziava a far caldo. L’avrei contrastato con una grande bevuta a larghi sorsi di buona acqua fresca alla fontanella, risalente addirittura al 1600 tondo tondo di, appunto, vicolo della Fontana.

 

Tornato sulla via Nomentana, di fronte a me il largo e impenetrabile portone di Villa Torlonia, allora ancora chiusa al pubblico, dopo essere stata per anni la residenza della famiglia Mussolini: un nome a cui mio padre, chissà perché, associava sempre qualche parolaccia di quelle grevi o una tonitruante bestemmia.

 

Mi lasciavo Villa Paganini e le sue delizie alle spalle e riprendevo via Nomentana che di lì a poco incrociava l’inizio di corso Trieste, destinato a diventare, negli anni appena a venire, il luogo deputato alla mia formazione culturale e, perché no, umana. Ancora non lo sapevo, ma un segmento importante della mia vita si sarebbe svolto al numero civico 48 di quella strada elegante, tra le austere aule del Liceo Ginnasio statale “Giulio Cesare”, già frequentato da personaggi destinati a più di qualche fama e pubblica rilevanza: Vittorio Gassman, Maurizio Costanzo, Tullio De Mauro... Ma allora, al tempo di quelle escursioni cittadine in solitaria, il prossimo destino liceale mi era ancora ignoto e il futuro scolastico avvolto nelle brume caliginose di un pesante presente teso solo a cercare di cavare le gambe da una scuola media opprimente, triste, ansiogena. Non è un caso che gli oltre mille giorni trascorsi negli ambienti raccogliticci della Sms “Massimo D’Azeglio” - una palazzina di via Asmara frettolosamente riconvertita in scuola per fare fronte alla pressante domanda d’istruzione e di mobilità sociale dei numerosi figli del dopoguerra -  abbiano lasciato nella memoria soltanto un paio di cognomi di compagni di scuola e non i loro nomi.