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Apprezzare la bellezza della natura nelle erbacce

 

erbacce 

Opportunità ed esperienze per l’educazione ambientale

 

 Apprezzare la bellezza della natura nelle erbacce                                     

  

Claudio Longo

  

 

Quali sono gli argomenti che ricorrono più spesso nei discorsi degli

ambien­talisti?                         

Direi gli organismi transgenici, il nucleare, il riscaldamento del cli­ma, l’inquinamento atmosferico, la scarsità d’acqua, la morte delle foreste, le fonti energetiche alternative... Molto meno la bellezza della natura e quando capita è di striscio, quasi ci si vergognasse di menzionarla essendo in fondo poco importante... tanto non ne va della nostra pelle.

 

La bellezza è un valore scomodo, difficile.

Due modi opposti di vederla che provo a riassumere in due citazioni.

 

 

 

   La prima è del grande Dostoevskij:

 

"La bellezza salverà il mondo"

La seconda è un proverbio:

 

"Tutti i gusti son gusti"

 O il suo equivalente latino: "De gustibus non est disputandum"

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Immagino queste due opposte frasi incarnate in due personaggi.                                                         

La prima: un vecchio saggio con uno sguardo che sembra andare al di là del­le apparenze delle cose. 

La seconda: un anziano distinto signore che ha fatto un buon liceo, che in­troduce la sua citazione latina con un colpetto di tosse per attirare l’attenzione...

 

 Per togliere ogni equivoco dichiaro subito che sono un appassionato sosteni­tore di Dostoevskij. Ma per un istante vorrei fermarmi sull’affermazione op­posta.

 

Dice l’anziano distinto signore: «La rovina dell’ambiente è un dato oggetti­vo. Si può dimostrare con misure precise che gli ecosistemi si riempiono di veleni. La bellezza invece è un fatto soggettivo. Chi trova bella una cosa, chi un’altra. E sappiamo che nelle diverse civiltà i canoni di bellezza sono stati molto diversi...» ecc. ecc. ecc.                                           

Effettivamente i "gusti" estetici possono essere diversi - non solo per l’arte, anche per la bellezza della natura. Un tempo, per esempio, quando non si usavano ancora i lunghi viaggi andava di moda la contrapposizione mare/montagna.                                                              

Ma negli ultimi decenni c’è stata una colossale evoluzione nella percezione del bello in natura. Ormai sono in tanti a riconoscere che la natura è sempre bella - dappertutto, in tutti i suoi aspetti, anche quelli che fanno paura, anche quelli che possono sembrare desolati... È bello il bosco ma è bello anche il deserto, è bello un folto impenetrabile di mangrovie, è bella perfino una tun­dra artica battuta da un vento feroce che turbina pungenti cristalli di neve. Probabilmente questo allargamento della percezione del bello è dovuto ai soliti "media" e per molti rimane a un livello estremamente superficiale -  eppure lo considero un progresso.

 

 

 

Ci sono tanti tipi di bellezza in natura e ogni persona può avere diversi modi di apprezzarla, alcuni più viscerali, altri più razionali. Piuttosto che perdermi in discussioni teoriche racconto il mio caso personale come uno dei tanti esempi possibili. Io sono pigro e comodo, amo l’ombra, rifuggo dal sole violento, la natura che amo è quella dei quadri di Monet: acque, verde, chiazze di luce, ombre profonde, riflessi... Sento profondamente anche la bellezza del mare, ma mi rendo conto che questo sentimento è un prodotto, della mia storia e della mia cultura (ah, il Mediterraneo! ah, i classici greci!) più che degli istinti profondi. Infine la bellezza del deserto la riconosco solo con l’intelletto, ma a livello più profondo mi è assolutamente estranea. Certa­mente altre persone avranno scale di valori estetici completamente diverse.    

 

                                                                                                                                             

La bellezza entra facilmente in conflitto con altri valori. È normale: la vita è fatta di continui conflitti. In campo ambientale abbiamo per esempio il classico conflitto fra energia e inquinamento: più energia produci e consumi e più inquini. Si può uscire razionalmente da questo dilemma con un prudente ragionamento basato sul rapporto costi/benefici: non sarà facile, ma è possibile. E ora pensa invece alla bellezza, quando entra in conflitto con altri valori: investimenti di capitali, posti di lavoro, energia, possibilità di irrigare, comunicazioni veloci... In questo caso è molto più difficile ragionare in termini di costi e benefìci: si tratta di due aspetti troppo diversi, e alla fine è quasi sempre la bellezza ad aver la peggio. Nel linguaggio della matematica si potrebbe dire che bellezza e utilità sono due grandezze incommensurabili, come la lunghezza del lato di un quadrato e quella della sua diagonale. Ma è proprio questa incommensurabilità che fa capire quale valore impor­tantissimo sia la bellezza della natura. Credo che tutte le cose più importanti della nostra vita abbiano questa proprietà dell’incommensurabilità rispetto a valori che possono essere espressi in numeri, primo fra tutti il denaro. Quando la bellezza della natura esce da questa incommensurabilità, quando viene quantificata, quando viene trasformata in merce vendibile attraverso la pubblicità e il turismo, è probabile che finirà distrutta.

 

Intorno alla bellezza della natura la scienza fa il vuoto: fugge, aggira la dif­ficoltà. Per giustificare che un bel paesaggio va difeso dalle aggressioni edi­lizie la scienza tenta goffamente di quantificare con indici di biodiversità e molto altro. La scienza senza i numeri affoga. E così la bellezza della natura dimenticata dagli scienziati, sottovalutata dagli ambientalisti, viene lasciata in mano al mercato.

 

La bellezza della natura non la puoi definire. Se ci tenti ti scappa da tutte le parti. Puoi solo andare per esempi, fare un catalogo di cose belle. Il grande Leopardi faceva così. Quanta umiltà in questo suo tentare una lista di esempi e quanto orgoglio, invece, quanta presunzione nel voler ricondurre tutto a una definizione formale onnicomprensiva!

 

Di esempi di bellezza della natura potrei parlare all’infinito. Mi limito perciò alle piante - non per niente insegno botanica. Anzi, limiterò ancora di più il mio argomento: parlerò solo delle erbe spontanee - le infestanti, le volgarissime erbacce...

 

Credo che la parola "erbaccia" venga spesso usata a sproposito. Essa ha una sua legittimità in agricoltura dato che le erbe spontanee portano via acqua e nutrimento alle piante coltivate piante.                                                                                                                

 

Ma in un giardino dove non è questione di utilità ma di estetica, come fai a definire erbaccia una pianta? Puoi solo dire che è un elemento estraneo che turba un progetto omogeneo, puoi dire che stona, ma come fai a definirla brutta? Di un bel quarantenne abbronzato, vestito elegantemente casual a una festa in cui tutti sono in abito da sera diresti che è brutto? Molto meglio, quindi, parlare di piante spontanee o di erbe selvatiche. Queste erbe selvatiche, in Inghilterra le apprezzano molto. C’è una straordi­naria parola della lingua inglese che è wildflowers, non del tutto traducibile con "fiori selvatici" essendo molto più ricca di risonanze emotive: per gli inglesi i wildflowers sono l’equivalente dei boschi per i tedeschi. L’Inghilterra è povera di foreste e il suo immaginario collettivo si scatena negli alberi isolati, nelle siepi, nei wildflowers. Ricordo sempre, cin­quant’anni fa, in un sobborgo di Londra una profonda trincea con le scarpate meravigliosamente fiorite in fondo alla quale correvano i binari della ferro­via e in cima alla scarpata stavano appollaiati dei ragazzini ad aspettare il passaggio dell’espresso della sera per la Scozia - c’erano le locomotive a vapore allora, e questa era un mostro con le ruote alte come un uomo. Wil­dflowers, trincea, binari, il nero mostro fumante, i ragazzini... tutto faceva assolutamente parte del quadro, era un perfetto concentrato di Inghilterra anni cinquanta.

 

Quali sono questi wildflowers inglesi? Più o meno gli stessi che crescono da noi: viole, papaveri, primule, ranuncoli, margherite...

 

Qualcuno potrebbe dire: «Abbi pazienza, quelli che hai citato sono fiori sel­vatici che tutti apprezziamo, ma le erbacce sono un’altra cosa». Non è pro­prio così: c’è un passaggio graduale dal fiore selvatico che tutti riconoscono come bello all’erbaccia aborrita da tutti. Prendi per esempio il centonervi, Plantago in latino, un’erbaccia fra le più "acce" che ci siano e guarda l’eleganza della sua infiorescenza con la sua bianca corona di stami che in­dica quali fiori sono in pieno rigoglio in quel momento... Oppure il verbasco con le sue grandi foglie coperte di peli argentei e le sue spighe di vistosi fiori gialli che si drizzano superbe come un candelabro. Da noi è un’erbaccia che colonizza macerie e scarpate ferroviarie, in Inghilterra il verbasco lo coltivano nei giardini...

 

Mi viene in mente un esempio bellissimo di vegetazione spontanea a Mila­no, paragonabile alla trincea ferroviaria di Londra. Qualche anno fa lungo via San Faustino, una strada periferica, si era formata da sola una meravi­gliosa decorazione di papaveri alternati ad avena selvatica: il simbolo dell’estate in arrivo, rosso e argento, un’alternanza di colori bellissima. I lunghi steli dell’avena oscillavano al vento. Ma questa bellezza non fu capi­ta, le erbacce furono tagliate a zero e sui monconi fu spruzzato il diserbante in modo che non ricrescesse più nulla. E come avrebbe potuto essere capita questa straordinaria bellezza che aveva osato formarsi da sola, per la quale non erano stati spesi dei soldi, che non aveva dato luogo ad alcuna movi­mentazione di denaro?

 

Sono recriminazioni sterili, era assolutamente impossibile che questa mera­viglia fosse salvata... potevano forse i miseri operai della ditta appaltatrice accollarsi la responsabilità di non procedere come previsto dal capitolato? Ma proprio questa inevitabilità la dice lunga sulla civiltà di oggi.

 

 

 

Per riconoscere quanto sono belle tutte le erbacce devi liberarti da due pre­giudizi: le dimensioni e i colori. Non solo i fiori grandi e vivacemente colorati sono belli; bisogna piuttosto saper vedere l’eleganza delle forme. Un fiore coltivato - grande, colorato, pieno di petali - può a volte apparire un po’ volgare; un’erbaccia, invece, non è mai volgare, ha sempre una sua nobile eleganza nascosta sotto le apparenze modeste. Prendi per esempio la gramigna, un’infestante tremenda che si allarga orizzontalmente in tutte le direzioni con i suoi fusticini che sembrano piccoli bambù, e improvvisamente lancia in su la spiga, una stella ai cui esili rami si attaccano i delicati stami bruni tremolanti e i pistilli simili a piumini violetti o a delicati alberelli (beh, per vederli così ci vuole la lente, ma non occorre che ingrandisca molto).

 

Questo apprezzare le semplici erbacce è in fondo un gesto trasgressivo, di quelli che potenzialmente sono capaci di far crollare una civiltà. Tutto nel nostro mondo ci spinge ad ammirare quello che è grande - big big big! - e molto molto molto colorato, una specie di Disneyland continua. Apprezzare le erbacce vuol dire andare al di là delle apparenze, vuol dire apprezzare la semplicità, l’eleganza, le cose che non costano nulla.

 

Inutile fingere: dipendiamo dai soldi in tutto. Ma quelle poche volte che pos­siamo trasgredire alla ferrea legge del denaro possono essere momenti di grande felicità, possono essere occasione di piccoli gesti di ribellione da questa perpetua schiavitù.

 

Riconoscere la semplice eleganza delle erbacce ci aiuta a riconoscere altrove questo tipo di bellezza. Aiuta a ritrovarla nell’arte, perfino nel design degli oggetti di uso comune...

 

E ora vorrei raccontare di due modi attraverso i quali le erbacce possono rendere un po’ più bella la nostra vita.

 

Per alcuni giorni andando al lavoro incontravo una robusta piantaccia tipo dente di leone che cresceva in una fessura fra l’asfalto e un muro, piena di fiori di un giallo luminoso come piccoli soli. Ogni mattina la guardavo, ci sprofondavo dentro, cercavo di abolire ogni pensiero in quel momento. Era solo per un istante, ma quell’istante perdeva ogni contorno, poteva sembrare infinitamente lungo... Guardandola provavo un senso straordinario di riconoscenza, di felicità, senza motivo. Sapevo che la pianta non sarebbe durata, sapevo che il mio senso di felicità non sarebbe durato, ma in quel momento non me ne importava niente.

 

Lo so che poter contemplare un fiore in questo modo è un grandissimo privi­legio. Se hai qualche forte preoccupazione è quasi impossibile. Ma se invece fosse un dispiacere, una delusione? Contro un’angoscia proiettata nel futuro un fiore può far poco, ma contro un dolore passato sì, può essere un minimo minimissimo aiuto per guarire...                                                   

Ma poi... speriamo che non avrai proprio tutti i giorni della tua vita grandi angosce, preoccupazioni, dolori... In una "solita" giornata mediamente caro­gna, con le solite grane, un fiore ti può aprire il cuore alla bellezza dell’universo. E non dire che non hai tempo. Dieci secondi mancheranno davvero al tuo bilancio del tempo? To your tight budget of timel Se sai sprofondare nella bellezza, dieci secondi possono essere straordina­riamente lunghi.

 

 

 

L’altro modo è disegnare. Disegnare rende più facile l’apprezzare la bellez­za, l’eleganza delle linee soprattutto. Non c’è bisogno di una grande esperienza di disegno, basta averne voglia. Se ne hai voglia e non sei proprio completamente negato ti puoi procurare un inaspettato piacere. Il modo classico di raffigurare le piante è l’acquerello botanico che può dare risultati straordinari, ma richiede una grande abilità tecnica, una grande di­sponibilità di tempo e un’altrettanto grande pazienza. Per fortuna questo non è l’unico modo per avvicinarsi alle nobili forme delle erbacce. Se l’acquerello botanico non fa per te non hai proprio nessun motivo per rinunciare a disegnare. Un metodo alternativo può essere quello di schematizzare all’estremo.

 

Questo non implica abilità tecniche particolari. Puoi usare il mezzo che ti è più congeniale: biro, pennarello, matita, rapide pennellate di acquerello... Abilità tecniche no, ma un occhio sintetico sì, in modo da riuscire a catturare il motivo principale. Si potrebbe chiamarlo il principio informatore di tutta la struttura, si potrebbe chiamarlo il movimento base. Volendo si potrebbe mimare la struttura della pianta con dei gesti. L’espandersi a stella come nella gramigna, l’alternarsi a zigzag che c’è in tanti rametti - una foglia e una gemma a destra /una foglia e una gemma a sinistra/ di nuovo una foglia e una gemma a destra ecc. Così la struttura della pianta diventa una danza. Può essere semplicemente la danza della matita o del pennello sulla carta. Il grande Paul Klee utilizzava molto questo metodo per insegnare quando stava alla famosa Bauhaus di Dessau in cui negli anni dopo la prima guerra mondiale hanno lavorato e insegnato molti grandi artisti. E ora immagina che qualcuno ti dica: "ma tu credi di salvare il mondo con­templando le erbacce?" Guarda con quanto astio te le dice, con quanto disprezzo. Se si spreca tanto per te, allora vuol dire che apprezzare la bellezza di queste minime cose della natura dev’essere una cosa seria.

 

 

Esprimere la bellezza con parole e immagini

 

 

Comunicare ad altri la bellezza della natura. Hai voglia di farlo? Può bastare il mostrar le cose col dito, in silenzio.

 

Ma forse hai voglia di comunicare anche le emozioni che ti suscitano le cose belle. Se ne hai voglia lascia espandere liberamente l’anima, non farti ostacolare dalla materia.

 

Per esempio: ti piacerebbe esprimerti con la parola, ma fai fatica a scrivere? (pigrizia, scarsa confidenza con la scrittura) E perché voler scrivere tanto? Potrebbero bastare singole frasi, poche parole, magari slegate. O meglio le­gate insieme, ma con la massima economia e semplicità, come gli haiku giapponesi.

 

Questi che ora vi regalo non sono haiku giapponesi, sono di Abbas Kiarostami, il regista iraniano di "Il sapore delle ciliegie" che è anche fotografo e poeta. Un commentatore li chiama "haiku laici e terreni" contrapposti a quelli giapponesi che sono filosofici e simbolici.

 

 

 

È stato colto

 

e lasciato per terra

 

un fiore

 

non abbastanza profumato

 

***

 

Porgo gli orecchi

 

al mormorio del vento

 

al rimbombo del tuono

 

alla musica delle onde.

 

***

 

Immergo

 

il volto nell’acqua della fonte

 

con gli occhi aperti

 

dieci sassolini.

 

 

 

Fiori d’arancio

 

sull’acqua di un ruscello

 

dopo la pioggia.

 

***

 

Sale a stento

 

una formica

 

sul tronco di un albero vecchio

 

qual è la sua meta?

 

***

 

 Il sole

 

ha portato via la rugiada

 

appena dopo l’alba.

 

***

 

(da Abbas Kiarostami, Un lupo in agguato, Einaudi Tascabili)

 

 

 Il minimalismo delle cose della natura/il minimalismo delle parole. Oppure, al posto della parola, il disegno, il solito stramaledetto disegno. Quante persone mi dicono "non so disegnare"!

 

Due casi. Non hai nessuna voglia di disegnare? Lascia perdere. Si può vivere anche senza, non è poi così importante. O invece hai voglia ma pensi di esser negata/o? Parti con coraggio.

 

Prova con l’astrazione, la stilizzazione, le forme geometriche più semplici, pochi tratti, l’equivalente di Kiarostami espresso in linee. Le piante sono più semplici degli animali perché questi ultimi in genere non stanno fermi e hanno delle forme non facili da rendere. Gli alberi hanno una maggior variabilità: se sbagli (il tronco troppo grosso, un ramo troppo lungo) nessuno se ne accorge, potrebbe essere anche così. Invece, se sbagli l’elegante linea di un gatto o di una cornacchia chiunque se ne accorge subito.

 

Ma perché sempre solo disegnare un albero? Uffa che noia! Non è facile neanche lui a dire il vero, se non ci sai fare ti viene goffo e tozzo ed è frustrante. Meglio particolari più piccoli: un rametto, un fiore, delle radici, il dis­gno di una scorza.... Semplificare, stilizzare, astrarre con coraggio, mirare all’essenziale. Non precipitarti a copiare subito, lascia che prima un’immagine complessiva si formi nella tua testa.

 

Esempio: immagina di voler disegnare un rametto con quattro foglie all’estremità. Cominci a fare un tratto per rappresentare il rametto. Poi vorresti rendere più realisticamente lo spessore e fai un secondo tratto parallelo al primo. Spesso questo secondo tratto viene un po’ maldestro: appesantisce il ramo, gli toglie lo slancio. Meglio lasciar perdere. Delle quattro foglie cogli con attenzione le posizioni reciproche piuttosto che i minuti dettagli del contorno.         

Modelli possibili a cui ispirarsi: Klee, l’arte dell’Estremo Oriente. Un bellis­simo libro su Klee come insegnante ha il sottotitolo Una devozione alle pic­cole cose.

 

La civiltà di oggi dà un’immensa importanza al colore. La forma è razionali­tà, il colore è emozione. La forma è per le persone ricche e colte, il colore è per il popolo. Nei remoti e bollenti anni settanta si sarebbe detto: "riappropriamoci delle forme semplici, disintossichiamoci dall’orgia di colori.                                                                           

Perché le forme semplici ed eleganti devono stare solo nei salotti dei miliardari?" Ma può essere che la tua anima agogna al colore e se ne frega dei condizionamenti sociali. Via allora con coraggio! Tieni solo il colore e butta a mare la forma, tutte le forme.

 

Esempio. Prendi un grande foglio e parti con gli acquerelli! Grandi superfìci che splendono di colori autunnali: giallo, rosso, viola, ocra... Poi, se proprio vuoi, in questi campi di puro colore puoi tracciare liberamente contorni di foglie che si intersecano.

 

Perché ti costringi a copiare dal vero a ogni costo? Se stai seguendo degli studi formali certamente devi farlo. Ma se vuoi solo godere e comunicare un pochino del bello della natura, forse non ne vale la pena. Pensa a certe persone che sanno disegnare dal vero con una buona sicurezza. Fanno i contorni, poi ci mettono il colore. Giuste le proporzioni, giuste le ombre, verosimili anche i colori, magari un po’ smortini... Il tutto così normale, così banale... Poi arriva un artista, semplifica, deforma, inventa colori inesistenti... eppure alla fine il suo disegno ha una potenza evocativa che l’altro, apparentemente più simile al vero, non ha.

 

E quindi, via con coraggio! Non preoccuparti se viene una skifezza le prime volte.

 

Aver voglia di esprimersi, buttarsi con coraggio, tracciar linee, pennellar colori, con gioia ... tutto questo è più importante del prodotto che verrà fuori. È un "prodotto collaterale": potresti anche buttarlo via appena fatto.

 

Disegnar linee è in primo luogo un gesto: ascendente, discendente, lento, veloce, tranquillo e regolare o invece spezzato e nervoso... La gioia di questo gesto. Penna, pennello o matita che danzano sulla carta.

 

Quel che resta sulla carta è la traccia postuma di questa danza, una traiettoria materializzata, come il segno del passaggio della lumaca. Non è così importante.

 

Quel che veramente conta è un altro prodotto collaterale - invisibile - di questo tuo agire: impari a vedere, impari a rallegrarti del bello.

 

 

 

In Per una ecologia dell’educazione ambientale a cura di E. Falchetti e S. Caravita, ed. Istituto per l’Ambiente e l’Educazione Scholè Futuro Onlus, 2005