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Quando eravamo noi i migranti

 

emigrazione italiana 

Quando eravamo noi i migranti

 

 

 

Un’Italia fuori di sé

 

 

 

Luciano Luciani

 

 

 

Il secolo che ha tenuto dietro all’unificazione politica e amministrativa del nostro Paese ha conosciuto un fenomeno di proporzioni bibliche ancora in gran parte trascurato dagli storici, poco indagato dai ricercatori sociali, misconosciuto dai più: l’esodo di almeno 25 milioni di connazionali.

 

A cacciarli lontano dai loro modesti beni, dalle povere case, dai luoghi di origine il rapporto ineguale tra Nord e Sud, la contraddizione città-campagna, la spietatezza di leggi economiche tutte volte a garantire esclusivamente gli interessi e i privilegi di una borghesia anche allora ‘emergente’ e ‘rampante’, anche allora tanto rapace quanto meschina, tanto gretta quanto priva della coscienza del bene collettivo. Ad allontanarli dai paesi e dalle campagne – che l’emigrazione nostrana è non solo ma soprattutto contadina e meridionale – la volontà di fuggire a un fiscalismo occhiuto, scongiurare la maledizione e l’avvilimento delle malattie, e la speranza di un lavoro decoroso e retributivo quel tanto che permetta una vita degna di essere vissuta: mangiare tutta la famiglia tutti i giorni, una casa decente, l’accesso alla cultura almeno per i figli. Ma, come suona il testo di una poesia rivoluzionaria di Pietro Gori, l’Italia, ‘genitrice amorosa’ per alcuni, tratta da ‘bastardi’ la maggioranza dei suoi figli e li costringe all’estero in una diaspora di proporzioni immense: nel corso di pochi decenni i suoi protagonisti arriveranno a toccare ogni punto del pianeta, dalla Terra del Fuoco all’Australia, dai deserti africani a quelli gelati del Canada e dell’Alaska, in una silenziosa epopea “che per vastità costanza e caratteristiche non trova riscontro nella storia moderna di nessun altro popolo”. (E. Enriquez Agnoletti)

 

A tutt’oggi ci sembra che – se non in maniera parziale ed episodica, spesso distorta dal nazionalismo o viziata dal paternalismo – non siano apparse intelligenze e penne di storici e saggisti, romanzieri e poeti, interessate o capaci di interpretare e raccontare le ragioni e le passioni, le durezze e le sofferenze, gli egoismi e gli eroismi di oltre 100 anni di emigrazione italiana. Una vicenda enorme, formidabile che per dirla con Braudel ha validamente contribuito, col rinnovarne la sostanza, al decollo umano delle Americhe: quella portoghese, quella spagnola, quella anglosassone”. E scusate se è poco!

 

 

 

“Per terre assai lontane” partono tre milioni e mezzo di veneti, due milioni di piemontesi e altrettanti dalle province della Campania; più di due milioni emigrano dalla Sicilia, un milione e mezzo dalla Calabria e un milione sono gli abruzzesi che sono costretti a cercare avventurosamente “fortuna” all’estero. Se liguri e piemontesi si orientano verso la Francia, i veneti e i friulani si disseminano dalla Russia all’Egitto, si mescolano col ‘melting pot’ australiano, si confondono col mosaico dei popoli dell’impero austro-ungarico e di quello ottomano. A una prima fase, che arriva fino alla fine del secolo, in cui il fenomeno migratorio tocca prevalentemente le regioni settentrionali e in cui gli emigranti appaiono relativamente colti e relativamente qualificati dal punto di vista professionale, ne succede una seconda, che va dai primi anni del Novecento fino alla metà degli anni Venti, quando si muovono masse enormi di italiani poveri, prevalentemente meridionali, analfabeti, dequalificati professionalmente. Milioni di connazionali partecipano a questo fenomeno imponente, ‘esportati’ all’estero secondo i disegni della classe dirigente liberale, targata Sella, Depretis o Giolitti. L’emigrazione è una valvola di sfogo. È l’antidoto alla rivoluzione sociale, l’alternativa alla pressione delle masse contadine che avrebbe finito per imporre trasformazioni sociali in senso certo non favorevole ai secolari rapporti di proprietà. Sentite cosa scrive Sidney Sonnino, che non era di sicuro un fior di democratico, ma possedeva il bene di parlare chiaro: “…tutta l’elevazione sociale sarebbe inutile e non riuscirebbe a contenere la ribellione delle masse se non vi fosse un esodo continuo dalle campagne; in Toscana verrebbe minacciata la mezzadria, nel sud persisterebbe il brigantaggio”.

 

Anche la Toscana prende parte e in maniera massiccia a questa deportazione lunga un secolo. I suoi ‘ambasciatori della miseria’ muovono dalle zone più povere e arretrate della regione, dalla Lunigiana, dalla Garfagnana, dalla montagna pistoiese, dalla Lucchesia e secondo i più accreditati storici dell’emigrazione il loro numero oscillerebbe tra il milione per difetto e un milione e mezzo per eccesso. Un mondo intero quello della Toscana fuori di sé, in genere rimosso come una cattiva coscienza e quindi poco studiato e ancor meno conosciuto, dallo stesso dato quantitativo alle sue motivazioni, agli esiti dell’impatto fra culture, psicologie, valori differenti.