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Lamentazioni didattiche

 

 

lamentazioni didattiche 

Lamentazioni didattiche

 

Maria Arcà

 

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Il contrasto tra i genitori che vorrebbero aiutare i bambini a capire meglio quello che devono studiare per scuola e i bambini che rifiutano categoricamente di fare o capire altro rispetto a quello che ha detto la maestra o la professoressa non è certo nuovo, ma diventa sempre più insanabile. Sembra che le uniche effettive competenze che i ragazzini acquisiscono nella loro formazione siano quelle di sopravvivere alla scuola, adeguandosi di volta in volta ai diversi stili di insegnamento dei loro docenti. Ascoltare un padre che cerca di far vedere su un mappamondo i meridiani e i paralleli, o ascoltare una madre che, parlando dei litri, invita il figlio ad andare a prendere il cartone del latte mette in serio pericolo la competenza di cui sopra. E il litro deve restare nell’universo astratto delle unità di misura da libro, senza neppure sfiorare la cruda materialità dell’esperienza concreta. E’ sempre stato così? Probabilmente sì, ma certamente sono intervenuti nella scuola alcuni elementi che hanno peggiorato la situazione.

 

Per esempio il problema della sicurezza: nella scuola elementare – prima che diventasse scuola primaria di primo grado- i Programmi ministeriali invitavano ad usare le classi come laboratori, dove non ce ne erano di appositamente attrezzati. Gli scaffali si riempivano di reperti di ogni tipo, si usavano fornelletti a piastra per guardare l’evaporazione dell’acqua o la fusione della cera, si facevano soluzioni di sale o di tempera a diverse concentrazioni, si guardavano animali allevati in classe e se ne studiava il comportamento. Ora i pericoli insiti in queste semplici attività le rendono “legalmente” impossibili, e le conoscenze che le pratiche avrebbero permesso di acquisire vengono introdotte sui libri di testo da disegnucci di pupazzetti operosi, con fumetti più o meno comprensibili, verificate da questionari a crocette che i bambini di ogni età imparano a compilare con un’arte veramente straordinaria, talvolta senza quasi leggere le domande.

 

Per esempio, i libri di testo. Le informazioni scolastiche che un ragazzino di nove o dieci anni dovrebbe padroneggiare sono straordinariamente numerose e complesse. Ne fanno fede i nove chili di zaino che ogni bambino deve quotidianamente portare a scuola. Mi è capitato di poter collaborare alla compilazione di un cosiddetto sussidiario e sono rimasta veramente esterrefatta davanti alla impossibilità di scrivere dei testi semplici e aggiornati, liberati dalla paccottiglia di nomenclature e luoghi comuni che la cultura di oggi ha reso particolarmente obsoleti. “Altrimenti non si vendono”, “Gli insegnanti sono abituati a trovare queste informazioni in questo ordine”, dicono i responsabili delle case editrici. Gli insegnanti, a loro volta, chiudono il circolo vizioso dicendo: “Se sta scritto sul sussidiario lo devo fare”, “la classe accanto ha già fatto gli ovovivipari e noi siamo un po’ indietro”… Questa ossessione onnivora spinge gli insegnanti a non tralasciare neppure una riga da assegnare come compito a casa ai ragazzi e spinge gli autori a fare “tana” per ogni argomento che sia possibile anche solo nominare nel loro testo. Soprattutto bisogna “andare avanti, dato il poco tempo a disposizione” per cui è proibito ripetere, in altri contesti e con altre parole, nozioni schematizzate ed esposte precedentemente, dimenticando quanto sia importante per un bambino, ri-trovare, ri-conoscere e ri-utilizzare qualcosa che ha fatto fatica ad imparare.

 

La possibilità di costruire interesse e curiosità per quello che i bambini dovrebbero conoscere è ormai assolutamente lontana dalla didattica in ogni ordine di scuola: se indagare sulle idee esistenti richiede tempo e fatica, molto più facile e sbrigativo è contare le crocette che corrispondono a sedicenti conoscenze e competenze dimostrate dai bambini nelle risposte ai test. Così i litri corrispondono a disegnetti di bottiglie che nessuno saprà mai quanto sono effettivamente grandi, e gli etti non corrisponderanno mai né ad un barattolo di pelati né a poche fette di prosciutto.

 

Il modo con cui i sussidiari si rivolgono ai bambini è anch’esso ambiguo: talvolta si usa un linguaggio infantiloide, ipersemplificato e banalizzato, altre volte si usano parole tecniche, particolarmente ostiche e dal significato sconosciuto ai bambini stessi che non sanno nemmeno pronunciarli. Cosa sarà mai la nitrite carbonica? I tabù linguistici sono divertenti (e umilianti al tempo stesso): quello di cui si può parlare o non parlare nei sussidiari è rigorosamente codificato da una tradizione di sedicente linguaggio scientifico. Guai a non elencare le mitiche quattro tappe del “metodo” talvolta definito Galileiano mentre forse, se lo avesse saputo, Galileo avrebbe volentieri abiurato a questa indebita attribuzione. Guai a non elencare separatamente gli apparati a proposito del corpo umano invece di metterne in evidenza l’integrazione funzionale, guai a non usare la parola corpo a proposito di oggetti fisici. Nei testi più moderni, talvolta, trapela la distinzione tra sostanze organiche e inorganiche, mentre in altri non si può parlare di molecole organiche, troppo complicate per un bambino che invece deve sapere la differenza (quale?) tra carboidrati e proteine. Così concetti scientifici necessari per parlare di fenomeni complessi devono essere tradotti in un didattichese obsoleto, solo per rispettare i riti e miti della classe docente.

 

E’ impressionante notare in molte scuole, certamente non in tutte, l’acquiescenza dei docenti a questi percorsi obbligati (imposti da chi? Dagli stipendiati delle case editrici? Nelle Indicazioni Nazionali c’è scritto ben altro). Secondo le peggiori tradizioni, si ripresentano le eterne rivalità con le classi “più avanti”, sostenute dall’incapacità di valorizzare un proprio metodo didattico davanti ai genitori che, forse, potrebbero volere il bene culturale dei loro figli e non una gara a chi snocciola più nomenclature. La formazione pedagogico-didattica universitaria invita costantemente le future maestre a “partire dal bambino”… (per arrivare dove?), a rispettare le diversità; ma la formazione disciplinare delle studentesse o delle neo-laureate è veramente insignificante. Manca una solida base culturale (disciplinare) che permetta di trasformare i contenuti in didattica e di trovare nelle idee dei bambini gli agganci per svilupparli. Mai come oggi le difficoltà cognitive vengono sottovalutate e affrontate come difficoltà relazionali. Ma star bene a scuola non basta per capire le cose. Del resto, come fa una giovane insegnante, con la preparazione di cui dispone,  a capire quali sono le idee dei bambini da cui “partire” o le loro difficoltà, come può sviluppare discorsi ed esperienze non standard ma centrate su effettivi interessi, come può insegnare ad imparare e non a ripetere frasi fatte, a scrivere pensieri invece di scrocettare risposte?

 

Anche le insegnanti di una volta erano abbastanza ignoranti, in media, ma forse erano meno ambiziose e non pensavano di dover insegnare ai bambini la struttura del DNA senza poter parlare di molecole o ragionare sull’origine dell’Universo a partire dal Big Bang (e non Bing Bang come sta scritto su certi libri). Il tempo a disposizione per l’insegnamento è sempre di meno, eroso da stravaganti Progetti, da burocrazie invasive, dalla incapacità o cattiva volontà degli insegnanti di usare il tempo a disposizione per programmare e confrontarsi sulle attività di classe, sulle proprie difficoltà o sui propri successi. Sarebbe ora che per acquistare dignità professionale si valorizzasse la capacità di lavorare sugli argomenti essenziali delle diverse discipline, imparando a contestare i luoghi comuni della tradizione didattica. La scelta delle cose importanti su cui ragionare con i bambini non è certo facile (e i sussidiari non aiutano affatto) ma le semplici informazioni sono oggi accessibili anche ai bambini ed è compito dell’insegnante organizzarle e collegarle in sistemi ricchi di significato. La tradizione impone di far studiare la fotosintesi a bambini di terza elementare, ma quanti adulti, compresi gli insegnanti e gli autori di sussidiari, saprebbero veramente capaci di rendere comprensibile questo quasi incredibile processo?

 

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Commenti Sandra Simonelli Lucrezia Pedrali Maria Castelli Anna AiolfiMarida Baxiu Nadia Paterno Cristina Brotto Alma Saisi Maurizio Maggiani: La maestra che non ama la carta Duse Lemetti

 
Chiedo venia per gli errori che nella foga mi sono sfuggiti. ma garantisco che la mia maestra, anche se con metodi da gerarca fascista insopportabili, delle solide basi della lingua italiana me le ha date.
Sono d'accordo sui sussidiari che danno ai bambini una quantità di informazioni di cui non sanno che farsene e per semplificare dicono cose inaccettabili dal punto di vista scientifico, sono d'accordo anche sul fatto che la maggior parte dei docenti (e degli editori di conseguenza) non amano libri che non seguono l'ordine stabilito. Però l'insegnante può assumersi la responsabilità di fare di testa propria e magari non finire il programma ma su quel poco che è riuscito a spiegare (bene) e a far capire (bene) insegnare ai bambini o ai ragazzi come servirsi di quelle basi per andare a cercare e a studiare tutto quello che desidera. Io credo che sia già molto fornire ai bambini una buona padronanza della lingua e delle solide basi matematiche intese come mezzo e non come fine (Emma Castelnuovo che ho avuto la fortuna di avere come insegnante mi ha fatto capire che si studia "per mezzo" della della matematica e non "per capire la" matematica). Il resto verrà dopo ma senza basi solidissime non si costruisce niente. E poi bisognerebbe far capire ai bambini e soprattutto ai genitori che il voto non ha importanza e ha ancora meno importanza essere più bravi di qualcun altro. Io credo che la competizione sia il problema più grave e che dare un voto alla cultura, come all'intelligenza sia una sciocchezza. 
Qualcuno ha detto che i bambini nascono intelligenti poi i grandi li fanno diventare cretini. E' una battuta ma credo sia abbastanza vera. Io non ho la più pallida idea di quale sia il metodo didattico vincente alle elementari e credo che il lavoro di una maestra (brava) sia molto più arduo di quello di un docente universitario (bravo) non per i contenuti, certo, ma per l'età dei discenti, però credo che i problemi della scuola siano gli stessi dall'asilo al post doc: si bada troppo a "quello" che si impara e si trascura il "come" e soprattutto il "perché" uno studente si pone davanti a quello che studia.
 

Lucrezia Pedrali

Condivido l’articolo in ogni sua parte e credo sia una perfetta e impietosa fotografia di quanto sta accadendo nella scuola primaria. Si potrebbe ripartire da qui per progettare anni di formazione su ogni singolo aspetto preso in considerazione dall’Autrice.

Mi permetto di esprimere alcune riflessioni collaterali.

È particolarmente faticoso in questo momento pensare ad una scuola intesa ancora come luogo di promozione della conoscenza che si ripensi nella dimensione della essenzialità e che abbia le caratteristiche della pluralità, della interpretatività, della attenzione al contesto e al territorio, aperta a tutte le altre possibilità. Una scuola difficile e, in questo senso, impegnativa. I bambini e le bambine che incontriamo nelle nostre scuola hanno bisogno di incontrarsi e di confrontarsi con aspetti della cultura “alta”. La necessaria essenzialità che si impone nella definizione dei contenuti dei saperi, non significa banalità o minimalismo. Al contrario: i contenuti proposti necessariamente assumono valore paradigmatico della conoscenza, e quindi, a maggior ragione, dovrebbero essere pensati in funzione della loro significatività e pregnanza. Nella scuola di tutti deve essere riportata la cultura importante, proprio per resistere all’idea che, per educare ai bisogni del tempo corrente, alla maggioranza basti una qualche forma di addestramento, riservando la cultura importante ad altri luoghi.

Stiamo facendo troppo a scuola (e senza ottenere esiti particolarmente brillanti se le indagini di valutazione hanno un qualche grado di aderenza alla realtà). L’eccesso di proposte che appare perfettamente in linea con la visione mercantilistica del vivere, sta riducendo all’angolo la voglia di imparare; l’horror vacui ci porta a riempire di stimoli e di contenuti ogni più piccolo spazio anche nella vita delle classi e questo produce disamore per la conoscenza che sempre meno si costruisce e sempre più si subisce. C’è troppo di tutto nella vita nostra e dei bambini, manca il bisogno di ripensare ad altre possibilità, ad altre risposte e l’apparente adultità nasconde e maschera la fragilità di chi si sente oppresso dal già definito, dal troppo ordine e dalla ripetitività. Eterni bambini pensati secondo modelli schizofrenici: da un lato spinti verso la competitività e il raggiungimento del successo, dall’altro riempiti di informazioni, oggetti, giochi per prevenire ogni insoddisfazione e frustrazione. Non c’ è neppure bisogno della ribellione per manifestare il proprio bisogno di autonomia: anche quella si può prevenire con adeguati rinforzi e concessioni. Allora perché desiderare di apprendere per cambiare e migliorare le proprie condizioni di vita e ambientali? Perché desiderare di fare la fatica di crescere? 
 

Condivido ogni riga scritta finora e ringrazio la prof. Arcà per aver dato il là al dibattito. Mi soffermo brevemente su alcuni aspetti.

Per quello che ho vissuto in 42 anni nella scuola elementare, gli esempi giustamente citati e descritti sono stati la mia esperienza diretta dagli anni 70, non solo degli ultimi anni. Ho avuto colleghe e colleghi che sull’ascolto dei bambini e su una buona conoscenza disciplinare sapevano costruire con impegno e passione percorsi di apprendimento motivanti e pieni di senso, capaci di accompagnare la crescita cognitiva e relazionale delle classi. Era una grande fortuna per i genitori avere docenti in gamba per i propri figli e per un docente trovarsi a tu per tu con colleghi preparati.                                                         Poi c’erano gli altri. La nostra scuola purtroppo non è ancora riuscita a superare questa connotazione “a macchie di leopardo”, anche all’interno dei singoli istituti, perché a fare la differenza sono ancora la preparazione, la motivazione e la passione di chi insegna.

Che cosa è cambiato negli ultimi anni nel quotidiano delle scuole, rendendolo più difficile?

- Sono entrate in vigore le Indicazioni nazionali, senza l’accompagnamento di una formazione diffusa. Quando entrarono in vigore i programmi del 1985, per cinque anni furono organizzati corsi di formazione, occasione preziosa per affrontare insieme temi cruciali. Molti docenti conoscono poco le Indicazioni, in buona parte ignorate dagli editori dei libri di testo, oggi ridondanti, banali e talvolta inutili più che in passato. La formazione disciplinare in itinere, indispensabile per crescere professionalmente, è trascurata soprattutto negli ultimi anni.

- E’ in vigore la valutazione di istituto e questo ha reso i dirigenti più invadenti nella gestione organizzativa e anche didattica delle scuole, che consiste anche nella scansione temporale comune a tutti i docenti dei contenuti disciplinari, delle attività e delle prove di verifica quadrimestrali. La predisposizione di questi materiali “condivisi” viene richiesta ai docenti senza il tempo necessario per approfondire con il supporto di esperti disciplinari, per progettare insieme, per mettere alla prova in classe, per verificare e ricorreggere: attività queste che permetterebbero davvero agli insegnanti di formarsi sul campo e di crescere professionalmente confrontandosi con i colleghi. Non c’è tempo per procedere con calma, l’istituto è valutato ogni tre anni e il preside deve mostrare di aver raggiunto gli obiettivi che si è dato. Era questo il senso della valutazione di istituto? Non credo proprio.

-La noncuranza sfacciata riservata alla scuola, l’attenzione limitata agli eventi peggiori e il disinvestimento che persiste da anni logorano giorno dopo giorno. Solo i più appassionati fra i docenti tengono duro, quelli che trovano entusiasmo e motivazione in se stessi, consapevoli di svolgere uno dei lavori più belli, che segna a fondo la vita di ciascuno.

- Certo, anche i bambini sono cambiati di quinquennio in quinquennio, come del resto tutto cio’ che sta loro attorno, ma qui si aprirebbe un tema molto vasto.

 Che cosa si potrebbe fare per dare una mano ai docenti?

Perché non accompagnare i docenti di Scienze della scuola di base come ad esempio Mathup sta facendo con Matematica? Sarebbe una formazione in itinere davvero utile, sui temi più importanti, dato che un altro piano ISS non sembra proprio essere all’orizzonte. Potrebbe sostenere i docenti nelle scelte quotidiane in aula, in collegio docenti e davanti ai genitori.

 

Anna Aiolfi

Interessante discussione e molto significativo l’articolo di Maria. Una frase mi colpisce e condivido nella preoccupazione del suo messaggio “Star bene a scuola non basta per capire le cose”. Ho lasciato la scuola dopo 43 anni di servizio che mi hanno formata e temprata alle mode e alle novità. Ho avuto la fortuna di incontrare e lavorare con persone che mi hanno aiutato a crescere coltivando una idea di scuola di senso, quella che ascolta davvero i pensieri dei bambini, che li abitua alla fatica dello stare e pensare insieme, dove le cose si capiscono nel giusto tempo e nel rispetto delle reali possibilità di ognuno. Per molti anni sono stata figura strumentale e referente delle scuole dell’infanzia del mio Comprensivo. Abbiamo faticato per iniziare e mantenere un dialogo costruttivo con gli altri ordini scolari e scrollandoci il ruolo di subalterne, abbiamo lavorato promuovendo una continuità di metodo e di contenuti confrontandoci in modo costruttivo in Commissioni disciplinari periodiche. I nostri incontri erano e sono dei luoghi preziosi dove la burocrazia e le pretese dei dirigenti stanno fuori dalla porta. Dove l’idea di star bene a scuola aldilà del girotondo e della canzoncina è costruire un processo formativo coerente con i fatti e coraggioso nelle modalità, capace di tessere fili lunghi di conoscenza. I nostri incontri li abbiamo difesi e sostenuti negli anni consapevoli del valore formativo anche quando i finanziamenti sono stati dirottati verso altri lidi. Per capire le cose  alcune di noi hanno sentito la necessitá di studiare e aggiornarsi per approfondire la disciplina, per percorrere nuove strade. Una grande fatica confrontarsi superando la paura di essere giudicati, sbobinare e documentare, cercare nelle parole e nei discorsi dei bambini le modalità giuste per accompagnarli nella loro crescita. Una fatica non riconosciuta economicamente, ma ripagata ampiamente dalla sensazione di non essere sole e di far bene il proprio lavoro.

Le Indicazioni Nazionali sono state conferma e arricchimento, ogni frase descriveva il nostro modo di fare scuola. Accanto a tutto ciò la difficoltà di sopravvivere in modo dignitoso alle richieste pressanti di atti formali come il Curricolo d’istituto, le Unità d’Apprendimento, il Piano Triennale, la Valutazione che in questi ultimi anni non ci hanno dato tregua, creando sensazioni di soffocamento. Tutte cose di cui ho sempre condiviso intenzione e importanza, ma per farle con senso e soprattutto per trasformarle in uno  strumento di crescita per noi docenti, serve tempo per discutere, per confrontarci, per chiedere aiuto, per digerirle, trovando coraggiosamente strade alternative a modelli preconfezionati, schemi e soluzioni che altri hanno pensato per noi. A questo punto ho imparato a dire NO, non fa per me, sentendo tutta la responsabilità del mio ruolo di referente. Un curricolo, una didattica per unita d’apprendimento, una valutazione sono richieste giuste e di significato, ma le tempistiche e le dirigenze ci spingevano verso il taglia e copia selvaggio da internet, stili educativi e  frasi confezionate fatte da altri, parole ridondanti, che dicono tutto e niente, perchè non sono nostre e soprattutto non rappresentano la scuola che negli anni faticosamente ci siamo costruite. Non mi è piaciuta la sensazione di dovermi adeguare, di stringere il mio mondo in modelli che non potevano raccontare la bellezza dello stare a scuola; forse pensandoci bene non era questo che si voleva da noi. Anche questa volta faticosamente, partendo da ciò che siamo e ciò che facciamo abbiamo tentato di costruire un dignitoso curricolo, snello nelle parti, fruibile nei fatti in cui riconoscersi, un modello di Uda semplice ed efficace che rispondeva alle nostre necessità e che in breve è stato adottato da tutti, una idea di valutazione e autovalutazione formativa, ancora in lavorazione che guarda al processo del pensiero del bambino e non alle abilità da crocettare. Per farlo abbiamo speso tempo e fatica, cercando faticosamente di sopravvivere agli sguardi di chi indifferenti o compiacenti ci lasciava fare, ma non partecipava e alcune volte ostacolava. Da sempre questa mole di dedizione serve se vogliamo “esserci”, perché come insegnanti dobbiamo sostenere coraggiosamente le scelte che nascono dalla nostra capacità di pensare se vogliamo riconoscerla e sostenerla poi nei nostri alunni. La mia richiesta a chi sta sopra di noi?  Date tempo agli insegnanti per far propri i cambiamenti, sostegno alle buone pratiche, aggiornamenti disciplinari mirati, funzionali e permanenti, riconoscimento e fiducia alle “macchie di leopardo”, perché possano contaminare, liberateci dalle sovrastrutture, finanziate le cose di senso, perché bisogna allontanare questa sensazione di rassegnazione e vittimismo che non appartiene alla scuola che conosco e di cui mi sento ancora parte. Grazie di questa opportunità. 

 

Marida Baxiu

Con piacere ho letto le considerazioni della prof.ssa Arcà.

Condivido pienamente, da insegnante di scuola primaria quanto da Lei affermato. Alle interessanti osservazioni di chi ha già commentato, aggiungo solo alcune considerazioni sui libri di testo.
Da tempo, sono alla ricerca senza successo di un sussidiario ben fatto, che sappia interessare i bambini... Invece il sussidiario di quinta è come quello di quando frequentavo io quella classe (1973), con gli apparati uno dopo l'altro da imparare a memoria per l'esame. Spesso ci sono errori grossolani, sia in scienze che in matematica. Condivido con altre colleghe questa difficoltà nella ricerca del libro. Nei forum del corso di Mathup due anni fa si è molto discusso, alcune insegnanti avevano trovato la via della bibliografia sostitutiva di non sempre facile attuazione. A questo si aggiunge da qualche tempo anche la comprensibile ansia della dirigenza di rendere omogenea nell'istituto la preparazione di tutti gli alunni. Pertanto tutti dobbiamo adottare lo stesso libro.... come è possibile conciliare le esigenze di insegnanti diversi per stile, per preparazione, per materia di insegnamento? 
Ma se nemmeno persone preparate e appassionate riescono a cambiare i libri.... allora a che serve passare ore e ore nello stanzino dei nuovi arrivi a cercare una perla?
Per terminare con una nota di ottimismo voglio però testimoniare l'alleanza che tante volte si è creata con genitori attenti e intelligenti, che hanno sostenuto anche economicamente le diverse attività, dando la possibilità agli alunni di sperimentare sul campo quanto poi veniva poi studiato. Così ci sono stati bambini che hanno messo le mani nella terra per seminare e poi raccogliere i frutti dell'orto che durante l'estate i genitori a turno avevano innaffiato e curato (e quanto è utile imparare dalla terra ad aspettare!), bambini che hanno fatto merenda con burro e pane prodotti in classe, bambini che hanno accarezzato e pulito pulcini e poi polletti nati da uova acquistate dai genitori, bambini che hanno ascoltato con attenzione lezioni di genitori medici che portavano nelle nostre classi la ricerca del mondo scientifico. Sarà banale, ma per contaminare le classi con le buone pratiche, a volte, basterebbe uno sguardo sereno e un po’ di fiducia da dare e ricevere, tra i colleghi e da parte dei genitori, magari con il supporto del dirigente.

Nadia Paterno
La faccenda della sicurezza. Ricordo che per confermare un laboratorio di cucina che nella mia scuola (primaria a tempo pieno) si faceva da anni, la condizione era non mangiare i cibi cucinati. Toccò quindi rinunciare a un’esperienza bella, buona e cognitivamente potente. Un gran peccato. Ma per più di qualcuno fu un sollievo e un bell’alibi per evitare di sporcarsi le mani. Insegnare solo con la rappresentazione delle cose (libri ma anche immagini e filmati già belli e pronti) è molto meno faticoso perché non serve studiare, richiede un minor sforzo di progettazione e riprogettazione; è anche molto meno ansiogeno perché delega agli autori la responsabilità della scelta dei temi e dei concetti da proporre; e se arriva la frustrazione dei risultati scadenti basta attribuirli alla cattiva volontà dei bambini e delle famiglie e spesso “le difficoltà cognitive vengono sottovalutate e affrontate come difficoltà relazionali. Ma star bene a scuola non basta per capire le cose”
I manuali. Oltre ai problemi della qualità e della correttezza, tutti propongono gli stessi argomenti distribuiti allo stesso modo nei vari anni di studio, per salvaguardare le consuetudini. La totalità delle scuole adotta i libri di testo, la sparuta pattuglia degli insegnanti che non lo faceva si sta estinguendo, e coloro che usano i libri di testo in modo libero e ragionevole sono pochissimi. Il risultato è che gli indici dei libri di testo continuano a costituire i programmi, la scuola reale. Le famiglie fanno riferimento ai libri per rappresentarsi ciò che dovrebbe avvenire a scuola, e se gli insegnanti si discostano da quella traccia entrano in allarme. Ma agli insegnanti che non sanno abbastanza delle discipline loro assegnate e non sono capaci di progettare in modo autonomo e di motivare ciò che fanno, non resta che affidarsi ai manuali, convinti di essere in regola perché rispettosi delle aspettative di famiglie e colleghi. Le Indicazioni Nazionali dicono altro ma la cosa sembra non interessare, a cominciare da molti Dirigenti che non intervengono di fronte a progettazioni e pratiche che confliggono con le norme di legge.
I progetti stravaganti intralciano spesso il progetto del far bene la scuola normale, giorno per giorno. Si pensa di poter far cose inter, pluri e multi senza sapere di discipline. Succede perché “Manca una solida base culturale (disciplinare) che permetta di trasformare i contenuti in didattica e di trovare nelle idee dei bambini gli agganci per svilupparli. “Si pensa che velocità e quantità producano più conoscenza, mentre c’è bisogno di scegliere con attenzione gli aspetti fondanti delle discipline perché e su quelli che si può costruire, in modo lento e paziente senza dimenticare “quanto sia importante per un bambino, ri-trovare, ri-conoscere e ri-utilizzare qualcosa che ha fatto fatica ad imparare” dal punto di vista emotivo, sociale e cognitivo insieme.
Credo sia necessario innalzare la preparazione culturale e disciplinare iniziale dei docenti facendo entrare nella scuola, di ogni ordine e grado, i laureati migliori e non persone inadatte a carriere più prestigiose. Premiare davvero gli insegnanti che continuano a studiare e a formarsi in gruppi di ricerca, che presentano piani di lavoro coerenti e significativi e che documentano onestamente i risultati di apprendimento senza nascondere i problemi.

 

Cristina Brotto 

Alcune riflessioni a proposito della mancanza di “una solida base culturale (disciplinare)” dei docenti e della loro acquiescenza ai percorsi obbligati stabiliti dai sussidiari.
Una cultura condivisa sul valore e sulla funzione della scuola manca del t
utto. E pensare che sarebbe necessaria una riforma strutturale, invece di ritocchi qua e là.
L'insegnante deve sapersi assumere le proprie responsabilità, credendo in quello che fa ed avendone padronanza. Perchè questo succeda è pero’ fondamentale la preparazione dell'insegnante che deve avere buona conoscenza della disciplina e deve saperla trasmettere nei tempi e nei modi che l'età evolutiva richiede, attraverso l’aggiornamento continuo e l'approfondimento. Sono altrettanto necessarie all’insegnante qualità umane, di attenzione e di ascolto e una personalità aperta, ma ferma e solida.
Credo purtroppo che non tutti siano adatti a questo lavoro che penso, come ex insegnante, sia uno dei più belli al mondo ma che obbliga ad una continua messa in discussione, perché l'educatore deve rinnovare ogni giorno la passione per il suo lavoro, in modo da riuscire a motivare gli alunni. Il ruolo della scuola è fondamentale per creare in classe quel clima di appartenenza e di senso che fa sentire lo studente protagonista del suo sapere e che gli consente un confronto vero con i compagni per mettere in gioco le sue capacità relazionali, in un continuo esplorare e mettersi alla prova.
“Usare le classi come laboratori”. Già Maria Montessori aveva evidenziato l'importanza dell'educazione senso-motoria: toccare, osservare, confrontare, ordinare sono tutte attività che impegnano il bambino in processi che lo porteranno a sviluppare un pensiero complesso e critico. La “pedagogia del fare” da lei ideata era basata proprio sull’esperienza diretta, quale via che porta ad un'autonomia di pensiero e a uno sviluppo armonico della persona, nel rispetto dei bisogni, dei tempi e del modo personale di apprendere di ciascuno.

 

Alma Saisi, Gallicano (Lucca)

 I genitori sono lontani dalla realtà della scuola; non sono coinvolti nella programmazione che l’insegnante intende svolgere, oppure, ancor vicini alla loro esperienza scolastica, temono che a scuola i loro figli imparino poco. Non sempre un genitore è in grado di considerare l’evoluzione del pensiero.

L’esperienza è messa da parte, la realtà non serve più, è superata: il danno è grave!  Telefonini e i-pad forniscono informazioni/nozioni/definizioni. E’ dimenticato il valore dell’osservazione diretta con lo stupore che ne consegue.

Il vecchio sussidiario era una piccola enciclopedia, che poteva suscitare l’osservazione e guidare lo studio; l’insegnante poteva usarlo in modo intelligente. Ora è suddiviso in più fascicoli, è più simile ad un almanacco, il linguaggio è ora altisonante ora banale e non suscita curiosità.

Condivido e apprezzo la chiarezza delle affermazioni.

Se non c’è un progetto pedagogico-didattico, che sfrutta in modo intelligente e creativo le potenzialità dei bambini, la scuola è un ufficio che fornisce informazioni, ma non insegna ad applicarle.

Se l’insegnante imposta bene il suo metodo di lavoro, allora…..

 

Maurizio Maggiani: La maestra che non ama la carta
Tratto da "Il Secolo XIX", 19 agosto 2007
Ieri sono andato a pranzo con la maestra Duse. Ci vediamo ogni tanto alla trattoria sul Ponte di Campia. Durante la guerra il ponte di Campia segnava la linea gotica, oggi è la porta di accesso dalla Lucchesla alla Garfagnana. Sarà un caso ma di qua dal ponte verso Barga il turismo è tutto Inglese, di là prevalentemente tedesco. Alla Trattoria del ponte il nonno della Duse giocava a tressette e si ubriacava con Giovanni Pascoli che scendeva con il suo calessino da Castelvecchio; e alla trattoria la Duse bambina andava a comprare i sigari Toscani per la da lui amatissima sorella Mariù, che da vecchierella non voleva far vedere in paese che si dava ai vizi. La Duse ha cominciato il suo mestiere di maestra nel '50, e nell'assegnarle il suo primo incarico il provvedltore ha preteso di passare in rassegna mani e piedi: la sede disponibile non era adatta a signore che usavano lo smalto per le unghie, era una scuola di montagna sugli alpeggi garfagnini. Per questa ragione il ministero passava alla Duse un extra di legna da ardere, carburo per le lampade e siero antivipera.
La Duse partiva da casa il lunedi mattina e a piedi andava a scuola con lo zaino delle provviste. Ogni tanto si caricava anche la fisarmonica per fare un po' di festa con i suoi alunni e i loro genitori. Da allora la maestra non ha mai smesso di fare il suo mestiere: insegnare. Oggi insegna ai nipoti dei suoi alunni, alle giovani maestre, tiene un laboratorio di animazione teatrale, un altro di espressività per i disabili, e anima il gruppo del vecchi folatori, i narratori di storie orali che tradizionalmente animavano le notti garfagnine. Ha raccolto le loro storie e ci ha fatto un libro. E, naturalmente, continua a suonare la fisarmonica.
Ha studiato gli attuali programmi scolastici, le molte riforme e controriforme della scuola primaria e ha le sue opinioni al riguardo. La Duse dice che oggi la scuola è"una scuola di carta". Un sacco di quaderni e di libri. E l'obiettivo è modesto: imparare una divisione a tre cifre. Secondo lei la scuola primaria è conoscere, provare, sentire, tutte attività che richiedono poca carta. Non saprei dire se la sua è un'idea dell'insegnamento molto modema o molto antica. Come non so se la sua certezza circa il fatto che i bambini si annoino a morte a stare troppo tempo a casa in vacanza si basi sulla generazione dei suoi alunni pastori o anche su quella di oggi. Bisognerebbe saperlo chiedere ai bambini, ma dubito che ci siano molti adulti in grado di fare domande serie al loro bambini, visto che appare evidente che non sanno porle nemmeno a se stessi.
Ma la maestra Duse non è pessimista come me: il pessimismo è un sentimento che un buon maestro non può permettersi. E non è neppure una nostalgica: non vive di ricordi, ma li fa vivere perché possano servire a qualcosa di buono domani. Non crede neppure che la scuola del '50 fosse meglio di quella di oggi, e quando le chiedo cosa ne pensa dei nuovi insegnanti mi risponde che non è questitone di insegnanti ma di persone. Se ci sono persone che valgano abbastanza per poter insegnare. E non sembra che ce ne sia meno di un tempo.
Quando gli alleati hanno sfondato il fronte della linea gotica lei era sul Ponte di Campia con la sua fisarmonica, a suonare per dare loro il benvenuto. Li aspettavamo da tanto, dice, e i primi a passare sono stati i brasiliani. E racconta che si sono fermati ad accompagnare la sua musica con delle scatole di fiammiferi. Ancora non si spiega come riuscissero a far suonare quelle scatole. 
Ancora si chiede se quei ragazzi venuti dal Brasile per liberare l'Italia, che nemmeno sapevano dov'era, quei ragazzi che ha visto morire a decine nell'ultima controffensiva tedesca, abbiano fatto quel lungo viaggio, ne siano morti, per qualcosa abbastanza duraturo da poterto avere chiaro davanti agli occhi oggi come quel giorno sul ponte di Campia.
E io, che quel giorno non c'ero, proprio non saprei come rassicurarla nell'unica fragilità che si concede.

 

 

Duse Lametti

Duse Lemetti

Insegnante in Garfagnana dal 1946 al 1983

Gallicano, 8 aprile 2019

 

     Camminavo sveltamente per raggiungere la sede scolastica assegnatami come supplente: scarponi pesanti e calze di lana per la difesa dall’ultimo freddo. Provavo una leggerezza gioiosa. Lungo i bordi del viottolo di campagna erano fiorite le prime viole.

Fui presa da un senso di forte scontento. Perché? I miei scolari non avevano ancora incontrato Orazio Coclite, mentre la mia collega filava dritta verso la fine del programma di ogni disciplina: bagagli di storia, geografia, italiano, che con il “ri – ri - ri” venivano ripetuti tali e quali secondo le parole del sussidiario seguito rigorosamente dall’insegnante.

     In paese, le famiglie approvavano questo modo di apprendere che corrispondeva al loro stesso, appreso a scuola da bambini. Io non ero convinta. Ma cosa volevo? Ero confusa e disarmata, non avevo risposte. Volevo uscire da un contenuto obeso di informazioni appreso nello scorrere veloce delle pagine del sussidiario. Allora come apprendere? Da dove cominciare? Che fine volevo raggiungere?

     Cercai, frugai, sfogliai pagine, libri di pedagogia e didattica, finchè mi trovai tra le mani Scuola Italiana Moderna, una rivista dalla veste tipografica un po’ sbiadita, dalla copertina giallognola. Promuoveva corsi di aggiornamento al nord, al centro e al sud dell’Italia, condotti da esperti di pedagogia e di didattica. Trovai il coraggio di iscrivermi, consapevole di essere una maestrina campagnola molto sprovveduta, spinta però dalla speranza di trovare risposta alle sue lamentele didattiche. Mi trovai, con il batticuore, a vivere veri laboratori didattici, accanto ad altre insegnanti, impegnate a rispondere ai problemi posti dal conduttore. Occorrevano cultura, conoscenza della disciplina, esperienza. Conobbi, ascoltai e lessi i libri di Alfredo Giunti: tra questi, “La scuola come centro di ricerca”. Non suggeriva ricette da seguire, ma indicava percorsi, concetti, principi con cui esplorare le discipline, intese come mezzi per rispondere ai problemi-bisogni che venivano affrontati nella ricerca della soluzione. Intuivo l’importanza di quei vigorosi percorsi metodologici, ma sentivo scardinare certezze, credute tali; non riuscivo a capire come organizzare nella realtà scolastica di ogni giorno quello che stavo apprendendo. Ancora una volta mi aiutò la rivista SIM dove incontrai Anthropos con il prof. Italo Fiorin. Allora? Di nuovo in giro per l’Italia…. A questo punto contagiai la mia preziosa e cara collega Alma. Infatti, mi rendevo conto che stavo meditando una scuola dove occorreva la suddivisione delle discipline per affrontare un corretto percorso didattico di ciascuna. Era arrivata l’ora di tentare? Occorreva ancora chiarire dubbi e superare incertezze, ma l’entusiasmo non permetteva la resa o soste. Riunimmo le nostre classi: quaranta alunni, a classi aperte che diventeranno un’operosa comunità. Tanta fatica, ma quante scoperte!

     Incontrammo l’errore, senza gridare allo scandalo, ma come “radiografia” della logica seguita da ogni bambino. Ci permetteva di intravedere o scoprire i talenti di ciascuno. Tutti ne abbiamo. Non scuola tribunale che giudica, ma scuola dall’amore pensoso, perché scoprire i talenti significa conoscersi meglio, per provocare e migliorare sempre nuove energie, nella scelta del proprio domani. Non è forse questo il compito della scuola?

Sì, direte, ma dove trovare il tempo per tutto questo? C’è un programma da svolgere, o da inghiottire! Il tempo, incubo della nostra età! Provo a rispondere: occorre imparare ad apprendere: ascoltare i bisogni dei bambini, bisogni che suscitano problemi e quindi interesse e irrequietezza culturale per arrivare alle soluzioni. E’ un cercare che invita a pensare: intuito, creatività, memoria, impegno. E’ la graduale conquista di un abito mentale che, nel tempo, diventerà quella chiamata educazione permanente. Rende autonomo e personale l’apprendimento. Sarà sorprendente scoprire un graduale apprendimento sempre più agile nell’affrontare percorsi di ricerca sempre più difficili.

E’ la formazione di una piattaforma su cui potrà essere costruito il sapere della cultura confezionata.

    Il sussidiario? Uno dei diversi libri che entreranno nella classe per verifiche, confronti, analisi. Il “ri – ri – ri “? Un ripercorrere le fasi della ricerca con le raggiunte risposte, un rivivere scoperte e anche insuccessi che rendono i ragazzi soddisfatti, perché apprendere fa bene.

    Non mi resta che gridare a viva voce: grazie! Grazie a tutti coloro che mi hanno insegnato a dare gioia, insegnando ad apprendere faticando.