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Alle soglie di una nuova transizione evolutiva?


ex machina

Alle soglie di una nuova transizione evolutiva?

 

Fabio Fantini

  

 

Tutti i sistemi viventi che popolano il pianeta, e anche quelli che lo hanno popolato in passato, hanno un antenato comune. Il più recente antenato comune è molto antico, una stima basata sui dati oggi disponibili lo situa fra 3,5 e 4 miliardi di anni fa. È presumibile che si sia trattato di un organismo vissuto non molto tempo dopo la comparsa delle prime forme di vita sulla Terra.

La vita sul nostro pianeta è stata ed è un processo continuo, senza interruzioni. Un filo ramificato ma ininterrotto collega le prime forme di vita a quelle attuali. Lo svolgersi dei processi vitali è contraddistinto da un continuo cambiamento delle caratteristiche dei sistemi viventi. In un pianeta le risorse materiali sono limitate, pertanto è inevitabile una crescente competizione per l’accaparramento delle molecole necessarie per formare le strutture dei viventi e per ottenere l’energia necessaria allo svolgimento del metabolismo. La competizione provoca selezione e, là dove la riproduzione avviene con variazioni, la selezione determina evoluzione.

Le istruzioni che guidano il funzionamento dei sistemi viventi sono la sede primaria della variabilità alla base dei processi evolutivi. Queste istruzioni evolvono incessantemente per affrontare la costante, inevitabile competizione per l’accaparramento dei materiali che consentono di costruire e mantenere in vita un organismo. I materiali sono continuamente riportati alla disponibilità dei sistemi viventi grazie al riciclaggio operato dai cicli biogeochmici, ma non possono essere resi disponibili in quantità illimitate. I cicli biogeochimici sono mantenuti in azione da un flusso di energia che attraversa la biosfera, prevalentemente di origine solare, e sono in grado solamente di riciclare la materia, non di crearla dal nulla.

La competizione rappresenta una delle molteplici facce dei fenomeni evolutivi. L’evoluzione non può essere vista come un gioco a somma zero di tutti contro tutti. Fin dagli inizi della storia della vita, forse anche da prima se consideriamo i precursori abiotici dei sistemi viventi, la competizione è stata inestricabilmente intrecciata alla cooperazione. Per esempio, i diversi ruoli ecologici necessari per il completamento dei cicli biogeochimici, produttori, consumatori e decompositori, sono tutti indispensabili perché la materia già impiegata nella formazione degli organismi possa essere restituita all’ambiente in forme tali da consentirne un successivo, nuovo ingresso nelle catene alimentari.

La competizione e la cooperazione non sono opzioni intenzionali dei sistemi viventi. Si tratta di strategie guidate dalle istruzioni di cui ciascun individuo è dotato. Se, in un dato contesto, osserviamo organismi che competono per una certa risorsa R1 e cooperano per lo sfruttamento di una seconda risorsa R2, ciò non significa che quegli organismi hanno scelto di essere competitivi in un caso e cooperativi nell’altro. Piuttosto, la selezione ha favorito organismi che sanno competere per l’accesso alla risorsa R1 e che sanno cooperare per l’accesso alla risorsa R2. In quel contesto, la combinazione delle due strategie è quella che garantisce maggiore efficienza, ovvero maggior numero di discendenti.

La cooperazione tra sistemi viventi può assumere forme molto diverse, ma il tipo più basilare e allo stesso tempo più radicale è quello della simbiosi. Una comune definizione di simbiosi qualifica questo rapporto come un’interazione intima e di lungo periodo tra organismi di specie diverse, da cui entrambi i contraenti traggono vantaggio.

Nel 1995 John Maynard Smith e Eors Szathmary pubblicarono The major tranistions in evolution, un testo che avrebbe rappresentato un importante punto di riferimento per il dibattito evoluzionistico per molti anni a venire. Alla base di questo lavoro sta l’idea che l’evoluzione dipenda da cambiamenti nell’informazione trasmessa da una generazione alla successiva e che il modo in cui l’informazione si conserva e si trasmette sia stato al centro di varie «transizioni fondamentali», a partire dalle prime molecole in grado di duplicarsi fino al momento in cui si è sviluppato un linguaggio. Ecco l’elenco in ordine cronologico delle otto transizioni fondamentali individuate da Maynard Smith e Szathmary:

 

- da ––– molecole autoreplicanti  ––––- a –––––> popolazioni di molecole nelle protocellule;

- da ––– replicatori indipendenti  ––––- a –––––> cromosomi;

- da ––– rna come gene ed enzima  ––- a –––––> dna come materiale ereditario, proteine come  –––> costituenti degli enzimi;

- da ––– cellule procariotiche –––––––- a –––––> cellule eucariotiche;

- da ––– cloni asessuati  ––––––––––-–a –––––> popolazioni sessuate;

- da ––– organismi unicellulari  ––––––-a –––––> organismi pluricellulari differenziati;

- da ––– individui solitari  ––––––––-–– a –––––> colonie con suddivisione del lavoro tra caste;

- da ––– primati sociali  –––––––––––– a –––––> società umane in cui la comunicazione è  –––> affidata al linguaggio.

 

Neppure a una lettura superficiale può sfuggire che tutte e otto queste transizioni sono caratterizzate dallo stabilirsi di nuove forme di cooperazione. Le unità biologiche che compaiono come precursori o prodotti delle transizioni non sono sempre classificabili come sistemi viventi. Se volessimo individuare la comparsa dei sistemi viventi con la formazione delle prime cellule, dovremmo situarla in una fase non precisata tra la prima e la terza trasformazione.

A ciascuna transizione corrisponde, almeno in linea generale, un incremento della biomassa complessiva presente nel pianeta. Ciascuna transizione, in altre parole, si afferma perché consente un più efficiente sfruttamento dell’energia o un accesso più ampio alle risorse materiali necessarie per la costruzione di sistemi viventi.

A rigore, una sola di queste transizioni è caratterizzata, anzi determinata, da una simbiosi in senso proprio. Si tratta della transizione da cellule procariotiche a cellule eucariotiche, con un processo di endosimbiosi nato forse dall’inglobamento di cellule più piccole da parte di una cellula più grande in un atto predatorio incompleto oppure da un’infezione parassitica imperfetta condotta da cellule più piccole ai danni di una cellula più grande. Lo stabilirsi di una simbiosi tra cellule con caratteristiche diverse portò alla comparsa di un tipo cellulare radicalmente nuovo, cui arrise un successo evolutivo tale da renderlo protagonista di tutte le successive transizioni.

Cito altri due episodi di collaborazione tra sistemi viventi, che non hanno prodotto transizioni nel senso inteso da Maynard Smith e Szathmary, ma a mio giudizio decisivi per l’incremento della produzione di biomassa a livello planetario. Il primo è l’evoluzione dei licheni, una simbiosi che ha consentito di colonizzare ambienti altrimenti inospitali per i sistemi viventi. Il secondo episodio consiste nella coevoluzione delle piante con fiori e degli animali impollinatori, un processo non strettamente riportabile a una simbiosi ma che comporta una cooperazione molto stretta e quasi sempre senza alternative.

Infine, inglobato nell’ottava transizione che ha portato alle società umane, citerei il rivoluzionario cambiamento di atteggiamento delle popolazioni umane nei confronti degli animali e delle piante, che passano rispettivamente da prede e fornitori di cibo occasionali a risorse amministrate con oculatezza per ottenere alimenti destinati a sostenere popolazioni sempre più numerose. La rivoluzione del neolitico ha permesso di sfruttare con maggiore efficienza aree sempre più ampie del pianeta, anche aree precedentemente ostili all’insediamento di piante ed animali, per garantire la sopravvivenza a popolazioni in rapida crescita. Il risultato è stato un’espansione della biosfera a causa dell’accresciuto apporto alla biomassa da parte di nuovi materiali provenienti da geosfera, idrosfera, atmosfera.

Sono ben lontano dal pensare che questa sia la fine della storia. Anche perché la storia, come l’evoluzione, non ha termine. È possibile ipotizzare prossime transizione evolutive caratterizzate dall’affermarsi di nuove relazioni simbiotiche? Può sembrare un vago interrogativo sul futuribile, simile a un esercizio di fantasia più che a una riflessione basata su argomentazioni ragionevoli. Ho però l’impressione che un nuovo processo di simbiosi, foriero di una nuova rilevante transizione, sia sotto i nostri occhi. Con una importante differenza, rispetto alle transizioni descritte in precedenza: non tutte le unità coinvolte nel processo sono di natura biologica.

Soprattutto negli ultimi due secoli, una quantità crescente di materiali non biologici, in particolare metalli e molecole organiche come le plastiche, è stata impiegata per la costruzione di macchine di vari tipi, vere e proprie estensioni del fenotipo della nostra specie. Conio con spensieratezza il neologismo meccanomassa per indicare la massa totale dell’insieme di macchine presenti in un dato istante nel pianeta. La curva che descrive la meccanomassa nel tempo ha un andamento crescente. Una moltitudine di agenti biologici, in gran parte appartenenti alla nostra specie, collabora alla crescita della meccanomassa, ricavandone vantaggi adattativi. Definire il rapporto uomo-macchina una simbiosi sarebbe una palese esagerazione, perché non esiste alcuna intimità di rapporto che possa giustificare il ricorso al termine simbiosi.

Non c’è però motivo di pensare che ci si fermi qui. Da alcuni anni a questa parte una porzione crescente di umanità ha potenziato la capacità di ottenere informazione e la possibilità di sviluppare contatti sociali superando il limite della prossimità fisica. L’aumentata connessione sociale, spesso estesa a livello planetario, ha come protagonista principale lo smart phone. Una stima grossolana, basata sul rapporto in massa tra un umano e uno smart phone, valutato a circa 300, e sulla supposizione che esista circa uno smart phone per ogni umano (scorte invendute comprese), indica che la meccanomassa degli smart phone è un paio di ordini di grandezza inferiore a quella umana. Questa imponente meccanomassa si è sviluppata nell’arco di un paio di decenni, sottraendo gran parte dei materiali costitutivi ad altre macchine, come personal computer, lettori mp3, telefoni da abitazione.

Gli smart phone, caratterizzati da un uso prolungato e sostanzialmente intimo, sono diventati indispensabili a circa metà dell’umanità per una funzione biologica essenziale nella nostra specie, quella di favorire contatti sociali. La costante espansione di questa estensione fenotipica è favorita dalla sostituzione generazionale, perché le generazioni più anziane sono quelle meno coinvolte nell’uso degli smart phone. L’accesso all’informazione, la sua conservazione e la sua trasmissione stanno subendo una rivoluzione totale, tale da fare pensare a una nuova transizione evolutiva. Mi viene da ipotizzare una transizione da società umane strutturate e organizzate a una società umana globale interconnessa grazie a dispositivi elettronici. Una transizione che vedrebbe protagonisti in particolare gli umani, ma non solo.

Quella con gli smart phone è una relazione che si avvicina alla simbiosi molto più di quella che lega l’uomo a qualsiasi altra macchina, automobili comprese. Definirla una simbiosi vera e propria, malgrado il vantaggio sociale ricavato dal «simbionte» umano e l’espansione numerica goduta dal «simbionte» meccanico, sarebbe però ancora una forzatura.

Tutte le simbiosi iniziano con una modesta interazione tra i contraenti; l’evoluzione verso un rapporto più intimo è lenta e procede spesso per gradi, finché l’interdipendenza che lega i simbionti finisce con il diventare totale e irreversibile. Una particolarità della interazione tra umani e smart phone è che i tempi attraverso i quali il rapporto si sviluppa non sono quelli lenti dell’evoluzione biologica, bensì quelli rapidi dell’evoluzione culturale e dell’innovazione tecnologica. Già sono comparsi prodotti, non solo sperimentali, nei quali la formulazione dei comandi è svincolata dall’uso delle mani e affidata, per esempio, al movimento degli occhi. È ben nota, però, la frontiera verso la quale la ricerca tecnologica è indirizzata: il comando attraverso il pensiero.

Vorrei sgomberare subito il campo da equivoci. Non sto evocando esperimenti di percezione extrasensoriale. Gli umani usano in continuazione il pensiero per comandare una quantità di atti e di movimenti del proprio corpo. Il meccanismo attraverso il quale gli impulsi elettrici che partono dalle aree motorie del cervello giungono fino ai muscoli è ben noto. Si tratta solo di sostituire l’effettore biologico con un effettore elettronico, un problema meno difficile da affrontare di molti altri che la tecnologia informatica ha superato nella sua storia.

Non occorre esser profeti per immaginare che nello spazio di pochi anni apparecchi in grado di svolgere le funzioni più varie, dalla comunicazione interpersonale al pagamento di una merce acquistata, dalla consultazione di archivi di informazioni alla prenotazione di una visita medica, saranno direttamente implementati nei nostri corpi e diventeranno indispensabili per la normale sopravvivenza. La relazione tra umani e ciò che sostituirà gli smart phone sarà una simbiosi. Atipica, rispetto ai comuni modelli di simbiosi, ma sempre simbiosi.

La riproduzione biologica degli individui umani e quella elettromeccanica del loro simbionte avverrà separatamente, ma questo non è un ostacolo ai rapporti simbiotici. La riproduzione comune dei contraenti dei rapporti simbiotici attraverso una stessa linea germinale è una condizione eccezionale nelle simbiosi biologiche. La riproduzione per vie separate è quasi la regola. Basti pensare ai licheni.

Un esempio più vicino alla condizione che prefiguro per umani e smart phone è offerto dal piccolo coleottero Stegobium paniceum. Nell’intestino di questo insetto vivono cellule fungine di lievito, indispensabili per la produzione di vitamine necessarie al metabolismo dell’ospite. Le cellule di lievito non possono essere trasferite alla prole attraverso le uova, inaccessibili dall’intestino. Alla deposizione, la femmina cosparge le uova di cellule di lievito. Quando le uova si schiudono, le larve di Stegobium mangiano l’involucro dell’uovo e trasferiscono il lievito nel proprio intestino. In modo analogo, la riproduzione di due umani «connessi» genererebbe un neonato «non connesso», ma al quale i genitori provvederebbero, al tempo debito, a fare collegare gli opportuni terminali nervosi con effettori elettronici. Il numero di questi effettori aumenterebbe nel tempo di pari passo con la popolazione umana.

Si può fantasticare sui processi evolutivi, e magari coevolutivi, che sarebbero innescati da un simile sviluppo del rapporto tra umani e apparecchiature elettroniche, ognuno può provvedere per proprio conto, magari sulla traccia della letteratura cyberpunk. Vorrei però chiarire che lo scenario che ho prefigurato non ha nulla a che vedere con una ipotetico futuro dominio delle macchine sull’umanità, un’eventualità che mi sembra difficilmente concepibile. Ritengo che la parola almeno finora definitiva sulla questione sia stata scritta nel 1984 dall’informatico olandese Edsger Dijkstra, in un discorso introduttivo per una conferenza all’Università del Texas: «Chiedersi se un computer possa pensare non è più interessante del chiedersi se un sottomarino possa nuotare.»

Se pericoli ci saranno, nel futuro di una umanità globalmente interconnessa, proverranno dagli umani, non dalle macchine.

 

Coda: analogie tra il mondo prebiotico e il mondo attuale

Le ipotesi che ottengono maggiore consenso nel mondo scientifico circa la comparsa delle prime forme di vita sulla Terra fanno riferimento allo svolgimento di reazioni chimiche energeticamente sfavorite, rese possibili da particolari condizioni ambientali. La culla della vita è stata successivamente individuata nel brodo primordiale, in pozze superficiali formatesi in aree vulcaniche, negli sfiatatoi vulcanici presenti sui fondali oceanici in prossimità delle dorsali. In ogni caso, ambienti caratterizzati da concentrazioni non comuni di particolari molecole e attraversati da consistenti flussi di energia, nei quali si suppone possa avere avuto un ruolo importante la presenza di substrati minerali capaci di adsorbire molecole organiche.

L’assemblaggio di macchine da parte degli umani presenta analogie con la situazione descritta per spiegare la comparsa della vita, anche se con ruoli invertiti tra componente organica e componente minerale. Strutture elettromeccaniche altamente improbabili cominciano a comparire in numero crescente grazie all’attività peculiare di altre strutture la cui presenza è oggi scontata, ma a sua volta dipendente da una catena di eventi peculiari avvenuti circa 4 miliardi di anni fa. Insomma, una sorta di origine al quadrato di strutture improbabili.

A differenza delle molecole prebiotiche complesse, le macchine non sono in grado di formare copie di se stesse, però il loro numero continua ad aumentare grazie all’attività degli umani. Nel momento in cui si realizzasse una sorta di accoppiamento permanente tra macchine e individui organici, una simbiosi, appunto, per il problema della riproduzione le macchine finirebbero con l’avere, rispetto agli agenti umani, la stessa relazione che il proteoma di una cellula ha con il dna.

Se così finisse con il succedere, l’evoluzione biologica lascerebbe il passo a un nuovo meccanismo evolutivo, difficile da immaginare e difficile anche da denominare, dal confuso punto di vista dal quale lo osserviamo ora. Se cedessimo alla tentazione di una visione finalistica, l’evoluzione organica sarebbe servita da trampolino di lancio per una successiva evoluzione ancora non definibile (bio-elettro-meccanica?).

Le visioni finalistiche sono, però, largamente insoddisfacenti. Mi viene in mente, tanto per chiudere, la divertente satira che ne fece Kurt Vonnegut nel romanzo Le sirene di Titano. Vonnegut immagina un viaggiatore intergalattico confinato su Titano per un guasto all’astronave, costretto a chiedere aiuto al suo lontano pianeta. La risposta degli extraterrestri consiste nella manipolazione della storia umana a partire da duecentomila anni fa, in modo che si sviluppi una civiltà capace di produrre il pezzo di ricambio necessario, una piccola sbarretta metallica di forma particolare, e di portarlo fino a Titano. Stonehenge, la Grande Muraglia Cinese, il Cremlino sarebbero stati messaggi nel particolare linguaggio geometrico degli alieni per informare il paziente naufrago spaziale dei progressi dell’operazione di salvataggio.

Mi si dirà che Le sirene di Titano non è il romanzo migliore di Vonnegut, d’accordo, ma comunque è un’occasione di godibile e intelligente riflessione per il lettore. E anche di qualche sorriso divertito.