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Memoria della prima supplenza

 

supplenze

Memoria della prima supplenza

Allegato della serie "educatori eroici"

 

Luciano Luciani

 

Autunno inoltrato del 1976. Anche allora il sistema interprovinciale dei trasporti pubblici lasciava alquanto a desiderare. Per cui, essere puntuale sul luogo di lavoro - ore 8,00, succursale del Liceo scientifico “Antonio Vallisneri”, loc. La Madonnina, Capannori, Lucca - per me, toscano d’adozione, privo di patente di guida e da qualche anno residente a Pisa, significava alzarsi dal letto due ore e mezzo prima, trascurare le pur doverose abluzioni mattutine, raggiungere a piedi la stazione FF/SS (allora le ferrovie si chiamavano ancora così!) della città della Torre, infilarmi in una maleodorante littorina, raggiungere Lucca/stazione di Lucca, portarmi sul piazzale antistante lato circonvallazione e sperare... Ed eccolo l’oggetto di tanta aspettativa: un autobus bluazzurro, non proprio di ultima generazione. Vuoto. “Dovrei scendere alla fermata più vicina al Liceo scientifico di Capannori”, comunicai all’autista ingrugnato al suo posto di guida senza il bene di una risposta qualsiasi. Solo un rumoroso cambio di marcia e via, attraverso una periferia che non era più città e non ancora campagna, stradine e stradone, campi e corti, agglomerati in cui, attorno a vecchie residenze contadine dai bellissimi mandolati di mezzane di terracotta, spuntavano disordinatamente negozi, garage, fabbrichette, abitazioni moderne in pretto stile palazzinaro spinto... Soprattutto non si arrivava mai. Ero in viaggio da quasi due ore e ancora non si scorgeva traccia dell’ambita sede distaccata. Ma, mi chiedevo con una certa inquietudine, distaccata quanto?

Se per svolgere il lavoro per cui avevo studiato era necessario tutto ‘sto mazzo, non mi sarebbe convenuto, forse, tornare a occupazioni magari ancora più più precarie di quella del supplente, ma, certo, più a portata di mano?

Intanto il pullman bluazzurro continuava a percorrere quasi senza meta e in maniera apparentemente insensata, la campagna lucchese vestita dei colori autunnali: destra, sinistra, avanti, indietro su e giù... “Siamo arrivati”, mi annunciò l’autista ritrovando improvvisamente la parola. Bene, il viaggio è finito. Siamo fermi su un piazzale che si allarga in uno stradone che si perde tra i campi. Ma la scuola dov’è? Lì, e il laconico conducente mi indica un’enorma cattedrale nel deserto, meglio nella campagna, dalle forme eccessive, esagerate, pletoriche. “Quella è La Madonnina. Il liceo è all’interno”. Una scuola pubblica nei locali di una chiesa? Vabbè che siamo a Lucca, anzi nel contado, ma una cosa così finora non l’avevo mai vista. Attraverso la strada, supero un cancello, percorro un vialetto coperto di ghiaia, entro nei locali adiacenti all’edificio di culto. Uno zelante bidello (o forse un sagrestano?) con indosso un grembiule nero m’interpella: chi sono? Cosa voglio? Mi qualifico, mentre tagliente come un rimorso si fa strada un retropensiero codardo: e se me ne ritornassi a Pisa? Il posto non mi si confà granché. Intanto nell’aria si alza un coro: non comprendo le parole, ma l’armonia rimanda a un canto religioso. Dove sono capitato? Forse ho sbagliato indirizzo. L’usciere solerte, ma forse è uno scaccino?, mi fa strada. Arrampichiamo le scale di un paio di piani. Tra l’uno e l’altro ci imbattiamo in un’immagine della Madonna illuminata da una lampadina votiva; nell’incrociarla la mia guida si fa compulsivamente tre/quattro volte il segno della croce e accenna a genuflettersi. Decido di andare via. Rimetterò il mio modesto incarico nelle mani della prima persona normale, se e quandò l’incontrerò, e me ne tornerò da dove sono venuto. Poi ci affacciamo su un lungo corridoio, pulito, luminoso: porte si aprono sui due lati. Eccola, la scuola. In sala insegnanti, nessuno. In segreteria due giovani signore dall’aria indaffarata ed efficiente non mi prestano particolare attenzione: “Ah, Lei è il nuovo supplente? Le toccano due classi la III e la IV. Venga, la stanno aspettando. È in ritardo, lo sa?”

Si apre una porta. Dentro cinquanta occhi sospettosi, altrettanti orecchi vigili, attenti, curiosi. Entro, poso la borsa sulla cattedra, apro il registro di classe. Comincio a dire qualcosa.

Ho continuato a parlare per oltre trent’anni... Ma questa è un’altra storia.