raccolte cd
timberland euro, timberland uomo 6 inch stivali, timberland uomo barca stivali, timberland uomo earthkeepers, timberland uomo euro hiker stivali, timberland uomo nellie chukka, timberland uomo rotolo top stivali, timberland uomo scarpe da spiaggia, timberland donna 6 inch stivali
1972: i cannibali delle Ande

 

Saturn divora i figli - Goya

1972: i cannibali delle Ande


Luciano Luciani

 

 

Ottocento

Negli ultimi due secoli casi documentati di cannibalismo nel mondo civile si sono verificati sporadicamente e solo in situazioni estreme. Per esempio, a quanto scrive lo storico di età neoclassica Pietro Colletta nel suo Storia del reame di Napoli, subito dopo la partenza dei francesi da Napoli nel 1799. I lazzaroni guidati da fra’ Diavolo e del cardinale Ruffo si vendicarono ferocemente sui loro compatrioti che avevano condiviso gli ideali giacobini della Repubblica napoletana sostenuta dalle armi francesi: “Videsi a’ dì otto di luglio nella piazza medesima della reggia ardere un rogo, gettare in esso cinque uomini viventi, e poi che abbrustoliti gustar le carni”.

Praticarono il cannibalismo i superstiti del bastimento “Medusa” affondato nel 1818 ristretti in una zattera e immortalati nella famosa tela di Theodore Gericault, metafora dolorosa del naufragio della nazione francese dopo la sconfitta e l’esilio di Napoleone.

Nel 1846 un gruppo di pioneri guidato da George e Jacob Donner di Springfield diretto in California, si alimentò con la carne dei compagni morti per il freddo o per le malattie: fu una delle più terribili tragedie della colonizzazione verso l’ovest degli Stati Uniti.

 

Novecento

I prigionieri del lager di Belsen, deliberatamente privati del cibo, furono costretti a cibarsi di carne umana: era il 1945.

45 anni fa, il 12 ottobre 1972, un gruppo di circa cinquanta persone, una squadra di rugby - la Old Christians Club del collegio universitario Stella Maris - più amici e parenti, si imbarcò su un aereo Fairchild uruguayano nell’areoporto di Montevideo per recarsi a Santiago del Cile per motivi turistici e sportivi. Quando iniziarono a sorvolare le Ande il tempo era piuttosto favorevole, ma erano le prime ore dopo mezzogiorno e in quella fase della giornata sulle alte cime si scontravano correnti di aria fredda e calda, causando improvvise tempeste. L’aereo si imbatté in uno di questi improvvisi cambiamenti metereologici e il pilota cominciò a perdere il controllo del velivolo. Dopo qualche minuto di panico, l’aereo, che aveva già perduto le ali e la coda, si schiantò sulle nevi della Cordigliera a circa 4000 metri slm.

Non tutti i passeggeri morirono. La maggior parte sopravvisse anche se non pochi erano feriti, chi in modo lieve, chi grave. Terribili le prime ore dopo il disastro. Quanti erano rimasti illesi si prodigarono per portare assistenza ai feriti, ma alcuni di quelli che erano rimasti intrappolati tra i sedili morirono nel giro di poche ore. Gli altri cominciarono a organizzarsi per rendere vivibile la fusoliera, l’unica parte dell’aereo rimasta intatta e così tentare di sopravvivere. La prima notte fu freddissima e interminabile: a oltre -30° gradi nessuno riuscì a chiudere occhio. Tutti speravano nei soccorsi, ma si trattava di un’aspettativa destinata ad andare delusa un giorno dopo l’altro. Per i primi dieci giorni i 27 superstiti si nutrirono di un po’ di cioccolata e qualche raro sorso di vino. I più determinati tra loro pur di sopravvivere a quell’inferno ghiacciato erano disposti anche a mangiare la carne dei cadaveri, convinti che questo atto estremo potesse dare loro la forza di attendere o raggiungere gli aiuti. Proprio di questo si discusse sulle Ande a dieci giorni dal disastro. Parlarono tra loro a lungo e molti erano inorriditi solo all’idea di cibarsi dei corpi dei compagni. Alla fine, però, prevalse la convinzione che se non si fossero nutriti in qualche modo sarebbero morti tutti. Tutti credenti in Dio si convinsero che il Signore avesse sacrificato alcuni per consentire agli altri di sopravvivere: mangiarne le carni sarebbe stato come entrare in comunione con gli amici morti. Superata la riluttanza iniziale, quasi tutti gli scampati accettarono di ingoiare dei pezzi di carne e col passare dei giorni finirono per convincersi che quella era l’unica cosa da fare: così mangiarono tutte le parti carnose dei corpi, anche gli organi interni non esclusi i genitali e questo perché in Uruguay, terra di sterminati allevamenti di bestiame, è cosa consueta farlo con la carne di manzo.

Nei giorni in cui su quello scenario di rovina e di morte splendeva il sole, la carne umana veniva fatta essiccare, soprattutto il grasso che formava una leggera crosta superficiale che rendeva quel boccone più appetibile: era il charqui, carne cruda essiccata al sole. C’erano addetti al taglio e alla distribuzione della carne che andava razionata ragionevolmente perché i superstiti non sapevano per quanto tempo ancora dovessero rimanere sulla Cordigliera.

I giorni scorrevano lenti e i sopravvissuti si erano abituati al tran tran delle giornate sempre più fredde e sempre uguali a se stesse. La sera del diciottesimo giorno (29 ottobre) una valanga sommerse la fusoliera: i più svelti scavarono un varco per liberarsi e liberare i compagni sommersi sotto la neve, ma otto di loro persero comunque la vita. Quanti riuscirono a superare questa nuova, ulteriore disgrazia si trovarono ad affrontare condizioni ancora più dure perché i loro abiti, quelli che indossavano, erano bagnati e la loro dimora, la fusoliera, era invasa dalla neve. I soccorsi non arrivavano ed era sempre più evidente che era necessario andarsene: anche perché i cadaveri, che fino a quel momento si erano conservati per il freddo, ora con l’inizio dell’estate australe e il conseguente disgelo cominciavano a putrefarsi. I giovani cominciarono allora a cucinare degli stufati di carne umana che venivano serviti nelle calotte craniche: in pratica mangiavano carne in umido insaporita con cervello e parti fermentate o addirittura putrefatte.

I tentativi di abbandonare quella precaria sistemazione si erano rivelati fallimentari: partivano a gruppi di tre persone alla ricerca disperata di soccorso, iniziative che però richiedevano un gran dispendio di energie, che non abbondavano di certo, e una grande forza d’animo. La spedizione decisiva partì l’11 novembre. Era composta da tre giovani, ma dopo il primo giorno di cammino uno di loro tornò all’aereo così da lasciare maggiori scorte di cibo per gli altri due. La coppia marciò a lungo e dopo dieci giorni, finalmente, riuscì a raggiungere un recinto per il bestiame, dove furono visti e salvati da un contadino. Gli altri sopravvissuti furono portati in salvo a 71 giorni dal disastro aereo: i superstiti di quel tragico evento erano solo 16 sui 45 passeggeri che si erano imbarcati nell’areoporto uruguayano.

La prima richiesta dei giovani appena salvati fu il cibo: mangiare divenne per loro un fatto maniacale, accompagnato dalla paura irrazionale di rimanerne privi: tutto era buono. Naturalmente le domande dei giornalisti furono insistenti, pressanti: come avete fatto a rimanere in vita? Inizialmente risposero che avevano mangiato erbe e frutti... Solo dopo Natale, una volta rientrati a Montevideo, durante una conferenza stampa, rivelarono l’orribile verità. Parlarono con un prete e tutti si liberarono la coscienza confessando quella esperienza antropofaga a un sacerdote: il religioso, d’accordo con il suo vescovo, non li condannò perché avevano agito in stato di necessità. Le loro famiglie capirono poco di quella terribile avventura, ma la gioia di poterli riabbracciare distolse la loro attenzione dagli orrori di quella atroce vicenda e dai comportamenti che ne derivarono. Anche i genitori delle vittime furono consolati dal fatto di rivedere alcuni di coloro che erano stati creduti morti e che erano invece sopravvissuti anche grazie ai loro figli.