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Memorie pedestri

 

 

grattachecca

Memorie pedestri

 

 

Luciano Luciani

 

Come dicono da queste parti tra il Serchio, le Apuane e il mare, “mi fanno voglia di ride’ “voi camminatori per hobby. Quelli, per intenderci, che fasciati da elegantissime tute Patagonia o Champion, calde d’inverno, fresche d’estate, un tessuto che assorbe il sudore, annulla i cattivi odori e protegge dai raggi ultravioletti, tre/quattrocento euro a botta, ai piedi scarpe da ginnastica Nike (Nike non Naik, ignoranti!, perché è parola greca, non inglese), 150/200 euro al paio, le orecchie ‘incuffiettate’ e traboccanti musica, si affannano con aria da sportivi consumati per parchi, aiuole, ville comunali, MuradiLucca, lungofiumi, lungolaghi, periferie non più città ma non ancora campagna, inanellando, a ogni stagione che il Signore ci manda, chilometri su chilometri: corricchiando, trotterellando, camminando di buon passo, galoppando per brevi tratti, sudati, sbuffanti, ansimanti, scaracchianti… Significando, così, in tutti i modi possibili ai normali mortali, col linguaggio del corpo sofferente, il senso di una fatica tanto ciclopica quanto inutile.

È il running, bellezza!

“Si pe’ rubba’ quarche ora alla banca de la vita bisogna fa’ tutto ‘sto mazzo, preferisco de mori’ prematuro!”, disse una volta un saggio vegliardo della mia terra natia alla vista di un genero tutto addobbato da sportivo salutista e in grave deficit d’ossigeno dopo una mezz’oretta di giri del palazzo.

Sì, da un po' di tempo in qua, correre, e la sua variante più modesta, camminare, è diventato la panacea a ogni male, l’elisir di tutti gli acciacchi, fisici e morali, il contravveleno al sempre più agro mestiere di vivere.

Rischi il diabete? Cammina! Colesterolo e trigliceridi alti? Cammina, cammina… Depressione? Cammina, cammina, cammina… Come nell’incipit delle favole.

Se davvero le cose stessero, allora io dovrei morire a duecento anni. Perché è tutta la vita che cammino. Non per hobby, ma per necessità. Già, perché per spostarmi da un luogo all'altro e garantirmi la cosiddetta mobilità sul territorio, io, come unico mezzo di locomozione conosco quasi esclusivamente il cavallo di san Francesco. Quello a due zampe, le mie: le mie gambe, cosce, ginocchia, polpacci, caviglie, piedi... Sì, perchè la patente di guida non l'ho mai presa - per pigrizia? Per paura? Per incapacità? Fate voi! - e con fierezza mi dichiaro appartenente alla specie in via d'estinzione, alla minoranza oppressa e perseguitata degli spatentati senza auto. Io sì, stronzetti sportivi, che cammino davvero.

Camminare. Della sua importanza divenni consapevole in tempi ormai remoti e certo non sospetti di compiacenza verso le mode: allora eravamo appena agli inizi dell'era dell'automobile di massa e la mobilità sul territorio pedibus calcantibus non era ancora vissuta come una maledizione da cui emanciparsi il più presto possibile. Per me, figlio dell'immediato dopoguerra “povero ma bello” - per chi c'era, però, soprattutto povero - muovere le gambe fu la modalità di una tripla emancipazione. Familiare, perché passero non più implume, fattomi fiducioso nella forza delle piccole ali, irrobustito il becco, cominciavo svolazzare tutt'intorno, in autonomia; territoriale, in quanto mi allontanavo dalla dimensione protetta in cui avevo vissuto l'infanzia:  il grande cortile che faceva da cornice ai giochi, non sempre e non del tutto innocenti, miei e dei miei coetanei; l'ormai monotono e consunto percorso casa/scuola incapace di rinnovare le emozioni, sempre identiche, che era in grado di fornire: un muretto da s/cavalcare, un cane particolarmente versato nell'abbaiare quando meno te lo aspettavi e anche mordace; l'immota e cupa ultima dimora di Costanza, forse santa e forse no, forse figlia o forse nipote dell'ambiguo Costantino, quello di In hoc signo vinces; estetica siccome in conseguenza di tali spostamenti scoprivo, a poco a poco, le bellezze che mi avevano sempre circondato senza che ne avessi coscienza.

Per esempio, quelle della via Nomentana, l'antica via Ficulensis, comprese nel tratto che va da Sant'Agnese fuori le mura a Porta Pia, lo stesso che il 20 settembre 1870 percorsero, affardellati e a passo di marcia, i poveri bersaglieri che liberarono Roma dal potere papalino. Le delibavo, quelle mattine, allargando lentamente i miei orizzonti, un giorno dopo l'altro. Meglio, una mattina dopo l'altra, perché queste escursioni in solitaria avvenivano prevalentemente di mattina, quando, finita la scuola, non era ancora estate, ma ci mancava poco. Partivo da casa, affollata di genitori indaffarati e fratelli minori e petulanti poco prima delle 9,00... Le giornate erano di una luminosità che non si è mai, mai più data per tutto il corso della mia esistenza. Salivo da via di Santa Costanza; il mausoleo e la basilica di Sant'Agnese, che avrei scoperto solo qualche tempo dopo, restavano alla mia sinistra. All'incrocio con via Nomentana, la mia prima sosta alla baracchetta verde del grattacheccaro, per fare il pieno di fresche dolcezze: menta, cocco, tamarindo, amarena, orzata e tanto, tanta materia prima grattata a mano con una spatolina da un lungo, solido parallelepipedo ghiacciato. Rinfrescante, corroborante, modesta granita, antidoto da poche lire contro l'incipiente calura estiva: l'orzata soprattutto mi piaceva. Poi, la tappa successiva al chiosco dei giornali. Il quotidiano, di cui ero tanto avido quanto tenerello lettore, “Il Paese”, l'avrebbe portato in casa più tardi verso le 14,00 mio padre, rientrando dal lavoro: glielo avrei conteso, furtivamente sottratto e letto con fanciullesco interesse per le questioni della geopolitica di allora. Io, invece, nella luce del mattino, all'edicola facevo una discreta scorta di “Intrepido” e “Monello”. Se non avevo quattrini mi portavo da casa un'“Urania” comprato a metà prezzo da un rivendugliolo di libri usati posizionato a corso Trieste: comunque, senza un bel po' di carta stampata non partivo mai, un'abitudine che non mi avrebbe abbandonato per tutta la vita a venire.