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Migliaia di ettari di bosco abbattuto
Valentina Vitali
Un insieme di piante arboree e arbustive che ricopre una superficie più o meno ampia di suolo. Molti considerano questa definizione perfetta per descrivere un bosco o una foresta, ponendo magari l’accento per quest’ultima sulla naturalità delle specie presenti, eppure non corrisponde alla realtà. La vera identità di queste coperture di vegetazione risiede nell’intreccio strettissimo, nell’indissolubile interconnessione che si realizza tra gli esseri viventi che le popolano (specie umana compresa, con le proprie dinamiche storico-sociali) e fra loro e l’ambiente, il suolo e le condizioni climatiche. Un bosco è complesso nel senso etimologico di questo termine, che significa proprio “intrecciato insieme”, ed è altrettanto complesso e difficile comprenderne le dinamiche e programmare interventi di conservazione e di sostegno, come stanno dimostrando le foreste di conifere delle Dolomiti e i fenomeni che recentemente le hanno coinvolte. A fine ottobre 2018 un evento climatico estremo, la tempesta Vaia, ha abbattuto migliaia di ettari di bosco tra il Trentino Alto Adige, il Veneto e il Friuli Venezia Giulia; per quanto la violenza fosse inaspettata (in alcune località come il Passo Rolle il vento ha raggiunto una velocità di 217 Km/h), che un fenomeno di portata simile si potesse verificare era prevedibile. Il nord Italia infatti in quel momento si trovava proprio nella zona di scontro tra masse di aria molto diverse per pressione e temperatura (una fredda proveniente dal Nord Europa e una particolarmente calda che saliva dal Mediterraneo) ed era per questo inevitabile che si formassero venti di eccezionale intensità. Si è trattato quindi di un evento localizzato nel tempo e nello spazio ma la cui radice è spiegabile con le attuali e globali tendenze climatiche di riscaldamento. L’enorme impatto che la Vaia ha avuto sulle foreste delle Dolomiti non si spiega però solo con l’intensità del fenomeno ma anche con la vulnerabilità delle foreste stesse. Nonostante le coperture boschive apparissero naturali in realtà si poteva leggere una forte influenza antropica: il loro sovrasfruttamento come fonte di legname e rifugio durante la Prima Guerra Mondiale, unito ai tagli per facilitare i movimenti dei soldati, hanno rappresentato un altro momento di distruzione di numerosi boschi a cui si è rimediato piantumando principalmente un’unica specie, l’abete rosso (Picea abies) dotato purtroppo di un apparato radicale a sviluppo superficiale e non profondo come quello di abete bianco e larice, diffusi in precedenza. La conseguenza di un fenomeno puramente umano come la guerra e di scelte di gestione forestale (all’epoca inconsapevolmente) errate è stata che il vento di Vaia ha trovato coperture monospecifiche e non biodiverse e individui coevi e con tronchi dal diametro pressochè uguale e quindi ampio spazio di penetrazione per le raffiche. L’incalcolabile danno alla vegetazione si è subito ripercosso sull’intera biodiversità della zona con effetti però ambivalenti. Molte specie sono state improvvisamente private di risorse alimentari e siti di nidificazione e rifugio ma allo stesso tempo gli insetti xilofagi hanno potuto disporre di enormi e anomale quantità di legno morto a terra o di alberi pesantemente danneggiati e di conseguenza vulnerabili. In questo contesto è possibile che si verifichino dei boom demografici di specie normalmente presenti ma con popolazioni numericamente contenute. È purtroppo ciò che è accaduto con il bostrico tipografo (Ips typographus), coleottero endemico che ha visto un esponenziale aumento sostenuto dal legname che non si è riusciti ad asportare per tempo oltre che da inverni miti (temperature inferiori a -15 C° non sono tollerate da larve e uova quindi contribuiscono a limitare numericamente le popolazioni) e primavere ed estati particolarmente lunghe, calde e siccitose, nelle quali possono verificarsi come anomalia più cicli riproduttivi degli insetti. Durante queste ondate epidemiche gli xilofagi non attaccano più solamente alberi malati o morti ma pure individui sani o in leggero stress, che muoiono in breve a causa dei danni fisici apportati: i maschi scavano sotto la corteccia una camera nuziale in cui attirano attraverso i feromoni le femmine, che in seguito scavano numerose gallerie dove depongono in media 80 uova da cui nasceranno larve che si nutrono del floema, il tessuto vascolare che trasporta linfa elaborata. In breve la pianta mostra aghi gialli e poi rossi. A peggiorare ulteriormente l’infestazione c’è il fatto che questi coleotteri sono vettori di alcuni funghi che a loro volta intaccano il legno. I monitoraggi del Servizio Foreste e Servizio Faunistico trentini evidenziano che il punto climax nel caso delle foreste dolomitiche sembra essere già stato superato (estate 2022) e un deciso calo è stato registrato nel 2024 ma è comunque importante intervenire con adeguate misure di gestione per salvaguardare le foreste rimaste. Purtroppo il metodo di contenimento più efficace è individuare precocemente, anche attraverso l’utilizzo di immagini satellitari, gli alberi infestati e procedere con l’abbattimento e l’asportazione (oppure la scortecciatura nel caso in cui non sia possibile rimuovere immediatamente gli esemplari tagliati); una recente pubblicazione (No quiet after the storm: Emergency forestry operations put Alpine forest biodiversity at risk 5 years after major windstorm in Animal Conservation, 2024) ha però dimostrato come questo tipo di intervento porti ad un altro grave problema, evidenziando ancora una volta la complessità dei sistemi forestali. Dal 2007 è in atto un progetto di conservazione focalizzato sui picchi e in particolare sul picchio nero (Dryocopus martius), che prevede l’individuazione e la marcatura degli alberi che ospitano nidi di picchio in un territorio che comprende il Parco Naturale Paneveggio-Pale di San Martino. Poiché Vaia ha causato l’abbattimento nel parco del 50% degli alberi marcati era attesa una perdita nella popolazione del picide che invece non è stata rilevata; le coppie nidificanti hanno infatti costruito le cavità non più su esemplari vivi ma su alberi infestati dal bostrico, che nel 2024 hanno sostenuto il 60% della popolazione di picchio. È evidente che procedere con le azioni di contenimento dell’insetto causa un danno diretto a D. martius che viene privato di tutti i possibili siti riproduttivi almeno fino al prossimo secolo poiché un abete rosso deve avere minimo 80 anni per presentare le dimensioni idonee ad ospitare una cavità. Come effetto a cascata vengono colpite tutte le specie che trovano ospitalità nei nidi costruiti dai picchi neri come i rapaci notturni (gufo capogrosso e civetta nana), le cince, il picchio muratore, alcuni micro-mammiferi, i chirotteri o insetti come le api. Una misura volta a tutelare le foreste di conifere finisce quindi per arrecare gravi danni alla biodiversità faunistica delle foreste stesse. Diventa quindi necessario pensare nuove soluzioni di gestione; una proposta consiste nel preservare dal taglio gli esemplari con i nidi e attorno a loro dei cuscinetti di 20-30 alberi, che riescano a garantire la possibilità di costruire nuovi nidi fino al 2100. Ulteriori studi e una conoscenza più approfondita consentiranno di trovare strategie mirate di conservazione e di impostare rimboschimenti più naturali rispetto al passato ma ciò che già adesso emerge con chiarezza è che un bosco o una foresta non sono semplicemente un insieme di alberi ma molto molto di più.