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Noterelle storiche sull’amaro e rio caffè

 

 

caffè tostato e macinato

Noterelle storiche sull’amaro e rio caffè 

 

 

di Luciano Luciani

 

Appena arrivato, le solite beghe

Giunto dal Medio Oriente a Venezia nel nella prima metà del XVII secolo, il caffè – e, di conseguenza, il quasi universale rituale della tazzina della nera bevanda – presenta una storia complessa che si intreccia strettamente con le vicende, meno visibili ma non per questo meno importanti, della formazione delle abitudini, del costume e del gusto dell’uomo moderno.

La conoscenza della nera pozione cominciava appena a diffondersi nel continente europeo che già le toccava il destino di essere al centro di polemiche, accuse, diatribe... Se i suoi sostenitori, forse esagerando, presentarono il caffè come eccellente rimedio per curare le malattie dello stomaco e del fegato, per rafforzare il tono cardiaco, per eliminare l’idropisia, per combattere la scabbia, i dolori della milza, le infiammazioni polmonari, i vermi e un’infinità di altri guai fisici, non mancarono i feroci detrattori della scuro infuso  giunto dall’Oriente. Bacone da Verulamio (1561–1626), il filosofo Francis Bacon, per esempio, in contrasto con l’opinione della maggioranza, non esitava a condannare il caffè come un potente e pericoloso narcotico; Francesco Redi (1626-698), nel suo festosissimo e celeberrimo ditirambo, ‘Bacco in Toscana’, dichiarava: “Beverei prima il veleno, / che un bicchier, che fosse pieno / dell’amaro e rio caffè”. Il medico e letterato toscano, tuttavia, più tardi ci ripensò e in una lettera privata giudicava il caffè, purché ben corretto dallo zucchero, una rara delizia.

Per lungo tempo, i “tuttologi” di tre secoli or sono si divisero riguardo alle virtù dimagranti o ingrassanti del caffè. Innumerevoli, e tutti discutibili, gli argomenti portati a sostegno dell’una o dell’altra tesi: rimase famosa la prova cosiddetta “dei Turchi”, basata sul fatto che tra gli abitanti dell’Anatolia (famosi allora come sfrenati consumatori dell’aromatica pozione) sembravano assai più numerosi che tra gli altri popoli gli individui decisamente obesi e tendenti alla pinguedine: ciò rappresentava – secondo alcuni – la prova provata delle virtù ingrassanti del caffè.

Non si riuscì, naturalmente, a individuare l’argomento decisivo in favore dell’una o dell’altra parte e le discussioni si esaurirono a mano a mano che si diffondeva il consumo della bevanda. Divenuto, in breve tempo, Amsterdam il principale mercato all’ingrosso del caffè di tutto il mondo, si moltiplicarono le “botteghe del caffè”, i bar di allora: a partire dal 1720, anno della sua inaugurazione, il veneziano ‘Florian’ assurgeva a fama mondiale come luogo di sopraffine delizie del palato. In Inghilterra, il primo caffè, inteso come locale adibito alla degustazione di questa e altre raffinatezze della gola, venne aperto a Oxford nel 1650 per iniziativa di un libanese, tal Jacobs, e due anni più tardi anche Londra, grazie all’intraprendenza dell’armeno Rosée, conobbe questa nuova ‘istituzione’.

Passeranno vent’anni prima che anche Parigi si adegui alle mode provenienti dalla capitale inglese: a partire dal 1669, i salotti della capitale francese iniziarono a far propria l’abitudine diffusa dall’ambasciatore turco presso il Re Sole, Soliman Aga, di offrire ai propri visitatori modeste quantità di una bevanda nera e fortemente aromatica.

Il merito della introduzione del nero infuso nel mondo arabo è, invece, da attribuirsi al muftì di Aden,  Mohammed Ibn Sais, un dottore esperto nella legge religiosa islamica, che, tornato da un viaggio in Etiopia, portò con sé una piccola quantità di caffè che partecipò con successo ai suoi concittadini. Da Aden, importante emporio commerciale all’ingresso del Mar Rosso, l’uso del caffè si estese prima a tutta l’Arabia e poi all’Egitto. La prima bottega pubblica di caffè di cui si abbia notizia per il mondo islamico fu aperta a Costantinopoli nel 1554, e l’iniziativa incontrò un tale favore che ben presto questi esercizi si moltiplicarono frequentati prevalentemente da intellettuali che amavano tali ambienti perché propizi agli incontri e alle conversazioni colte, un’abitudine guardata con sospetto dai musulmani più conservatori e con diffidenza dall’arcigno governo turco.

 

Un misurato punto di vista

Così, nel febbraio 1615, con grande equilibrio e obbiettività, raccontava il caffè Pietro  Della Valle (1586-1652), romano, viaggiatore e acuto osservatore di abitudini e costumi in Terra Santa, Persia e India:  

 

Si fa questa bevanda... dal seme o frutto di un certo albero che nasce in Arabia verso la città di Mokka, e il frutto che produce, chiamato cahuè, donde la bevanda piglia il nome, è come bacche ovate, della grandezza di mediocre ulive;... bruciandole si fanno ridurre in una polvere minutissima e di quel colore quasi nero; della qual polvere, che così bella e fatta si conserva lungo tempo, se ne trova qui sempre quantità per le botteghe. Quando si vuol bere, si fa bollire dell’acqua in certi vasi fatti apposta, che hanno becchi lunghi e sottili per poterla versare agevolmente nei vasi piccoli da bere. E dopo che l’acqua ha ben bollito vi si getta dentro di quella polvere del cahuè in giusta quantità e si lascia essa ancor bollire con l’acqua buona pezza, tanto che deponga ogni amarezza fastidiosa che facilmente avrebbe se non fosse finita ben di cuocere. Poi quell’acqua così calda, quanto però si possa soffrire, versata in piccole scodelle di porcellana si beve a poco a poco a sorsi, avendo già preso il sapore e il colore della polvere, la quale non si beve perché resta nel fondo del vaso. 

 

Nel dibattito sugli effetti del caffè che vedeva sostenitori e detrattori fieramente divisi tra loro, il Della Valle si colloca tra i simpatizzanti, con qualche modesta riserva, dell’amara bevanda:

 

Chi la vuol più delicata, insieme con la polvere del cahuè mette anche nell’acqua buona quantità di zucchero con cannella e qualche poco di garofani, e riesce allora di sapore graziosissimo e cosa di sostanza; ma senza queste delicature ancora, col solo e semplice cahuè, è pur grata al gusto e, come dicono, conferisce molto alla sanità, massimamente in aiutar la digestione, corroborar lo stomaco e reprimere le flussioni dei catarri: cose tutte molto buone. Solo dopo cena, dicono che leva un poco il sonno, e perciò sogliono pigliarne in quella ora quei che vogliono studiar la notte... 

 

Non mancarono, però, nel tempo molte altre accuse: si attribuì alla scura pozione il potere di provocare cecità, emorragie, paralisi, coliche intestinali, febbri perniciose, infiammazioni epatiche e renali… Ma una delle offese più terribili mosse alla bevanda fu certamente quella di rendere l’uomo impotente. Il Linneo (1707-1778), famoso naturalista svedese, lo chiamava addirittura potus caponum, bibita dei capponi e questa calunnia contribuì di sicuro a diminuire la celebrità e il consumo di caffè tra la fine del XVII secolo e l’inizio del XVIII secolo. Luigi XIV (1638–1715), il Re Sole, per esempio, fu decisamente contrario all’uso della bevanda e i maligni sussurravano che tale avversione gli fosse stata suggerita dalla marchesa di Montespan, che in dodici anni di relazione aveva dato al re di Francia la bellezza di sette figli. Anche la Facoltà di Medicina di Parigi si allineò alle direttive regie in fatto di filtri e infusi e con atto solenne dichiarò, nel corso di un’assemblea, che il peggior vino era sempre più innocuo e giovevole alla salute del miglior caffè.