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Lo studio del DNA antico e il neodiffusionismo in archeologia. Il caso Yamnaya, il latte e i cavalli

 

 

Fig. 1 Carta dell’Europa con la distribuzione dei tre principali complessi archeologici del terzo millennio a. C.: da ovest, Vaso Campaniforme (BB), Ceramica a Cordicella (CW) e Yamnaya, il cui costume funerario (sepolture singole in posizione rannicchiata) si diffonde anche fra i primi due complessi. (da Furholt 2021)  

Lo studio del DNA antico e il neodiffusionismo in archeologia. Il caso Yamnaya, il latte e i cavalli

 

Tomaso Di Fraia

 

Le falle nelle spiegazioni migrazionistiche

 

Riprendendo il filo di un discorso iniziato con uno studio più ampio[1] e in parte presentato ai lettori di Naturalmente Scienza[2], vorrei cercare di affrontare alcune questioni cruciali che riguardano i risultati ottenuti dal sequenziamento completo del DNA antico (aDNA) ricavato da resti umani di età preistorica e la loro successiva interpretazione volta a ricostruire alcuni fondamentali processi storici. In particolare esaminerò le interpretazioni concernenti la formazione dei profili genetici di alcune popolazioni europee nel terzo millennio a. C., cioè il periodo che secondo molti genetisti e anche alcuni archeologi avrebbe visto un’ampia diffusione, prima nell’Europa centrorientale e poi anche in quella occidentale e meridionale, di profili genetici caratterizzati da una significativa componente proveniente dalle steppe euroasiatiche (fig. 1). Secondo questa interpretazione, in tale diffusione avrebbe svolto un ruolo fondamentale la cultura, o per meglio dire “complesso archeologico”, Yamnaya (di qui in avanti YAM), che già negli anni sessanta del XX secolo la linguista e archeologa Marija Gimbutas[3] aveva considerato il principale fattore di trasformazione dell’economia e della società europea nel passaggio dal Neolitico all’Età dei metalli. Le popolazioni YAM, con un’economia prevalentemente pastorale e seminomade, secondo la Gimbutas sarebbero state caratterizzate da patriarcato, patrilinearità, divisioni di rango, uso del cavallo, pastoralismo, mobilità e armamento e avrebbero soppiantato la cultura anticoeuropea, matricentrica, sedentaria e pacifica[4]. La teoria della Gimbutas, considerata da molti studiosi troppo ideologica e priva di convincenti prove archeologiche, cadde poi in discredito, come in genere tutte le teorie diffusionistiche, che fino oltre la metà del XX secolo avevano preteso di spiegare alcune importanti trasformazioni socioeconomiche della preistoria e protostoria come conseguenze di migrazioni di gruppi umani portatori di idee, tecnologie e organizzazioni socioeconomiche più avanzate e/o potenti rispetto a quelle dei popoli con cui sarebbero venuti in contatto[5].  

Paradossalmente proprio uno dei più avanzati campi di ricerca attuali, l’analisi e lo studio del DNA umano, con il sequenziamento completo del genoma, ha riportato alla ribalta e ha dato nuova vita a tali teorie, che sembravano ormai sepolte dal discredito e dall’oblio. Infatti nel 2015 Haack et Alii avevano creduto di poter spiegare con fenomeni di consistenti migrazioni la significativa presenza di profili genetici con una forte componente YAM presenti in popolazioni europee del terzo millennio a. C. Anche lo studio, uscito nello stesso anno, di Allentoft et Alii sembrava confermare tale interpretazione. Nel 2018 altri studiosi arrivavano ad affermare che nel corso del terzo millennio a. C. la diffusione del complesso del Vaso Campaniforme introdusse alti livelli di ascendenza di origine steppica e comportò la sostituzione di circa il 90% del pool genico degli abitanti della Britannia nell’arco di qualche centinaio di anni[6] (fig. 1). Infine nel 2019 un altro studio genetico aveva concluso che era avvenuta, entro il 2000 a.C. circa, la sostituzione del 40% dell’ascendenza dell'Iberia e di quasi il 100% dei suoi cromosomi Y da parte di persone con ascendenza steppica[7].

Fig. 2 I principali elementi del nuovo tipo di sepoltura singola nel terzo millennio a. C. in Europa: sotto un tumulo (5), le sepolture maschili (1) sono dotate di armi (4) e hanno un orientamento diverso rispetto a quelle femminili. I vasi decorati a cordicella (2) e campaniformi (3) probabilmente spesso contenevano bevande fermentate (da Furholt 2019, modificata)  

Da notare che per tre dei quattro studi sopra citati gli studiosi che hanno progettato e impostato il lavoro sono gli stessi, cioè David Reich e i suoi principali collaboratori, tra cui in particolare W. Haak e J. Krause. Il che significa che un unico team di ricercatori, sia pure avvalendosi della collaborazione di altri biologi e genetisti e di alcuni archeologi, ha impostato e sviluppato una serie di progetti di ricerca, influenzando in modo massiccio, e finora non adeguatamente controllato da altri gruppi, l’interpretazione di circa due millenni di storia europea. La più recente elaborazione di tale impostazione è quella di David Anthony, che, avvalendosi anche dei nuovi dati sull’ aDNA, ha creduto di poter recuperare, opportunamente riveduta e corretta, la vecchia teoria invasionistica-diffusionistica della Gimbutas. Anthony, oltre a riproporre le tesi già esposte anni prima, in un saggio del 2020[8] cerca di rispondere a una serie di obiezioni. Martin Furholt ad esempio aveva osservato tra l’altro che vi erano differenze per il cromosoma Y tra le popolazioni YAM e quelle della Ceramica a cordicella (CW) (fig. 2), ritenute continuatrici delle prime: per YAM gli aplogruppi R1b-Z2103 e Q1a2, per CW l’aplogruppo R1a. Mentre quasi tutti gli individui maschi delle sepolture Yamnaya condividono gli aplogruppi R1b-Z2103 e Q1a2 (Wang et al. 2019), la grande maggioranza di tutti i maschi della Ceramica a Cordicella condividono un differente aplogruppo, R1a (Mathieson et al. 2018). R1b, ma di una differente variante (P312), è il più frequente aplogruppo del cromosoma Y fra le sepolture maschili dei contesti del Vaso Campaniforme (Olalde et al. 2018)[9]. Anthony replica così: Le successive popolazioni della Ceramica a cordicella, sebbene derivate dall’ascendenza Yamnaya, per il cromosoma Y avevano prevalentemente l’aplogruppo R1a, che era stato presente nelle steppe durante l’Eneolitico e potrebbe esservi rimasto, ma escluso dai Kurgans [le sepolture monumentali a tumulo] nel periodo Yamnaya, riemergendo poi come tratto genetico dominante nella popolazione della Ceramica a cordicella[10]. Anthony quindi si avvale del classico argomento secondo cui in archeologia “l’assenza di una prova non può essere la prova di un’assenza”. Ma in questo caso l’argomento è usato in modo scorretto e capzioso, perché qui non siamo di fronte ad un’assenza totale di prove, bensì all’assenza nei campioni dell’aplogruppo R1a, a fronte della presenza di altri aplogruppi. In altre parole sembra difficile, se non impossibile, che in una data popolazione si seppellissero nelle sepolture più prestigiose soltanto una minoranza di persone con cromosoma Y diverso da quello della maggioranza che si presume esclusa ed evidentemente in qualche modo sottomessa. Ciò avrebbe richiesto una totale separazione sociale e sessuale all’interno delle popolazioni YAM, uno scenario francamente inverosimile. Inoltre quella stessa minoranza dominante, proprio nel momento in cui si presume una sua ampia espansione e diffusione genetica, non avrebbe trasmesso il proprio aplogruppo, anzi si sarebbe affermato quello del resto della popolazione YAM. Tale tesi fra l’altro fa a pugni con l’idea, sostenuta da molti “migrazionisti alla Reich”, secondo cui i maschi, e in particolare quelli dei gruppi dominanti, potevano accedere a grandi quantità di donne e quindi diffondere e perpetuare il proprio DNA.

Comunque dal 2015 c’è stata un’enfasi e quasi una nuova mitizzazione del “fenomeno” Yamnaya, nel senso che dal punto di vista archeologico si è presentata un’ipersemplificazione degli aspetti legati alla cultura originariamente definita tale e delle sue successive trasformazioni, anche dietro la spinta della genetica che sembrava identificare per i suoi portatori un profilo chiaramente distinto da tutti gli altri. Oggi sono gli stessi sostenitori di questa interpretazione a dover rivedere le loro tesi, già contestate sul piano archeologico e ora almeno parzialmente smentite anche su quello genetico. Infatti nell’Abstract dello studio di Wang et alii del 2019 si legge che non è chiaro quando e dove la cosiddetta steppe ancestry (“ascendenza delle steppe”) si sviluppò. Ma c’è di più: nel DNA dei gruppi Yamnaya sono stati individuati elementi, precedentemente non scoperti, derivati da gruppi di agricoltori in differenti zone di contatto; e ciò dovrebbe mettere in guardia dal considerare definitive determinate classificazioni. Inoltre, come osserva Martin Furholt, se gli Yamnaya in base a tale studio sono ora meglio configurati geneticamente come una mescolanza di EHG, ICHG, EAF, and WHG, ciò significa che le ultime due componenti (cioè quelle di popolazioni neolitiche di origine anatolica e di cacciatori-raccoglitori dell’Europa occidentale) molto probabilmente furono portate nelle steppe da popolazioni neolitiche europee. E poiché tale apporto è quantificato intorno al 16%, la tesi proposta nel 2015 di una migrazione unidirezionale da est a ovest è una semplificazione basata su di un’analisi (errata) che presentava il profilo YAM come una realtà geneticamente compatta (one unified genetic element)[11]. Purtroppo Anthony, pur citando lo studio di Wang et Alii per altri aspetti, omette (intenzionalmente?) tale scoperta e quindi non ci fornisce alcuna risposta a queste osservazioni cruciali, che tra l’altro ripropongono il problema, quasi impenetrabile per un profano come lo scrivente, di come vengono elaborati e caratterizzati i diversi profili genetici. In particolare bisognerebbe chiarire che cosa si intende quando si parla di profilo genetico YAM (e in genere di qualunque profilo genetico). Poiché raramente (o mai?) si può parlare di profili “puri”, i genetisti considerano vari tipi di admixture, cioè di mescolanza di varie componenti, in ciascuno dei profili genetici delle popolazioni considerate. Un aspetto che, non essendo genetista, non sono in grado di comprendere, è se poi ciascuna componente in sé considerata è omogenea, cioè regolarmente e completamente condivisa da un numero di campioni abbastanza ampio, oppure se c’è un margine più o meno significativo di variabilità, che renderebbe ancora più aleatoria qualunque rigida classificazione. 

Comunque, dal punto di vista di un archeologo, il passaggio cruciale è quello tra le acquisizioni genetiche e la loro utilizzazione al fine di ricostruire determinati processi storici. Avendo già discusso in un precedente articolo[12] la tesi dell’invasione/penetrazione delle popolazioni steppiche YAM nell’Europa centrale nel terzo millennio a. C., vorrei ora esaminare il caso, citato sopra, della penetrazione in Britannia dei gruppi del Vaso Campaniforme, che avrebbero determinato nell’arco di alcuni secoli l’assoluta prevalenza di un nuovo profilo genetico di netta ascendenza YAM. Questa ricostruzione si basa su due gruppi di dati: il primo riguarda i profili genetici di 51 individui vissuti in Britannia prima del 2450 a. C., il secondo quelli di 67 individui vissuti nel periodo che va dal 2450 all’800 a. C. Mentre il primo gruppo è caratterizzato da un solo profilo genetico di tipo “neolitico” simile a quello delle popolazioni dell’Europa continentale del Neolitico Medio e dell’età del rame, nel secondo gruppo compaiono individui con un’ascendenza totalmente steppica o individui con una prevalenza di tale componente rispetto a quella neolitica che va dal 60 al 95% (in media 90%).

In base a tali dati l’interpretazione sopra riportata sembra non fare una grinza. E tuttavia, osservando i vari grafici e tabelle distributive, rimangono diversi dubbi. Anzitutto, come mai poco dopo il 2400 a. C. troviamo individui con una piccolissima percentuale di ascendenza neolitica, mentre alcuni secoli dopo ne troviamo altri con una percentuale più alta? Certo è possibile che alcuni gruppi indigeni si siano fusi subito con i nuovi arrivati e che i discendenti abbiano perso ben presto gran parte dei tratti genetici locali, mentre altri gruppi indigeni potrebbero essersi ibridati molto più tardi. Però in questo secondo caso ci aspetteremmo che la documentazione archeologica ci mostri la persistenza per un certo tempo di gruppi locali puri. Poiché di ciò non abbiamo riscontri archeologici è lecito dedurre che la documentazione archeologica non sia fedelmente rappresentativa della realtà storica o meglio di tutta la realtà storica. Per la verità sappiamo che una costante di fondo dell’archeologia è proprio la parzialità delle fonti, che può dipendere sia dal tasso inevitabile di casualità nella ricerca e nelle scoperte archeologiche, sia da fattori oggettivi, ad esempio, nel caso specifico, l’eventualità che millenni di trasformazione del territorio abbiano cancellato in modo differenziato vari tipi di resti archeologici o che, già in origine, si siano conservati soltanto certi resti umani e non altri a causa del diverso trattamento riservato ai corpi post mortem. A questo proposito Olalde e colleghi, autori dello studio in questione, si pongono correttamente il problema di quanto possano aver influito sulla rappresentatività dei campioni eventuali differenze nei costumi funerari, in particolare l’inumazione rispetto alla cremazione. Però si limitano ad osservare che comunque è indubbio che nell’arco di alcuni secoli si sia affermato un nuovo profilo genetico (Although it is possible that such a sampling bias makes the ancestry transition appear more sudden than it in fact was, the long-term demographic effect was clearly substantial.[13]). Tuttavia il problema meriterebbe di essere approfondito, e anzi di essere esteso anche ai campioni datati al periodo precedente l’arrivo dei presunti portatori del profilo genetico YAM, per poter escludere la presenza in Britannia di tale profilo prima di tale data.

Infine c’è un aspetto che Olalde e colleghi non prendono nemmeno in considerazione e che invece è molto importante. La rappresentatività dei campioni archeologici rispetto alla popolazione reale complessiva può essere alterata anche da fattori sociali, perché ad esempio eventuali élites dominanti possono garantirsi necropoli più protette, monumentali e durature rispetto al resto della popolazione[14]. Infine bisogna considerare la densità demografica, che purtroppo non è ricostruibile dall’archeologia preistorica. Se in Britannia prima del 2500 a. C. la densità fosse stata bassa, l’arrivo di nuovi gruppi umani, per qualche motivo più resistenti a determinate malattie e con un più alto tasso riproduttivo, potrebbe spiegare la prevalenza di un nuovo profilo genetico senza bisogno di postulare grandi migrazioni. Sia chiaro: qui non si contesta a Olalde e colleghi la possibilità di proporre una determinata interpretazione per spiegare una serie di dati acquisiti attraverso le analisi genetiche. Ciò che è inaccettabile è la pretesa di presentare le proprie interpretazioni come le uniche possibili, evitando di affrontare o liquidando sbrigativamente gli aspetti problematici.

 

 

Il cavallo e il latte

 

I sostenitori della teoria dell’invasione o comunque di massicce migrazioni da oriente verso l’Europa, hanno per lungo tempo enfatizzato l’importanza del cavallo per gli spostamenti delle popolazioni delle steppe e per la loro forza di penetrazione in nuovi territori. David Anthony, rispetto a una sua precedente interpretazione, nel 2000 aveva dovuto abbassare la datazione dell’addomesticamento del cavallo e il suo uso come cavalcatura al periodo fra il 3500 e il 3000 a.C., collocando tali processi nel Kazakistan, dove i più antichi esemplari erano stati trovati a Botai. Ma nel 2018 uno studio sull’DNA dei cavalli ha potuto stabilire che Tutti i cavalli addomesticati datati da 4000 anni fa ad oggi mostrano solo il 2.7%% di ascendenza di tipo Botai[15] e che il profilo genetico equino, dall’età del bronzo ad oggi, non è riconducibile a un unico evento di addomesticamento, tanto meno a quello documentato a Botai, e presumibilmente deve derivare da un addomesticamento avvenuto altrove, attraverso forme e vie di diffusione tutte da ricostruire. Infine il più recente ed ampio studio sul DNA antico e moderno dei cavalli ha reso ancora più complesso il quadro:

Abbiamo trovato che durante le prime fasi di domesticazione sono esistiti due lignaggi equini oggi estinti, uno all’estremo ovest (Iberia) e l’altro nell’area più a est dell’Eurasia (Siberia). Nessuno dei due ha contribuito significativamente alla diversità moderna…L’origine genetica degli addomesticati moderni rimane pertanto controversa, con possibili candidati nelle steppe del Ponto-Caspio, in Anatolia e Iberia[16].

Inoltre è contestabile l’equazione, più volte riproposta: cavalli (o cavalli + carri) = supremazia militare e capacità illimitata di espansione. Paul Heggarty osserva che l’immagine tradizionale degli Ariani-Indoeuropei a cavallo che invadono e conquistano grandi territori dall’Europa all’India, imponendo anche la loro lingua, sembra potente alla luce di storie molto successive… di popoli o "confederazioni" di lingua turca, mongolica e uralica, come gli Unni o Xiongnú… In primo luogo, tuttavia, questi precedenti risalgono solo a tempi storici; è anacronistico istituire strette analogie con i modi di vivere nella steppa del Ponto-Caspio millenni prima, molto prima delle invenzioni chiave della sella o della staffa… Anche le origini del carro sono controverse[17].

Un altro argomento delicato è quello delle origini della produzione e del consumo del latte. Recentemente è stato pubblicato uno studio in cui, a proposito della persistenza della lattasi negli adulti, si riporta che Allentoft et al (2015) hanno mostrato che i più alti livelli di un gene che permette agli adulti di digerire il lattosio e consumare latte crudo sono stati trovati nelle sepolture della cultura Yamnaya e nelle culture da essa derivate della Ceramica a Cordicella e Afanasievo[18]. Nello studio citato effettivamente si conferma una bassa frequenza di rs4988235 negli Europei, con una frequenza dell’allele derivato del 5% negli Europei dell’età del bronzo nel loro complesso. E si specifica che tra gli Europei dell’età del bronzo la più alta tolleranza [del lattosio] è stata trovata nelle culture della Ceramica a Cordicella e in quelle strettamente collegate della Scandinavia dell’età del bronzo[19]. Tuttavia vi sono alcuni punti poco chiari, anzitutto perché poco sopra si parla di bassa frequenza nell’età del Bronzo (10% negli Europei dell’età del bronzo…) e un profano come lo scrivente non vede come siano conciliabili le due diverse percentuali. Inoltre, dall’Extended Data fig. 7 per la Ceramica a Cordicella si ricava una percentuale di circa il 20%, ma per le culture dell’età del bronzo della Scandinavia la percentuale sembra bassissima (circa 2%), contrariamente a quanto dichiarato nel testo, mentre per YAM è intorno al 30%. A parte queste incongruenze, dobbiamo osservare che anche sullo studio di Allentoft et Alii grava l’ipoteca della limitata estensione numerica e geografica dei campionamenti. E infatti Joachim Burger e colleghi hanno voluto allargare la ricerca:

La maggior parte degli individui campionati è stata sepolta in tombe a tumulo datati dalla fine del IV millennio a.C. alla fine del II millennio a.C. e sono rappresentative della prima età del bronzo nell'Europa orientale… Non siamo riusciti a rilevare l'allele rs4988235-A  in nessuno di questi campioni (n = 37), attestanti che la frequenza di questo allele era molto bassa, probabilmente vicina a zero, e quasi certamente inferiore al 5,4% precedentemente riportato per un campione geograficamente, culturalmente e cronologicamente diverso con "ascendenza della steppa"[20]

Quindi hanno rianalizzato i dati pubblicati dell'area della steppa dell'Europa orientale (5.600-4.300 a.C.) e quella della Corded Ware Culture nell'Europa centrale e nord-orientale (4.900-4.300 a.C.)… ottenendo frequenze rispettivamente dello 0% e dell'1,8%...[21]

La conclusione è netta: Sebbene queste stime non siano direttamente informative sull'origine dell'allele rs4988235-A, sembrano incoerenti con un importante contributo dell'espansione delle popolazioni steppiche alle alte frequenze osservate dopo l'età del bronzo in Europa.[22] Immagino che molti lettori possano rimanere sconcertati, come lo scrivente, di fronte a posizioni così divergenti come quelle di Allentoft e colleghi e Burger e colleghi. Per fortuna in tale frangente ci viene in soccorso l’ammissione contenuta in un successivo studio, i cui autori, tra cui David Anthony, pur sostenendo la teoria di una grande espansione dei popoli delle steppe, riconoscono la validità delle conclusioni di Burger e colleghi:

Sebbene uno studio recente abbia dimostrato che la persistenza della lattasi era rara nelle popolazioni della steppa della prima età del bronzo, troviamo che la comunità della steppa occidentale consumava regolarmente latticini[23] che avrebbero potuto includere latte fresco e/o altri prodotti trasformati a ridotto contenuto di lattosio, come yogurt, formaggi o bevande a base di latte fermentato. [24] Queste osservazioni sulla produzione e sul consumo dei derivati del latte fra le popolazioni steppiche dell’età del bronzo confermano in sostanza quanto già si sapeva (v. più avanti) su questo argomento. Tuttavia gli autori di quest’ultimo studio (Shevan Wilkin e colleghi) hanno aggiunto un interessante tassello sulla produzione di sussistenza di tali popolazioni, attraverso l’analisi proteomica del tartaro dentale. Infatti Per gli individui della prima età del bronzo (risalenti all'inizio dell'orizzonte culturale Yamnaya), sono stati recuperati peptidi lattiero-caseari da campioni di tartaro di 15 dei 16 individui che abbiamo analizzato. Abbiamo dimostrato attribuzioni a Ovis, Capra e Bos… In particolare, abbiamo identificato peptidi del latte di Equus dalla proteina BLGI in 2 su 17 individui della prima età del bronzo... Sebbene il genere Equus includa cavallo, asino e kiang, solo le specie di cavalli (E. caballus, E. przewalskii, Equus hemionus ed Equus ferus) sono archeologicamente attestate nella steppa nella prima età del bronzo, a sostegno dell'identificazione di Equus come cavallo.

Gli autori così concludono: Sebbene sulla base dei nostri dati non possiamo offrire una soluzione circa l’uso del cavallo per cavalcare o per trainare, la dimostrazione che i cavalli erano munti rende certamente più verosimile l'addomesticamento dei cavalli e può indicare che i cavalli hanno avuto un ruolo nella diffusione dei gruppi Yamnaya. Tale conclusione è accettabile, nel senso che è verosimile che i cavalli possano aver svolto un certo ruolo nella diffusione dei gruppi Yamnaya, anche se ancora non siamo in grado di individuare bene il tipo di ruolo e la sua importanza. È invece da respingere, come vedremo fra poco, la generica amplificazione del titolo: Dairying enabled Early Bronze Age Yamnaya steppe expansions, cioè “La produzione di latte ha consentito le espansioni Yamnaya nelle steppe della prima età del bronzo”.

Tornando ora allo studio di Garnier e colleghi, ciò che proprio non convince è la conclusione: In conclusione, noi deduciamo che la tolleranza del lattosio fornì agli Indoeuropei una spinta demografica e forse un incremento della statura, e ambedue le cose portavano a una superiorità militare sulle preesistenti comunità agricole che erano economicamente prospere ma mancavano di mezzi politici per organizzare un’adeguata resistenza[25].

Fig. 3 Bollitoi per latte preistorici (a, c) e moderni (d); vari tipi di coperchi-salvalatte dell’età del bronzo rinvenuti in Italia (b) (da Depalmas e di Gennaro 2013, modificata)  

Anzitutto abbiamo visto che le presunte percentuali di LP (persistenza della lattasi negli adulti) nelle popolazioni YAM sono state contestate e comunque l’assunzione di latte e derivati non sembra una valida causa di crescita della statura. Ma soprattutto è errato il presupposto che tale assunzione da parte di persone adulte costituisca un vantaggio demografico decisivo. Infatti sappiamo, e gli stessi Garnier e colleghi lo riconoscono, che già nel VII millennio a.C. nel nordovest dell’Anatolia il latte era trasformato in prodotti che, contenendo meno lattosio, potevano essere digeriti dagli adulti, oltre che conservati più a lungo del latte in quanto tale, come è stato dimostrato dall’analisi dei residui conservatisi in contenitori ceramici[26]; anche se non possiamo affermare con sicurezza che si producessero veri e propri formaggi, si può pensare ad altri derivati (come yogurt, latte acido e burro). Quindi già nel Neolitico alcune popolazioni potevano disporre, anche per gli adulti privi della lattasi, dell’apporto alimentare fornito da prodotti ottenuti dal latte[27]. Altre analisi, condotte su “frammenti ceramici forati con piccoli fori” [28] e su alcuni tipi di contenitori in ceramica (bowls) provenienti da siti neolitici della Linearbandkeramik del Nord-Europa, hanno rilevato tracce di grasso riconducibili a trattamenti del latte. A questo punto è utile spendere due parole sui frammenti ceramici costellati di fori e di forma particolare che alcuni autori hanno interpretato come setacci per la produzione di formaggi. Tale interpretazione è completamente errata, perché si tratta in realtà di coperchi-salvalatte per bollitoi, come l’archeologo Salvatore Puglisi aveva dimostrato già nel 1959 [29]. Tale innovazione tecnologica è stata in uso fino al secondo dopoguerra, nella versione in alluminio e poi in acciaio inossidabile (fig. 3 d). Nella preistoria il bollitoio per latte era un vaso di ceramica, tendenzialmente cilindrico, con un listello interno a una certa distanza dall’orlo (fig. 3 a, c), su cui veniva poggiato un elemento troncoconico o a imbuto costellato di piccoli fori e aperto sia in basso che in alto (fig. 3 b). Quando il latte arrivava all’ebollizione, la schiuma saliva fino a traboccare dal foro centrale in alto per poi ricadere lungo le pareti del “coperchio” forato e rifluire dentro il bollitoio, lasciando sul coperchio la parte grassa (fig. 3 c). Tre erano i vantaggi apportati da questa strumentazione: 1) il latte poteva essere sterilizzato senza perdite del contenuto; 2) ne veniva prolungata la conservazione; 3) la parte grassa poteva essere consumata separatamente dal latte o trasformata in burro. I reperti archeologici di tale strumentazione confermano che la risorsa latte era sfruttata già durante il Neolitico anche nell’Europa continentale, sia pure con probabili differenze fra le diverse aree, come peraltro sembra avvenisse nel Vicino Oriente[30].

In conclusione, per quanto concerne la percentuale di adulti in possesso della lattasi[31], lo studio di Allentoft et Alii fornisce indicazioni approssimative, in parte incongruenti e soprattutto non scaglionate nel tempo, sicché è difficile individuare qualche linea di tendenza e quindi qualche possibile influenza su processi di adattamento genetico, che giustifichi, nella prima metà del III millennio a. C., il (presunto) successo riproduttivo degli individui in questione.

Per finire, non si può non sottolineare il fatto che purtroppo anche nell’ambiente scientifico si è andata diffondendo una modalità di comunicazione che, come ho già mostrato a proposito di altri articoli, cerca il massimo impatto mediatico, specialmente attraverso titoli e sommari ad effetto, a spese della coerenza rispetto al contenuto e della trasparenza scientifica.

 

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Note

 

[1] Di Fraia 2020b

[2] Di Fraia 2020a, 2020c, 2021a, 2021b.

[3] Gimbutas 1963.

[4] Gimbutas 1986, p. 305. Per questa e per tutte le altre citazioni di testi in inglese, la traduzione è stata fatta dallo scrivente.

[5] Vedi in particolare le tesi dell’archeologo Gustaf Kossinna (1859-1931), ampiamente utilizzate dalla propaganda razzista del regime hitleriano.

[6] Olalde et Alii 2018, p. 190.

[7] Olalde et Alii 2019, p. 1230.

[8] Anthony 2020.

[9] Furholt 2021, pp. 28-29.

[10] Anthony 2020, p. 14.

[11] Furholt 2021, p. 25.

[12] Di Fraia 2020a.

[13] Olalde et Alii 2018, p. 194.

[14] A questo proposito v. anche Di Fraia 2021c.

[15] Gaunitz et Alii 2018, Abstract.

[16] Fages et Alii 2019, pp. 1, 3.

[17] Heggarty 2013, p. 164.

[18] Garnier et Alii 2017, p. 294.

[19] Allentoft et Alii 2015, p. 171.

[20] Burger et Alii 2020, p. 4310.

[21] Ibidem.

[22] Ibidem.

[23] Ho tradotto con « latticini » il vocabolo inglese dairy, che in realtà ha una maggiore ampiezza semantica.

[24] Wilkin et Alii 2021, p. 4.

[25] Garnier et Alii 2017, p. 294.

[26] Evershed et Alii, 2008.

[27] Si veda anche l’importante studio del giapponese Masahiro Hirata concernente la cultura del latte nell’Eurasia, recentemente tradotto in inglese (Hirata 2020).

[28] Salque et Alii 2013.

[29] Di Fraia 2015

[30] Evershed et Alii 2008, pp. 530-531.

[31] Di Fraia 2009.