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Il diritto a una formazione scientifica - di Emanuele Serrelli

Il diritto a una formazione scientifica

di Emanuele Serrelli


Una riflessione filosofica sull’educazione scientifica a partire dalla Convenzione sui diritti dell’infanzia arriva a sostenere che il diritto all’educazione non può che tradursi anche in un diritto a una formazione scientifica. Scopo di questo scritto è approfondire tale idea e darle concretezza esemplificativa. Innanzitutto si accenna a una tradizione di pensiero che mette al centro la natura della scienza come oggetto di sperimentazione e di apprendimento. Essa si incontra felicemente con l’idea di cittadinanza scientifica stabilendo le priorità di una vera formazione scientifica. Strumento principe dell’educazione alla natura della scienza è il laboratorio a tema scientifico, un’esperienza guidata aperta ma non troppo. Nella sua apparente semplicità si gioca tutta la complessità dell’attività scientifica e dei suoi oggetti. L’esempio qui offerto è un laboratorio sull’evoluzione con le risposte elaborate dai partecipanti (studenti di terza media), dove dicotomie come “continuo vs. discontinuo” o “modello ramificato vs. modello lineare” lungi dal semplificarsi si rimettono in gioco per aprire una formazione scientifica responsabilizzante, proprio – a parere dell’autore – nello spirito della Convenzione sui diritti dell’infanzia.

 

Indice: Introduzione – La formazione alla nature of science – I laboratori a tema scientifico – Sette pesci per sperimentare l’evoluzione [Lineare o ramificato, continuo o discontinuo: la complessità della scienza dell’evoluzione; Aperto o chiuso? Varietà epistemologica vs. tipizzazione e autoritarismo] – Conclusione  scaricare

 

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Emanuele Serrelli

Post-doc in Filosofia della Scienza presso l’Università degli Studi di Milano Bicocca, dopo un percorso che presenta aspetti marcatamente pedagogici si è specializzato in filosofia della biologia ed epistemologia della teoria dell’evoluzione. Membro di gruppi di ricerca e società scientifiche nazionali e internazionali, pubblica testi specialistici conservando impegno e attenzione all’importanza dell’epistemologia per la didattica della scienza (www.epistemologia.eu).

 

Introduzione

Il diritto all’educazione è tematizzato e regolato dall’Articolo 29 comma 1 della Convenzione sui diritti dell’infanzia (*). L’educazione del fanciullo, si legge al punto (c), deve «preparare il fanciullo ad assumere le responsabilità della vita in una società libera, in uno spirito di comprensione, di pace, di tolleranza, di uguaglianza tra i sessi e di amicizia tra tutti i popoli e gruppi etnici, nazionali e religiosi e delle persone di origine autoctona» (*). Gli strumenti di tale preparazione non sono dettagliati all’interno della Convenzione la quale, si sa, è chiamata a enunciare principi generalissimi lasciando aperta la possibilità di utilizzare i mezzi più diversi. La domanda che vorrei porre è la seguente: se dovessimo indicare le vie che meglio preparano bambini, ragazzi e adolescenti alla responsabilità della vita nella nostra società, penseremmo, noi, all’apporto delle scienze? E se sì, con quale ruolo? S’intendono, senza dicotomie, tutte le scienze, sia quelle tradizionalmente nominate «naturali» come biologia, fisica, chimica, geologia, sia quelle «umane» come antropologia, psicologia, sociologia. Sospetto che, quantomeno, le scienze non siano proprio il primo pensiero che si associa al diritto all’educazione. Quanto alle scienze naturali, probabilmente non penseremmo a un loro ruolo: le vedremmo più adatte semmai alla finalità di cui al punto (e): «sviluppare nel fanciullo il rispetto dell’ambiente naturale». Sulle scienze umane, opportunamente stimolati, potremmo anche fare qualche apertura ritenendo che il sapere scientifico sull’uomo possa contestualizzare le differenze etniche e culturali di cui si parla nell’Articolo 29. Tuttavia tali aperture potrebbero essere controbilanciate dall’idea tradizionale che la scienza tratti con distacco, freddezza e determinismo i suoi oggetti – le vie d’uscita normalmente individuate sono due: le scienze umane o non sono veramente scienze, o non sono veramente umane; in entrambi i casi il risultato, per la nostra questione, è che no, la scienza non ha posto ai fini degli obiettivi educativi posti dalla Convenzione.

            Eppure vi è ormai una vasta letteratura attorno a ciò che viene definito cittadinanza scientifica (es., Osborn 2000, Wellington 2003, Greco 2008), concetto che ha in realtà una lunga e illustre tradizione (Ceci 2012). Scrive Pietro Greco:


La scienza – e la tecnologia che della scienza è, insieme, figlia e madre – sono sempre più elementi essenziali della nostra vita, in ogni e ciascuna delle sue dimensioni, individuale e collettiva; culturale, politica, sociale ed economica. L’accesso alla conoscenza scientifica e alla possibilità di utilizzarla in ogni e ciascuna di queste dimensioni – individuale e collettiva; culturale, politica, sociale ed economica – è sempre più un carattere qualificante della democrazia in un’era che, non a caso, viene definita della conoscenza: the better you know, the better you make your choice (Greco 2008).


Se tutto ciò è vero, allora il diritto all’educazione non può che tradursi anche in un diritto a una formazione scientifica. Scopo di questo breve scritto è approfondire questa idea e darle concretezza esemplificativa. Innanzitutto accenniamo a una tradizione di pensiero che mette al centro la natura della scienza come oggetto di sperimentazione e di apprendimento. Essa si incontra felicemente con l’idea di cittadinanza scientifica stabilendo le priorità di una vera formazione scientifica. Strumento principe dell’educazione alla natura della scienza è il laboratorio a tema scientifico, un’esperienza guidata aperta ma non troppo. Nella sua apparente semplicità si gioca tutta la complessità dell’attività scientifica e dei suoi oggetti. L’esempio qui offerto è un laboratorio sull’evoluzione con le risposte elaborate dai partecipanti (studenti di terza media), dove dicotomie come “continuo vs. discontinuo” o “modello ramificato vs. modello lineare” lungi dal semplificarsi si rimettono in gioco per aprire una formazione scientifica responsabilizzante, proprio – a mio parere – nello spirito della Convenzione sui diritti dell’infanzia.

 

La formazione alla nature of science

La formazione scientifica può essere intrapresa, progettata, erogata secondo una lunga e pluriforme tradizione di analisi che molti denominano «nature of science» (Aicken 1984, Bell et al. 2001). Invece molte pratiche che si presentano sotto il nome di educazione o istruzione scientifica hanno l’effetto di produrre e consolidare – in chi insegna e in chi impara – mitologie errate e infondate circa la scienza. A metà degli anni Ottanta due studiosi canadesi, Robert Nadeau e Jacques Déusatels (1984), individuavano sei miti sulla scienza, collegati a una visione «scientista» da non veicolare e anzi da combattere attraverso una corretta formazione scientifica. Diversi anni dopo, alla fine degli anni Novanta, uno dei principali proponenti contemporanei della «nature of science» indicava ben quindici miti (McComas 1998) riguardanti leggi, ipotesi, metodo, evidenze, supposta aridità della scienza, esaustività, oggettività, esperimento, progresso e perfezionamento, accettazione delle novità, realismo, tecnologia, individualismo. Oggi potremmo convalidare senz’altro l’esigenza antiscientistica di Nadeau e Déusatels, sebbene forse non negli stessi termini e con la stessa forza. Potremmo considerare meno pervasivi alcuni tra i miti analizzati da McComas alla fine degli anni Novanta, ma aggiungerne altri come «quelli dell’immediatezza, della disponibilità dell’informazione ‘là fuori’, della sottovalutazione dell’impegno nella certezza che ‘qualcuno lo farà, o l’ha già fatto’, e anche – tutto sommato – della equivalenza delle voci, in cui la scienza viene posta sullo stesso piano di tutte le altre forme di informazione, nello spazio delle cose che si dicono e si scrivono» (Serrelli 2011, p. 23). Più in generale, il problema della formazione scientifica si sdoppia dunque in quello dell’apprendimento dei contenuti scientifici da una parte, e in quello della comprensione di che cosa sia la scienza (the nature of science, appunto) dall’altra. Come ben spiegavano, già nel 1984, Nadeau e Déusatels:


…ciò che gli studenti ricevono nelle lezioni di biologia, chimica, fisica (e anche di geografia, storia, matematica, ecc.) non può essere ridotto a una massa di fatti obiettivi e impersonali da immagazzinare nelle proprie memorie per un uso successivo. Prima di tutto viene comunicata agli studenti una specifica immagine di che cosa sia la scienza e di che cosa essa dica di essere mentre essi si familiarizzano con i risultati raggiunti da quelle discipline. Gli insegnanti di scienze, volontariamente o meno, consciamente o meno, svolgono il ruolo non soltanto di fornitori di un bagaglio di conoscenze teoriche, bensì di strumenti attraverso i quali vengono dati legittimità e valore all’attività scientifica. Essi trasmettono un concetto di scienza nello stesso momento in cui potrebbero pensare di stare meramente trasmettendo conoscenza accettata (Nadeau e Déusatels 1984, p. 12, trad. mia).


Lo spostamento dell’attenzione dalle nozioni scientifiche alla natura della scienza incontra la questione della cittadinanza scientifica e la approfondisce, in quanto esplicita il fatto che la misura cruciale per «una migliore facoltà di scelta» non è la quantità delle informazioni e delle conoscenze, bensì la padronanza consapevole di un pensiero di tipo scientifico che sa ascoltare, interpretare, reperire i prodotti della scienza che – tra l’altro – evolvono a una velocità tale per cui ogni apprendimento nozionistico invecchia rapidamente (una novità epocale fotografata, ad esempio, dal pensiero di Edgar Morin, 1999).

            Diritto all’educazione diventa quindi anche diritto a una formazione scientifica, e a una formazione scientifica di qualità che fornisca sì nozioni scientifiche di base ma che anche inneschi nei bambini, nei ragazzi e negli adolescenti la partecipazione alla scienza come impresa di conoscenza portata avanti dagli scienziati a nome del paese, della comunità degli stati e dell’umanità intera, e inoltre un’impresa a cui, a vario titolo, giovani e adulti (a volte anche i bambini) (*) possono essere chiamati a partecipare attivamente.

 

I laboratori a tema scientifico

Come si può produrre una familiarizzazione con la natura della scienza? Varie riflessioni e tecniche sono ormai disponibili e allo studio in tutto il mondo, messe in rete nella comunità internazionale della «nature of science» (Bell et al. 2001). Una delle modalità è quella del laboratorio a tema scientifico (McComas 2006, cf. Pievani & Serrelli 2008) (*). Laboratorio, nella riflessione sull’educazione scientifica, non significa solo e tanto uno spazio attrezzato con strumenti come microscopi, scheletri, provette o macchinari fisici. Per quanto tali strumenti «veri» della scienza (magari adattati a scopo didattico) possano svolgere un ruolo importante, per laboratorio si intende essenzialmente una situazione interattiva in cui, con la manipolazione concreta o mentale di vari tipi di materiali e di stimoli, gli studenti costruiscono pensiero scientifico e conoscenza insieme all’insegnante. Per essere funzionale in un contesto come quello scolastico, il laboratorio dovrebbe essere collocato a precedere spiegazioni frontali, per introdurre e non soltanto per verificare concetti; dovrebbe funzionare attraverso domande brevi e vere (le domande vere sono quelle di cui non si conosce già la risposta, diversamente da ciò che avviene in una interrogazione); siffatte domande innescano reali processi di indagine nei quali gli studenti possono (anzi, devono) scegliere dove andare e come procedere. Nei laboratori avvengono «cicli di apprendimento» nei quali gli studenti sperimentano ad esempio che «il dibattito, il ripensamento, e cicli di verifica sono elementi importanti dell’impresa scientifica e, come tali, sono essenziali in un discorso scientifico sano» (McComas, p. 21, trad. mia). Alcuni atteggiamenti del docente-in-laboratorio ne influenzano in maniera deteminante la riuscita:


vediamo un’insegnante che investiga più che insegnare nel senso tradizionale di «trasmettere conoscenza»; tende ad essere breve: deve costantemente trattenersi dal fornire nozioni agli studenti che sarebbero risposte a domande mai poste; ha il ruolo chiave di provocare, di sfidare gli studenti e di suggerire loro attività attraverso le quali possono trovare da soli le risposte; a seconda del «grado di apertura» del particolare laboratorio, consente scelte reali; ha uno stile facilitante: invece che interrompere e correggere gli studenti, aiuta la diffusione nella classe delle buone idee e strategie, e aiuta a trovarne di nuove. Il lavoro di questo insegnante è pertanto rinnovato e arricchito anno dopo anno da risultati nuovi e inaspettati. Naturalmente deve trovare soluzioni per una valutazione autentica e onesta, che rispetti la natura dell’attività laboratoriale (Pievani & Serrelli 2008, pp. 545-546, trad. mia) (*).


Si noterà quanto sia imparentato il lavoro dell’educatore scientifico con quello dell’educatore tout court, una conferma ulteriore dell’unità del sapere e della profonda connessione tra diritto all’educazione e diritto all’educazione scientifica, nonché uno stimolo a un dialogo e a una curiosità scientifica tra chi «non si occupa di scienza» e chi invece lo fa. Viene alla mente il grande maestro Stephen Jay Gould, paleontologo e scrittore, il quale utilizzò sempre come bussola dei suoi saggi di divulgazione della scienza le domande dei lettori e degli interlocutori, i loro problemi e le spiegazioni da essi cercate, conferendo pari dignità epistemologica a scienziati e non-scienziati accomunati dalla curiosità e dagli interrogativi (Serrelli 2008b, 2012). Scienziati e non-scienziati si muovono per trovare spiegazioni e metterle alla prova. In una formazione guidata dalle domande, non è dunque impensabile introdurre escursioni nei territori della scienza, e concepire a sua volta la formazione scientifica stessa come una serie di escursioni sempre più approfondite piuttosto che come la costruzione meccanica di un granitico edificio sempre più alto (cf. Lockshin 2007, Serrelli 2009b).

Nella citazione sopra riportata si fa riferimento al grado di apertura del particolare laboratorio. Si tratta di una delle dimensioni che variano a seconda delle attività di educazione scientifica proposte. Il grado di apertura di un laboratorio ha a che fare con la reale imprevedibilità del risultato finale: quali problemi si andranno a indagare? Quale dislivello di conoscenza in merito a tali problemi separa gli studenti dall’insegnante? Di seguito, a titolo di esempio, illustro brevemente un’attività laboratoriale a tema evoluzionistico detta «dei sette pesci» (Serrelli 2006) (*). Cercando di valutarne il grado di apertura ci si scontra con la relatività di questa misura: essendo la domanda iniziale contraddistinta da carenza di informazioni e impossibilità di riscontro empirico, gli studenti ricorrono all’immaginazione e alle proprie conoscenze, liberi di rispondere a propria totale discrezione; tuttavia il conduttore del laboratorio, dopo aver discusso e confrontato le varie ipotesi con gli studenti, propone una propria risposta – il che farebbe propendere per una chiusura del laboratorio; la questione è complicata dal fatto che anche la risposta del conduttore è dichiaratamente costruita, soltanto con l’accortezza di utilizzare il maggior numero possibile di «modalità cognitive» per mostrarne agli studenti il funzionamento. Apertura o chiusura dunque? E poi, stanno veramente gli studenti sperimentando la scienza «dall’interno»? La ricerca scientifica è un’attività umana molto complessa, e gli studenti possono esperirne alcuni elementi attraverso un laboratorio. L’attività dei sette pesci che sto per presentare brevemente non è ricerca evoluzionistica. Mira però a far intuire agli studenti che la scienza è di fatto una attività, che nella biologia evoluzionistica il momento della costruzione di ipotesi è molto importante e si avvale di concetti scientifici differenti, e che di tali concetti ve ne sono molti di più di quelli cui ricorriamo in maniera intuitiva. In alcuni casi, come quello delle differenze tra maschio e femmina (dimorfismo sessuale) o tra giovane e adulto (sviluppo), il fatto è semplicemente che l’abitudine cognitiva non associa (ancora) questi concetti in modo ovvio all’evoluzione.

 

Sette pesci per sperimentare l’evoluzione

L’attività dei sette pesci procede da una scheda sulla quale sono allineati, appunto, sette disegni di pesci diversi, al tratto in bianco e nero (si veda Narducci & Serrelli 2012). La scheda inoltre riporta la consegna volutamente generica «A partire da questi esemplari rappresenta una tua ipotesi evolutiva». I partecipanti all’attività elaborano risposte individuali su fogli che poi vengono raccolti dal conduttore, dopodiché ha luogo una discussione guidata su alcuni aspetti delle risposte. Prima di tale discussione, il conduttore analizza e classifica, più o meno approfonditamente a seconda del tempo a disposizione, le risposte, focalizzando l’attenzione sulla base di alcune ipotesi e di alcuni obiettivi formativi.

Ogni laboratorio a tema scientifico infatti necessita di ipotesi. Questo è ovvio nel caso di una vera e propria ricerca scientifica condotta da studenti e docenti insieme: si è già accennato all’importanza delle ipotesi nella scienza, un’importanza che è difficile percepire e analizzare se non sperimentandola dall’interno. Qui parliamo però di un altro tipo di ipotesi: ipotesi sulle pre-conoscenze, sulla cognizione e sulle trasformazioni epistemologiche che dovrebbero avvenire nelle menti dei discenti. Sono dunque ipotesi a priori e di livello «meta» rispetto al laboratorio, e ne orientano la progettazione e la conduzione. Ipotesi epistemologiche sono rilevanti nel caso di laboratori come quello dei sette pesci che simulano una fase dell’attività scientifica, non prevedono ricerca empirica, e hanno obiettivi didattici abbastanza definiti. Due delle ipotesi-guida che hanno motivato fin dall’inizio il laboratorio dei sette pesci potrebbero essere così espresse:

Hp1: abbiamo una preferenza generalizzata per cambiamenti evolutivi di tipo lineare e graduale;

Hp2: cogliamo come rilevante per l’evoluzione soltanto un tipo di relazione, quella antenato-discendente, che tra l’altro accettiamo in maniera poco problematizzata; siamo tendenzialmente ciechi a tutta una serie di altre tipologie di relazione, come quella tra i sessi, quella giovane-adulto, e perfino quella popolazione-ambiente (come se l’evoluzione avvenisse nel vuoto).

 

serrelli 1

Figura 1. Una risposta di tipo lineare al laboratorio dei «sette pesci». Risposte di questo tipo tentano di determinare una successione evolutiva attraverso un qualche principio di «massima gradualità».

 

Nell’attività dei sette pesci, il confronto commentato tra le risposte ambisce dunque a obiettivi formativi: mettere in discussione il modello «monorelazionale» lineare – che si suppone modello di partenza nelle abitudini cognitive degli studenti – e complessificare l’idea «ingenua» di evoluzione, come descritto in Serrelli (2006). Avendo negli anni proposto i sette pesci a tipologie di studenti molto varie, posso senz’altro dire che non mancano mai ipotesi come quella in Fig. 1 che sottolineano linearità e continuità: qui gli «esemplari» della scheda vengono forzati in una «fila» e vengono ignorati i molti indizi contrari, le molte anomalie. Gli unici dubbi di chi risponde in questo modo riguardano l’ordine della successione, e la soluzione viene cercata seguendo un principio che potremmo definire della «massima gradualità» della serie.

 

Lineare o ramificato, continuo o discontinuo: la complessità della scienza dell’evoluzione

Il canovaccio mentale dell’attività dei sette pesci prevede poi di contrapporre, alle risposte lineari e continuiste (Fig. 1), ipotesi basate sulla ramificazione come quella in Fig. 2, ipoteticamente più rare tra gli studenti, ma più rispondenti al concetto fondamentale di «discendenza comune con modificazioni» di Darwin (Bredekamp 2005), nonché alla pratica scientifica della biologia evoluzionistica contemporanea (per un’introduzione di veda Pievani 2010). Le cose tuttavia non sono così semplici, e anche noi conduttori siamo continuamente stimolati a complessificare le nostre vedute. Innanzitutto lineare non è sinonimo di continuo, come si vede dalla bella immagine in Fig. 3: uno schema lineare punteggiato da eventi esplicativi, essenzialmente ecologici, che ne segnano le discontinuità.

 

fig. 2

Figura 2. Una risposta di tipo ramificato, sempre basata sulla relazione antenati-discendenti.

 

 

figura 3

Figura 3. Lineare non è sinonimo di continuo: una storia lineare punteggiata da eventi ecologici.

 

Inoltre, continuo non è il contrario di discontinuo: essi convivono sempre. Ce ne accorgiamo se allarghiamo lo sguardo alla narrazione che accompagna ogni schema. Non sempre la narrazione è documentata, ma spesso essa si presenta in forma di scritto che accompagna o sostituisce lo schema grafico, come le citazioni che ora analizzeremo. Narrazioni diverse che condividono uno schema graduale, possono enfatizzare molto la continuità:


Risp. 1 – Inizialmente i pesci erano di 2 tipi (1 e 2) e vivevano tutti in grandi distese d’acqua. Col passare del tempo questi territori diminuirono tanto che, nell’esemplare n°1, gli si accorciò la coda perché non c’era più tanto spazio per nuotare. Mentre l’esemplare n°2, che adorava mangiare, in spazi così piccoli mangiò molto e divenne più grosso. Poi le distese diminuirono ancora e i pesci si sentivano troppo grossi così alcuni pesci nacquero un po’ più piccoli degli altri come il n°5 e il n°6. Infine questi pesci scomparvero, a poco a poco, lasciando un unico esemplare il n°7 (enfasi mia).


Più spesso, storie lineari e graduali sono scandite, ovvero «punteggiate», da eventi:


Risp. 2 – C’era una volta, in un lago freddo, una famiglia di pesci con delle grosse pinne e una con delle grosse labbra. Ogniuna (*) delle due specie aveva dei problemi a mangiare le alghe che si trovavano lì; ogniuna per problemi diversi. Un bel giorno d’estate, in cui il lago era soleggiato in ogni singolo angolo, le famiglie decisero di andare in escursione; una da una parte, l’altra dall’altra. La famiglia con grosse labbra, trovò una specie di alga che riusciva a masticare facilmente e decise di stabilirsi in quel punto. L’altra famiglia, quella con le pinne grosse, trovò un altro tipo di alga e anche lei si stabilì in quel punto. Così le due specie, ogniuna dal lato opposto del lago, divenne man mano più grossa e forte grazie all’abbondanza di cibo.


Il pensiero narrativo si trova a proprio agio in «un bel giorno d’estate» in cui le famiglie «decidono» di andare in escursione, sebbene il racconto ricordi un processo evolutivo che impiega di norma diverse migliaia di anni, detto «speciazione allopatrica per divergenza ecologica». Discutere queste storie non significa ridicolizzarle, tutt’altro: è ormai stato analizzato da più parti come il pensiero scientifico non sia affatto esente da narrazioni, per il semplice motivo che, come esseri umani, pensiamo per storie (es. O’Hara 1992, Gee 1999).

La risposta seguente enfatizza di nuovo molto la gradualità. Un grande evento è collocato all’origine della storia, in posizione antica. Si noti che l’evento in questione – lo sterminio dei pesci rimasti nel mare – assicura che la storia rimanga lineare, escludendo la ramificazione laterale che darebbe origine a storie parallele:


Risp. 3 – Questi pesci allinizio erano tutti uguali e vivevano in mare. Poi alcuni nuotando sono arrivati al fiume dove erano al sicuro dai predatori del mare, mentre gli altri sono stati sterminati. I pesci che in anni e anni si sono riprodotti nel fiume si sono adattati all’ambiente e dato che in precedenza avevano il muso più grosso per prendere il cibo sul fondo del mare e la pinna di sotto più larga per andare piano. Adesso anno le pinne più «a freccia» per essere più agili a schivare le roccie e stare al passo della corrente; e anno le bocce più piccole per prendere il cibo sul pelo dell’acqua che cade dagli alberi ai margini (enfasi mia).


Un’altra storia tra fiume e mare con le medesime caratteristiche di linearità e intreccio tra continuità e discontinuità è la seguente:

 

Risp. 4 – Tanto tempo fa, c’era un fiume in cui vivevano dei pesci, un giorno però sfortunatamente, mentre alcuni di questi pesci sfociavano nel mare (dal fiume, come i salmoni) una grossa roccia bloccò il passaggio e molti di questi pesci rimasero rinciusi all’interno del fiume, l’acqua passava lo stesso nel mare, ma loro no a causa delle dimensioni, troppo grandi per permettergli passare in mezzo alle fessure che facevano passare l’acqua così c’erano i pesci che erano passati nel mare e quelli che erano rimasti nel fiume. Con il passare del tempo, quelli marini cambiarono, modificando la loro bocca e trasformandola in una specie di piccolo aspirapolvere. Diventarono più piccoli, per nascondersi meglio nelle piccole rocce, e lo stesso accadde a quelli di fiume perché, comunque, sentendosi oppressi in quel sottile fiume, privo di cibo, cercando in tutti i modi di passare per le piccole fessure della roccia che permettevano di passare solo all’acqua, loro però non modificarono la bocca. Con il tempo riuscirono ad attraversare e fessure per finire nel mare, ma non diventarono come la stessa loro specie, ma marina, ritornarono alla loro normale grandezza, predando molti piccoli pesci, tra cui i loro «parenti» ma alla fine si estinsero.


Nella prossima citazione compaiono di nuovo lungo tempo e processi continui, come la selezione sessuale. L’intenzionalità e il finalismo residuali che ritroviamo nella descrizione di tale meccanismo cieco e automatico aprirebbero un grande capitolo che qui non abbiamo il tempo di esplorare (*). Restando sul tema di continuità e linearità, la catastrofe – questa volta «per mano dell’uomo» che trasporta i pesci in un habitat differente – è utilizzata qui per spiegare le discontinuità:


Risp. 5 – All’inizio c’era solo una specie di pesci che vivevano nel lago, avevano le labbra all’infuori, pinne rotondeggianti ed erano di piccole dimensioni (n°6), poi questi pesci si sono man mano evoluti accoppiandosi: uno piccolo con uno grande, uno grande con uno ancora più grande e così via, fino ad avere pesci come il n°2. Ma in questi pesci n°2 si sono evolute anche le pinne, ma non tutte e due, solamente quelle di sopra in modo da farli nuotare con più facilità, per evolvere tutte e due le pinne ci è voluto più tempo e sono diventati n°4. Poi successe una catastrofe, per mano dell’uomo alcuni questi pesci furono trasportati dal lago in mare. I pesci avendo bisogno di nutrirsi di cose diverse da quelle di prima, erano molto scomodi con la loro bocca sporgente e allora si cominciarono ad accoppiare con pesci che avevano la bocca un po’ meno sporgente fino ad arrivare a una specie con una bocca non sporgente ma piccoli (n°5). La specie più grandi (n°7) ma troppo grandi erano visibili ai predatori. Per ultimo i pesci che hanno evoluto la coda in modo da farla diventare più lunga e nuotare più velocemente e per lo stesso motivo sono diventati più sottili (n°7).


Perché una narrazione si possa svolgere, sono necessari eventi esplicativi, avvenimenti che punteggino anche la storia più continua. Ma è davvero soltanto una necessità della nostra comprensione «per storie» a creare l’alternanza, o meglio il complesso intreccio, di continuità e rotture? No, non è così, e gli scienziati – che devono integrare in spiegazioni uniche fenomeni eterogenei che si svolgono a diverse scale spaziotemporali – lo sanno. Accade proprio lo stesso agli studenti che affrontano la biologia, lo vediamo ad esempio in quelle risposte che contemplano la riproduzione sessuale e l’ereditarietà. Mi è capitato infatti di riscontrare la presenza di schemi di accoppiamento sessuale nelle risposte di alcuni gruppi di soggetti, ad esempio in ragazzi di terza media reduci probabilmente dall’apprendimento dei principi base della genetica mendeliana, la scienza dell’incrocio. Contravvenendo alla Hp2, occupandosi degli accoppiamenti tra i sette pesci (Fig. 4), i ragazzi scendono alla «grana fine» di quel cambiamento che su larga scala può apparire continuo. Qui la continuità e la sicurezza che, ad ogni generazione, avvengano accoppiamenti secondo determinate regole che daranno alla luce una prole secondo certe regolarità, si accosta a discontinuità irriducibili: la differenza tra i due sessi, il fatto che nessun esemplare sia veramente «medio» tra i due genitori, la difficoltà di pensare che dal pattern «a gradini», con corsi, ricorsi e ritorni, della ricombinazione sessuale, possa risultare un cambiamento cumulativo su larga scala. Altre discontinuità sono dovute all’imprevisto del «mostro» che può risultare da un incrocio, o all’inaspettata ibridazione tra linee rimaste separate per molto tempo.

 

 

figura 4

Figura 4. Risposte che si occupano della riproduzione tra i sette pesci.

 

È evidente, insomma, che l’esistenza del gioco tra continuo e discontinuo non è assolutamente dovuta soltanto ai nostri bisogni narrativi: la relazione tra i due nelle narrazioni illumina il loro intreccio che pervade la natura fisica e vivente. È il funzionamento stesso della natura che non ci lascia tranquilli, e ciò riemerge nell’attività dei sette pesci. Le difficoltà del pensare insieme continuo e discontinuo esplodono in tutte quelle risposte in cui, sullo stesso foglio, due diagrammi contraddittori mostrano l’aspetto mendeliano e quello macroevolutivo dello stesso processo (Fig. 5).

 

figura 5

Figura 5. Gioco tra continuo e discreto nei tentativi di combinare riproduzione e macroevoluzione.

 

Aperto o chiuso? Varietà epistemologica vs. tipizzazione e autoritarismo

Ora, ricordo che un laboratorio può essere definito aperto o chiuso secondo varie dimensioni. I sette pesci sono finalizzati a complessificare la visione dell’evoluzione mediante il confronto tra ipotesi differenti e attraverso l’intervento finale del conduttore, sulla base delle ipotesi fondamentali Hp1 e Hp2 che riguardano la diffusa preferenza per un solo tipo di relazione e per schemi lineari e graduali. In questo senso i sette pesci potrebbero essere visti come un laboratorio essenzialmente chiuso. Ma che dire della complessità e della diversità che emerge dalle risposte degli studenti? Ipotesi come Hp1 e Hp2 e – ciò che è più importante – le finalità di un laboratorio chiuso sono basate su una «tipizzazione epistemologica» che riduce la complessità: tanto utile in fase di progettazione, conduzione e formazione, la tipizzazione mette tra parentesi il fatto che non vi sono schemi lineari versus schemi ramificati (Narducci & Serrelli 2012), tantomeno vi sono soggetti «linearisti» che andrebbero portati verso l’idea di evoluzione ramificata. Le ipotesi sull’epistemologia sono una guida orientativa per il conduttore, tuttavia è un’ottica di diversità, di varietà epistemologica quella che rende maggiormente ragione di ciò che accade. Il laboratorio scientifico – anche il più chiuso – è quanto di più lontano da idee di omogeneizzazione e autoritarismo formativo. E in fondo da cosa dipendono le risposte ottenute in una esperienza di questo tipo? È proprio vero che da una consegna volutamente e assolutamente generica deriva il più ampio e svincolato ventaglio di risposte? Probabilmente no: i soggetti, per poter rispondere in estrema carenza di informazioni, si baseranno su indizi e micro-indizi, provenienti dal loro percorso precedente (in molti casi comune), dal contesto o dal comportamento del conduttore (anch’esso comune a tutti), da una consultazione diretta tra i partecipanti, o addirittura da domande poste direttamente al conduttore. Mi è stato fatto notare recentemente che la struttura stessa della scheda può indurre risposte di un certo tipo. Vi è quindi un condizionamento ex-ante delle risposte possibili in un contesto così artificiale. Vi è inoltre una selezione ex-post, laddove il conduttore influenza la discussione presupponendo gli aspetti da evidenziare, selezionando per l’analisi le risposte che meglio si prestano al discorso didattico che ha in mente e che è la motivazione stessa dell’attività.

Recentemente mi è parso di osservare, nelle risposte prodotte dagli studenti che si cimentano coi sette pesci, un fenomeno che di primo acchito sembrerebbe contraddire le ipotesi Hp1 e Hp2: pur senza un’analisi quantitativa precisa, se nei primi anni dei «sette pesci» un’altissima percentuale di risposte presentava effettivamente quella predilezione all’accumulazione lineare e graduale (Hp1), tale predominanza è tendenzialmente crollata davanti ai miei occhi di conduttore. Le risposte inoltre presentano una variabilità molto maggiore di quanto ci si aspetterebbe se Hp1 e Hp2 fossero davvero corrette: non è propriamente e sempre vero che preferiamo il mutamento continuo e graduale, né è vero che abbiamo tutti in mente soltanto relazioni antenato-discendente. Ma l’attività dei sette pesci non può essere considerata come un test di rilevazione di preferenze per linearità versus ramificazione, continuità versus discontinuità, e così via. Difficilmente tendenze osservate in attività come quella dei sette pesci sono attribuibili a preferenze diffuse che favoriscono il continuo o il discontinuo. Le scelte osservate possono essere spiegate altrettanto bene dalla selezione dei contesti in cui l’attività è stata proposta, o dalle modalità di proposta. Di conseguenza, se osserviamo una progressiva decadenza degli schemi lineari, essa può essere dovuta a progressivi scartamenti nella selezione dei contesti oppure nelle micro-modalità di proposta dell’attività, che non sono così rigidamente codificate. Non mi sembra che tutto ciò comprometta l’utilità formativa e critica dell’attività, tuttavia non bisogna dimenticare che i presupposti che danno senso alle attività di laboratorio a tema scientifico portano anche a trattarne i risultati con circospezione. Sappiamo che l’ottica della tipizzazione epistemologica, così utile in fase di conduzione e di formazione, non è una buona guida per l’analisi e porta a sopravvalutare l’omogeneità epistemologica tra gli educandi. Osservare la ricchezza e diversità delle risposte porta a riconoscere che il problema è semmai quello di pensare e raccontare insieme continuo e discontinuo. Un problema che si affronta e risolve, effettivamente, non attraverso una «tendenza di pensiero» uguale per tutti, bensì in modo personale, con tendenze e stili cognitivi diversi che non possono liberarsi dalla coesistenza dei due aspetti. È un aspetto interessante e serio della nature of science che diventa quindi produttivo e rilevante in contesti di formazione scientifica.

 

Conclusione

Nella nostra società una formazione scientifica è parte integrante dell’educazione di bambini, ragazzi e adolescenti, ed è pertanto tutelata dalla Convenzione sui diritti per l’infanzia. Chiaramente una formazione scientifica non è esaurita dalla pur fondamentale trasmissione di nozioni scientifiche di base, ma deve comprendere una familiarizzazione con che cosa sia la scienza, combattendo i miti che la circondano. Comunicare la natura della scienza è fondamentale per il fine dell’educazione indicato dalla Convenzione stessa, ovvero l’assunzione di un ruolo responsabile, quindi attivo, nella società. Una crescente letteratura e aggregazione di esperienze a livello nazionale e internazionale offre riflessioni avanzate e strumenti per la costruzione dell’educazione scientifica. I laboratori a tema scientifico, ad esempio, sono condotti da una figura che alle nozioni scientifiche deve necessariamente unire competenze e strategie pedagogiche per consentire agli studenti di sperimentare dall’interno almeno alcuni ingredienti o momenti della ricerca scientifica, come la formulazione di ipotesi. Se ve ne fosse ancora bisogno, il laboratorio rende manifesta la coerenza dell’educazione scientifica con l’educazione tout court della persona e dei gruppi. Il laboratorio a tema scientifico può assumere vari gradi di apertura, cioè di imprevedibilità del risultato. Laboratori a finale più chiuso spesso sono basati su ipotesi epistemologiche che definiscono quali siano le idee diffuse (le preconoscenze) e le finalità trasformative desiderabili. Il laboratorio dei sette pesci che ho qui descritto, ad esempio, mira a complessificare – attraverso l’attività stessa dei discenti – una visione lineare dell’evoluzione che si suppone ampiamente diffusa. L’analisi delle risposte mostra, tuttavia, ciò che ci si poteva aspettare: tipizzazioni epistemologiche come ad esempio lineare vs. ramificato sono semplificazioni della reale varietà epistemologica; vi è una maggiore complessità che dipende dalla complessità intrinseca dei problemi (l’intreccio inestricabile tra continuità e discontinuità, cf. Narducci & Serrelli 2012) e dalle molteplici influenze individuali, non soltanto di background scientifico, ma anche di veri e propri gusti estetici, nella visione del cambiamento espressa dai soggetti che partecipano attivamente. Oltre ai laboratori a tema scientifico vi sono esperienze di «nature of science» ancora più aperte come le conversazioni scientifiche (Sala 2004, Pievani et al. 2011). Da tutto ciò traiamo un insegnamento che ha a che fare il diritto a una formazione scientifica rispettosa della diversità epistemologica, della complessità delle domande, dell’apertura costitutiva della ricerca, anche al di là di obiettivi curricolari che necessariamente tipizzano, stereotipano, omogeneizzano. Nel libro La scoperta scientifica tra taccuini e bambini (Pievani et al. 2011), Telmo Pievani scrive del processo che portò Charles Darwin a scoprire la selezione naturale:

 

Nei taccuini lo vediamo […] innalzare dai fatti empirici un’architettura di generalizzazioni sempre più ardite. Arriva in poche settimane alla descrizione potente e sintetica dell’albero della vita, ma non gli basta: sta cercando, dice, la grande «legge della vita». La trova pochi mesi dopo e la chiamerà selezione naturale. Ma ancora non basta: torna indietro e alla luce delle ipotesi generali di quella che ora definisce «la mia teoria» rilegge gli schemi osservativi precedenti, talvolta li rinnega, ne deduce di nuovi. Dove i dati non tornano, per esempio sull’uniforme lentezza del cambiamento evolutivo, attribuisce l’anomalia ai difetti di documentazione. È così lontano dal diligente induttivismo professato in vecchiaia da introdurre persino l’idea di predizione rischiosa (p. 28).


E, ispirandosi a Darwin, così Pievani descrive l’impresa scientifica:


Analogie, metafore, esperimenti mentali, astuzie della ragione, la ricerca di una semplicità esplicativa: ecco l’armamentario della scoperta, momento «evolutivo» esso stesso dell’impresa scientifica. […] Sembra […] un cantiere aperto, un bricolage di idee nel tentativo razionale di domare fatti recalcitranti, una sfida di curiosità e di libertà tipicamente sapiens che ci porta a rivolgere sempre nuove sensate domande alla natura, ottenendo talvolta risposte non pertinenti (Ibidem).


Diritto alla formazione scientifica significa diritto a comprendere, sperimentandolo o perlomeno assaggiandolo, che la scienza è tutto questo. Dato che documenti come la Convenzione per i diritti dell’infanzia stabiliscono i fini senza precisare i mezzi, l’augurio è che venga riconosciuta l’unitarietà della formazione, senza obsolete divisioni tra «culture», che venga garantito il diritto ad avere orientamenti che non divengano incasellamento in stereotipi e a intraprendere percorsi non tracciati fin dal principio, che non iniziano dalla conclusione e che educano davvero alla conoscenza e alla responsabilità.

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