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Piccoli scienziati crescono

da L’Espresso 25 agosto 2011 - pag. 124 

di Valentina Murelli

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Quelli che quando si trovano per le mani una provetta con dentro la matassina bianca del loro Dna non stanno più nella pelle per lemozione.

Quelli che nel giro di tre mesi hanno imparato a programmare un robot.
Quelli che quando si vestono per il laboratorio, camice bianco e guanti in lattice, sembrano top model in passerella.
Quelli che «oggi niente moto, devo guidare una visita al planetario».
 
Adolescenti pazzi per le scienze, immortalati nelle tante scene quotidiane della scuola che funziona e che, nonostante i tagli, i bagni senza carta igienica e le polemiche, prova a offrire ai suoi studenti nuovi modi per imparare.
Nelle scienze, soprattutto, ce n’è bisogno come il pane.
Perché se da un lato le indagini internazionali dicono che in queste discipline gli studenti italiani sono in media molto scarsi, dall’altro basta passare un paio d’ore con questi ragazzi in un laboratorio per rendersi conto che ai teenager la scienza piace parecchio: manipolare strumenti, osservare fenomeni, fare domande, cercare soluzioni.
E intanto imparano: concetti, definizioni, e in generale che cos’è la scienza, come si fa, perché rende più facile la vita.
Gli insegnanti, una buona fetta, almeno, Io sanno.
Così in molti si rimboccano le maniche e, magari con l’aiuto di università e centri di ricerca, danno vita a esperienze proprio uguali a quelle che sono la norma in Finlandia o a Singapore.
Nonostante i tagli del ministro Maria Stella Gelmini.

Un milanese a Palermo
Un esempio? Andiamo a Palermo, al Liceo Classico “Vittorio Emanuele”, dove nel 2010 è stato inaugurato un laboratorio di scienze - 110 metri quadri di banconi nuovi e attrezzature da ricerca avanzata - che ha già accolto oltre 800 studenti, anche di altre scuole.
E hanno imparato a misurare il pH, a estrarre il Dita, a riconoscere le cellule del sangue al microscopio.
«Come in Csi», dicono i ragazzi tutti eccitati.
I protocolli sperimentali hanno messi a punto alcuni docenti del classico e di altre tre scuole palermitane insieme agli esperti del Programma I.F.O.M. per la scuola di Milano.
I.F.O.M., l’Istituto di oncologia molecolare della Fondazione italiana per la ricerca sul cancro, è in realtà un prestigioso centro di ricerca, ma da sempre privilegia il dialogo anche con la scuola, e ha messo in piedi un gruppo di lavoro ad hoc; siccome sono sempre più frequenti le richieste da regioni lontane, gli scienziati milanesi hanno dato vira a un polo staccato in Sicilia.
Altri seguiranno.
Un androide per amico La parola d’ordine del progetto, come di tutte le molte esperienze riuscite in varie parti della Penisola, è semplice: far mettere ai ragazzi “le mani in pasta”, nella convinzione che questo li appassioni di più e li aiuti a capire meglio che cosa stanno studiando e come funziona il metodo scientifico.
È lo stesso imperativo che ha portato in alcune scuole italiane persino i robot.
Imparare, dicono gli esperti, è più semplice se si lavora con un oggetto concreto: in genere si ordina un robot già pronto Io un kit per montarlo), Io si studia e poi lo si programma.
Se si riesce a fargli fare quello che si vuole la gratificazione è assicurata e intanto un po’ di meccanica, di informatica, di elettronica, ma anche di fisica e matematica, passano.
All’I.T.I.S. “Guglielmo Marconi” di Pontedera i ragazzi, con gli esperti della Scuola superiore “Sant’Anna di Pisa, l’anno scorso hanno realizzato robot in grado di partecipare a combattimenti di sumo, ma sono tantissime le classi che ogni anno sviluppano robot-calciatori, ballerini o soccorritori pronti per gare nazionali e internazionali.
Di attività da “mani in pasta”, comunque, ce n’è per tutti i gusti.
All’I.T.I.S. “Alessandro Volta” di Perugia, per esempio, gli studenti appassionati di astronomia si ritrovano in un laboratorio pomeridiano, lo StarLab, che ha addirittura progettato il planetario cittadino e oggi si occupa della sua gestione, accompagnando il pubblico alle osservazioni del cielo.
Scienza under 18, invece, è un’iniziativa che coinvolge varie scuole in diverse città italiane.
Durante l’anno, gli studenti lavorano a un progetto sperimentale - sui laser, sui fenomeni magnetici, sulla biodiversità nel campo dietro la scuola e così via - che poi viene presentato dai ragazzi pubblicamente, magari in un castello o in una piazza.
Non sempre, però, è possibile entrare in laboratorio o costruire qualcosa con le proprie mani.
Ma questo non ferma gli insegnanti più motivati: «Il laboratorio come luogo fisico è importante, ma lo è ancora di più insegnare l’atteggiamento mentale dello sperimentatore, come modo di lavorare che porta alla conoscenza partendo dai problemi, dalle domande, lungo un percorso in cui i ragazzi devono essere sempre coinvolti attivamente», precisa Isabella Marini, docente del Liceo Scientifico “Ulisse Dini” di Pisa.
È quello che gli esperti chiamano “problem based learning”, apprendimento basato sui problemi o sull’investigazione.
Se ne stanno occupando anche alcuni progetti europei: di uno, il progetto Fibonacci, Marini è tra i referenti italiani.
Anche l’insegnante Daniela Ambrosi, del Liceo Scientifico Statale “Galileo Galilei” di Perugia, ha sperimentato il metodo: «Ho letto in classe un articolo scientifico sulle estinzioni di massa, poi ho posto un problema: perché gli anfibi si stanno estinguendo? Ho suddiviso i ragazzi in gruppi, chiedendo a ciascuno di indagare su un aspetto: loro hanno tirato fuori temi di climatologia, anatomia, fisiologia, statistica.
Abbiamo anche allestito a scuola un acquario per i girini».

Il Prof non va in cattedra
È tutto un caleidoscopio di attività che punta a mettere il più possibile a riposo la vecchia lezione frontale, con l’insgnante che spiega e la settimana dopo interroga.
«Un modello che non funziona più», commenta Vincenzo Terreni, insegnante e tra i promotori di un patto per la scuola che nel territorio della Valdera, in Toscana, coinvolge comuni, istituti scolastici e centri di ricerca con l’obiettivo di fornire formazione continua ai professori.
«L’insegnamento dall’alto spegne l’interesse e i ragazzi studiano svogliatamente, mandando a memoria qualche definizione senza aver capito i concetti di base».
E soprattutto senza aver acquisito quelle che sono diventate il Graal della didattica di oggi, le cosiddette competenze: strumenti che possano servire ad affrontare situazioni mai incontrate prima, conoscenze e abilità utili anche fuori dall’aula.
Perché non serve a nulla sapere esattamente come si replica il Dna, se poi non si capisce che cosa sono gli Ogm di cui parlano i giornali.
E sono proprio le competenze - e non le pure nozioni - a essere valutate con le prove internazionali sulle performance degli studenti, come le prove Ocse-Pisa, nelle quali gli studenti italiani vanno male.
È vero: ci sono forti differenze per area geografica e tipo di scuola (al Nord si va meglio che al Sud, nei licei meglio che nei tecnici), ma rimane il fatto che la prova non è stata brillante e che per molti esperti questo è dipeso almeno in parte dal fatto che i nostri ragazzi non hanno ben sviluppato le competenze giuste.
Le esperienze in laboratorio e il ragionamento basato sui problemi, sull’indagine, aiutano ad andare in questa direzione.
Certo, è una didattica parecchio impegnativa: «Richiede tempo, impone di rimettersi in gioco, di correre il rischio imbarazzante che i ragazzi facciano domande a cui non sappiamo rispondere», afferma Luciana Lopiano, docente del Liceo Classico Statale “Vittorio Emanuele II” di Palermo.
E magari impone agli insegnanti di imparare a usare i nuovi strumenti digitali, di correre alle scuole di formazione.
Ma funziona.
Il ministro smonta tutto Sembrava che se ne fosse accorto persino il ministro Maria Stella Gelmini, con la sua riforma della scuola superiore.
Le linee guida per le varie scuole superiori dicono esattamente questo: che bisogna entrare in laboratorio (anche in senso figurato), sviluppare competenze e integrare le diverse scienze tra loro.
Invece nulla di fatto, perché alle dichiarazioni di intenti non corrispondono strumenti adatti a metterli in atto: mancano i corsi di formazione e una didattica così non si improvvisa, né può essere lasciata tutta al volontariato.
Ma soprattutto mancano tempo e risorse.
Perché la riforma mette in essere un piano di tagli articolato su tre punti: diminuire le classi, aumentando il numero di studenti per classe, ridurre le ore complessive di scuola e ridurre le ore di laboratorio.
Risultato: in alcuni indirizzi scolastici le ore di scienze sono decimate.
Meno ore negli istituti tecnici e professionali, meno al liceo artistico e al liceo delle scienze umane, per esempio.
Più ore, è vero, al Liceo Scientifico, sia nella versione tradizionale (13 ore su cinque anni al posto di 10), sia nell’opzione scienze applicate (22 ore).
Peccato che siano comunque meno o molte meno delle ore settimanali (18 o anche 25) garantite finora da alcune sperimentazioni.
Tutte cancellate.
E con le ore spariscono gli insegnanti: fino a un paio di anni fa, i posti per l’insegnamento della matematica e delle scienze nelle superiori erano circa 52 mila, con la riforma, che per ora ha interessato solo il primo biennio delle superiori, si sono persi già 2.200 posti, circa metà dei quali di docenti tecnico-pratici, proprio quelli che organizzano le attività di laboratorio.
L’operazione rimetterà nelle casse dello Stato circa 8 miliardi di euro, ma con meno ore, meno docenti e più studenti per classe, parole come “competenze” e “laboratorio” sono solo categorie vuote.