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Chi vende e chi compra sesso oggi in Italia?

 

Chi vende e chi compra

Chi vende e chi compra sesso oggi in Italia?

 

Luciano Luciani

 

Chi vende e chi compra sesso in Italia? E in Europa? Nel nostro Paese le stime sulle persone che si prostituiscono si aggirano fra 50.000 e 100.000: circa la metà lavora in casa, l’altra metà in strada. Tra le/gli street worker, l’80% è costituito da donne, il 15% da persone trans e il 5% da uomini: si reputa che almeno il 10% del totale abbia meno di 18 anni. La “domanda” italiana, invece, e alimentata da un esercito di clienti che, secondo una valutazione aggiornata, oscilla tra i 2 milioni e mezzo e i 9 milioni, 40 milioni per l’intera Europa dove le/i sex worker sarebbero 1-2 milioni.

Nel Bel Paese la legge che regola la materia, voluta dalla senatrice socialista Angelina “Lina” Merlin (1889 - 1979) che le ha dato il nome, è entrata in vigore il 20 settembre 1958, quasi 60 anni fa, ed è figlia della stagione storica dell’abolizionismo: un sistema di idee e valori che, dalla seconda metà dell’Ottocento, ha contestato e abbattuto in molti paesi la pratica delle “case chiuse”, che prevedeva l’obbligo di registrazione per le prostitute, i controlli sanitari, l’ospedalizzata forzata in caso di malattie. “Là dove ‘l sì suona” a ogni legislatura in Parlamento viene depositato almeno un nuovo progetto di legge sulla prostituzione, e nessuno di essi riesce mai ad arrivare in discussione: dal 1958, infatti, non è stata mai dibattuta né approvata nessuna riforma della legge Merlin.

Nel frattempo, in Europa e nel mondo, si sono andate delineando due grandi proposte, l’una alternativa all’altra. La prima persegue un modello “neo-proibizionista” ed è adottata dalla Svezia, dalla Norvegia, dall’Islanda e sembra ottenere anche il favore del Parlamento Europeo: è il cosiddetto “modello nordico”, l’unico grazie al quale il mercato del sesso - sembra - sia diminuito perché punisce l’origine del problema, la domanda, ovvero i clienti. È un sistema contestato, però, dai movimenti delle/i sex worker perché, mentre dichiara di voler proteggere chi si prostituisce, penalizzando chi compra i suoi servizi, in realtà, secondo i suoi detrattori, provocherebbe “non la contrazione dell’industria, ma piuttosto un aumento della vulnerabilità delle sex worker”. Gli effetti sono quelli, conosciuti, della criminalizzazione tout court: “aumento della violenza e degli abusi verso le sex worker, aumento dell’incidenza di Hiv/Aids e malattie sessualmente trasmissibili fra sex worker e in tutta la popolazione sessualmente attiva, aumento della prostituzione forzata e minorile, e generale peggioramento delle condizioni di lavoro e di vita delle sex worker”. In Svezia, che ha adottato una legislazione di segno proibizionista fin dal 1999, oggi la prostituzione non è socialmente tollerata e l’acquistare prestazioni sessuali comincia a essere visto soprattutto dai giovani come un comportamento superato e perdente.

L’altro modello è il “neo-regolamentarismo” praticato in Olanda, Germania e Svizzera, che legalizza i bordelli stabilendo le regole e garantendo i diritti per chi lavora nel mercato del sesso. Anche questo presenta però dei limiti: in molti casi, infatti, “le sex worker che non hanno la cittadinanza europea sono obbligate a lavorare nel sommerso” - con tutti i rischi che un fatto del genere comporta - perché non hanno permesso di soggiorno. Poi, secondo quanto denuncia in una recente intervista (“Il manifesto”, 10 X 2017) Rachel Moran, irlandese, ex prostituta e oggi giornalista e studiosa del problema, accesa sostenitrice delle responsabilità dei clienti, “La Germania è come un girone infernale. Lì ho incontrato donne così traumatizzate dalla prostituzione che non riuscivano nemmeno a parlare. Ho visto cartelloni sulle strade che reclamizzano ‘Una donna, una birra e una salsiccia al sangue’. Le donne sono vendute insieme a pacchetti menù... I bordelli sono palazzi di dodici piani costruiti per ospitare mille uomini al giorno e offrono donne a prezzi ridotti per pensionati e disoccupati”. Le donne sono ridotte a oggetti sessuali.

Fuori dall’Europa, poi, esiste un modello che convince molti di coloro che, “pur critici dei modelli di legalizzazione sperimentati da Olanda e Germania, sono attenti ai diritti delle e dei sex worker”: quello neozelandese. Secondo Giulia Garofalo Geymonat, autrice di un bel saggio edito da Il Mulino in tempi relativamente recenti - Vendere e comprare sesso. Tra piacere, lavoro e prevaricazione, 2014 - da cui sono ripresi la maggior parte dei dati e delle citazioni che appaiono in queste note, la Nuova Zelanda è stato finora l’unico paese a seguire il principio “banale eppure rivoluzionario”, secondo cui non è possibile difendere le persone che si prostituiscono senza una loro diretta partecipazione alle scelte. Qui legislazione e autorità manifestano “la volontà di favorire le imprese indipendenti e cooperative, dove le sex worker hanno un maggiore controllo del proprio lavoro”: piccole iniziative di gruppi ristretti di lavoratrici/lavoratori del sesso che non hanno bisogno di licenze e permessi formali, invece obbligatori per il grande business. Agli antipodi dell’Italia la prostituzione non è vietata in nessun luogo, secondo l’idea di fondo che qualunque forma di criminalizzazione della prostituzione adulta e consenziente finirebbe per rendere le prostitute più vulnerabili: “le risorse pubbliche sono invece investite nel sostegno attivo delle iniziative – il più possibile delegate ad associazioni specializzate – di mediazione del conflitto, prevenzione e cura sanitaria, lotta allo sfruttamento, alla violenza e alla prostituzione forzata e minorile”.