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Fenomeni vegetali

Fenomeni vegetali

Tra naturalismo e finalismo, tra scienza e divulgazione

 

di Marcello Sala

 

 

Movimento e sensibilità delle piante, caratteristiche che le avvicinano agli animali, erano state oggetto degli studi di Darwin, che oggi la bolla mediatica sull’ “intelligenza delle piante” rimuove per puntare sulla spettacolarizzazione attraverso un linguaggio decisamente finalistico e animistico, praticato anche dagli scienziati, presi nel gioco della divulgazione.   

Categorie che appartengono alla nostra esperienza di umani coscienti e intenzionati vengono proiettate anche sulle piante, impedendo di comprendere la diversità e le specificità delle loro strutture e funzioni.

Il problema di un linguaggio che contraddice la natura della rivoluzione naturalistica darwiniana, in cui i fenomeni si spiegano con processi funzionali ed evolutivi, è particolarmente pressante per i formatori.

 

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Charles Darwin tra il 1860 e il 1880 scrive sette volumi fondamentali sulle piante, anche su aspetti che siamo propensi a riservare ai soli animali: il movimento e la sensibilità. Studiando le piante insettivore si chiede se nelle loro reazioni non sia in gioco l'elettricità, analogamente a un impulso nervoso. Ne Il potere di movimento delle piante scrive: «Non è una esagerazione dire che la punta delle radici, avendo il potere di dirigere i movimenti delle parti adiacenti, agisce come il cervello di un animale inferiore…». Negli esperimenti sul fototropismo con il figlio Francis individua nell’apice del germoglio la parte sensibile alla luce e nel fusto la parte che reagisce piegandosi dalla parte della luce.

Charles Darwin aveva colto somiglianze tra piante e animali, che nel linguaggio dell’evoluzione sono manifestazioni dell’omologia, ovvero di una reale parentela, discendenza, attraverso innumerevoli generazioni, da un antenato comune, o dell’analogia, adattamento simile a problemi simili posti dall’ambiente. Perciò quando Darwin, dopo aver pubblicato I movimenti e le abitudini della piante rampicanti, in una lettera ad Asa Gray scrive: «Io sono convinto, Sir, che i viticci riescano a vedere» l’uso del termine “vedere” ha un chiaro significato metaforico, intenzionalmente “provocatorio”. Lo spiega un botanico di oggi che dirige un importante centro di ricerca:

«Quando esploro quello che la pianta vede o annusa, non sostengo con questo che la pianta abbia occhi oppure naso (o un cervello che influenzi l’input sensoriale con l’emozione […] Le piante non hanno un sistema nervoso centrale; una pianta non ha un cervello che coordini l’informazione per l’intero suo organismo. Tuttavia le diverse parti di una pianta sono strettamente collegate tra di loro, e le informazioni riguardanti la luce, le sostanze chimiche presenti nell’aria e la temperatura vengono scambiate costantemente fra radici e foglie, fiori e steli, in modo che il vegetale sia nelle migliori condizioni nei confronti dell’ambiente.» (Daniel Chamovitz, Quel che una pianta sa, 2013)

 

Segreti e bugie

Centocinquant’anni dopo le ricerche di Darwin si assiste al boom mediatico della “vita segreta delle piante”, come recita il titolo di un libro di successo di Peter Tompkins e Christopher Bird. Non si tratta di due botanici, ma di due agenti segreti in pensione, autori il primo di Una spia a Roma, The secret of Atlantis, Mysteries of the Mexican Pyramids, La magia degli obelischi, l’altro de La mano che indovina – L'arte di cercare acqua, minerali ed altre risorse naturali o qualunque altra cosa smarrita, mancante o di cui si abbia bisogno. L’evocazione del Kazzenger televisivo di Maurizio Crozza è inevitabile.

Il Festival della Scienza di Genova contribuisce così: “L'utopia tranquilla delle piante. Conferenza. Le piante hanno comportamenti sofisticati ed evoluti, una vita sociale meravigliosamente ricca e, in generale, una affascinante complessità che per millenni è rimasta sepolta sotto la loro apparente immobilità.” [1] L’ultima frase è frutto di ignoranza o di rimozione nei confronti di Darwin? o di quell’abitudine alla spettacolarizzazione che, almeno da noi, sembra inevitabilmente connessa alla divulgazione. Il fenomeno, che la scienza intende come ciò che si manifesta e che spesso spiega con ciò che solo si può pensare, diventa ciò che fa spettacolo:

«Queste teorie primitive di fenomeni tanto complessi si presentavano così come teorie facili, condizione questa indispensabile perché fossero divertenti e interessassero il pubblico. [...] vedremo istaurarsi un’era di facilità che priverà la scienza del senso del problema, che costituisce invece la nervatura del progresso. [...] La conoscenza infatti viene sostituita dall’ammirazione, e le idee dalle immagini

(Gaston Bachelard, La formazione dello spirito scientifico, 1938)

Forse quella presentazione al Festival è un modo di interpretare il primo messaggio che il conferenziere, Stefano Mancuso, scienziato che dirige un centro di ricerca ma che è anche molto presente nello spazio mediatico, lancia a proposito delle piante: “conosciamo ancora poco il loro mondo”. Il suo secondo messaggio è: “tuttavia è certo che i vegetali hanno una loro, sorprendente, intelligenza” [2]. 

Mancuso spiega in termini evolutivi le specificità della vita vegetale: le piante non possono fuggire e dunque la loro sopravvivenza dipende dalla possibilità di cambiare metabolismo e anche anatomia  (ad esempio perdere parti di sé senza morire); si sono evolute non come individui indivisibili ma come esseri modulari, non hanno ‘organi’ ma funzioni diffuse, hanno sensibilità diverse e anche superiori a quelle degli animali e sono esseri sociali con intense reti di comunicazione attraverso le radici.

Mancuso parla di “intelligenza” delle piante in quanto la definisce come “capacità di risolvere problemi” e la paragona a quella di uno stormo di uccelli. Come si vede questa definizione di intelligenza è proposta da una struttura linguistica in cui la pianta è il soggetto delle azioni che fa. È facile da qui arrivare al linguaggio antropomorfico che lo scienziato usa quando mostra i movimenti di un germoglio di fagiolo che, mentre cresce, si muove nello spazio circostante fino ad avvolgersi attorno a un supporto: “il fagiolo cerca un supporto per crescere… sa dov’è il supporto… sta cercando di raggiungere… a tutti i costi… sforzandosi… riesce a… è lo stesso movimento che fa un uomo… si vede proprio un’intenzionalità” [3] “…sa dove vuole andare e mette in atto delle strategie per arrivarci.” [4]

Quando Mancuso usa questo linguaggio, non c’è da stupirsi che il pubblico reagisca così: “quest’estate, quando sono andata in vacanza, la Abutilon sul mio terrazzo si è offesa: è stata bagnata da altre persone; e poi, anche quando sono tornata, per un bel po’  non ha fatto fiori… mi ha tenuto il broncio…” [5].

Una sua conferenza è così presentata: “Le piante parlano, il lato animale del vegetale di Stefano Mancuso”, assimilando i comportamenti della pianta a quelli dell’animale, più simile all’uomo. Interpretare il diverso secondo la propria cultura è ciò che gli antropologi hanno imparato a evitare quando contattano culture e modi di vita diversi, se vogliono comprenderli. Anche in biologia l’assimilazione a sé dell’altro passa attraverso il linguaggio e allora, se vogliamo comprendere la vita delle piante, dovremmo non tanto negare i fenomeni che vengono descritti come “si è offesa” o “mi ha tenuto il broncio”, quanto cercare di tradurre nel linguaggio della pianta, ovvero nei termini delle funzioni della pianta, in particolare quelle che la mettono in relazione con l’ambiente che la circonda, e delle strutture che le supportano:

«se vogliamo parlare di esseri viventi […] sarebbe opportuno adottare un linguaggio che fosse in qualche modo isomorfo, che fosse coerente con il linguaggio in base al quale gli esseri viventi stessi sono organizzati». (Gregory Bateson)

La comune qualità di esseri viventi si manifesta in certe caratteristiche di base, ma non siamo uguali. Chiedersi, sull’onda dell’ “intelligenza” e “intenzionalità”, se le piante “si offendono” o “amano” dà per scontato che funzionino come noi.

“Che cosa mangiano le piante?” è una domanda molto più banale, ma quanti se la pongono o conoscono la risposta? Sappiamo che in Italia il livello dell’educazione scientifica di massa è pericolosamente basso e forse siamo il paese in cui è più alta la percentuale delle persone che esibiscono la propria ignoranza scientifica. Tuttavia ci sono alcune poche idee scientifiche che tutti conoscono e sanno ripetere… e sono bugie: una è quella che inevitabilmente si riceve come risposta alla domanda precedente: “acqua e sali minerali”; altre sono “le piante di giorno fanno fotosintesi, di notte respirano”, “l’uomo discende dalla scimmia” ecc. Così si è imparato a ripetere e così si insegna a ripetere, generazione dopo generazione.

 

Credere di sapere o scoprire di non sapere

Dal punto di vista educativo il problema è che chi ripete convinto “acqua e sali minerali’’ difficilmente si chiede di che cosa si nutrono davvero le piante. Credere di sapere blocca l’intenzione di conoscere: è lo “scoprire di non sapere” che innesca il processo della conoscenza. Una delle modalità del credere di sapere è quella di accontentarsi di una assimilazione a schemi noti che si crede di riconoscere e soprattutto si vuole riconoscere. Non sono psicologo e non so motivare questo atteggiamento, che riduce la diversità e la varietà, e quindi la bellezza, del mondo, ma da formatore lo temo (è la facilità di cui parla Bachelard).

Oltretutto il cuore della proiezione di noi stessi sul resto del mondo vivente sta proprio nell’intenzionalità e consapevolezza. Un fenomeno come il fototropismo viene spesso spiegato in termini come questi: “la pianta volge le foglie verso la luce per raccogliere più luce per la fotosintesi”. Nella lingua italiana un verbo come “volge” implica un soggetto attivo dotato di intenzione (la pianta), mentre il termine “per” implica una finalità. Pensare che la pianta sia dotata di queste caratteristiche è “animismo”, che consiste nell’attribuire ogni fenomeno naturale all’azione di un soggetto dotato di un’ “anima” come quella umana. È una modalità di pensiero che Jean Piaget ha individuato come fase di sviluppo del pensiero infantile: è molto interessante chiedersi allora perché le persone adulte mantengono questa forma di pensiero; ma il punto è che essa è in totale opposizione al pensiero scientifico. La rivoluzione culturale  darwiniana consiste esattamente nel sostituire un pensiero naturalistico (leggi e contingenze) a quello finalistico dominante (“teologia naturale”, “disegno intelligente”). E dunque perché scienziati darwiniani continuano a usare un linguaggio finalistico? Un indizio per rispondere sta nell’osservare in quali contesti comunicativi lo usano, primo fra tutti la “divulgazione.

Un esempio significativo a questo proposito ce lo fornisce ancora Stefano Mancuso, che parlando di fonte a un pubblico stigmatizza la sottovalutazione che nella nostra cultura subisce il mondo vegetale[6]; per farlo cita David Attemborough che indica la balenottera azzurra come il più grande essere vivente, dimenticando la Sequoiadendron giganteum. In questo caso nulla da eccepire sulla scientificità dei contenuti né sulla strategia formativa (mostrare le premesse culturali di un errore scientifico per spiazzare il pubblico come inizio di un percorso di conoscenza), ma resta una domanda: perché il pubblico applaude? Riguardando il video appare come un comportamento adeguato al contesto; e qual è il contesto? quale ‘‘gioco linguistico’’ (nel senso di Wittgenstein) si sta giocando? qual è il ‘‘performativo’’, ovvero l’intenzione che si esprime nella pragmatica della comunicazione? Intanto le persone costituiscono un ’’pubblico’’ (stanno sedute in platea rivolte verso il palcoscenico sopraelevato) e dunque sono coinvolte in un ’’gioco linguistico’’ che prevede ruoli asimmetrici, con il “potere” tutto dalla parte del divulgatore. Egli lo usa, attraverso gli strumenti della retorica, soprattutto gli aspetti paraverbali, per coinvolgere il pubblico in quella dinamica che conosciamo come “tifo” (in questo caso la partita è: animali vs piante). L’applauso finale mostra come realizzi il suo performativo: ‘‘io tifo per le piante e dunque anche voi’’.

Ho scelto questo esempio per mostrare l’importanza del contesto della comunicazione, che è quello in cui lo stesso Mancuso parla di “intenzionalità” delle piante e gli scienziati usano un linguaggio finalistico: le modalità sono le stesse che si insegnano a chi deve parlare in pubblico nei corsi di public speaking. Questo discorso è importante perché ci porta vicino alla domanda chiave: gli insegnanti con i loro allievi fanno scienza o fanno divulgazione? Come ha insegnato Lavoisier (protagonista di una altra “rivoluzione” scientifica), un nuovo paradigma comporta un nuovo linguaggio; ma per gli educatori è di vitale importanza il reciproco: linguaggi diversi veicolano idee diverse; dunque è impossibile che le giovani generazioni, e in genere chi non è già esperto, costruiscano una conoscenza naturalistica se si usa con loro un linguaggio finalistico.

Oltretutto l’attribuire a una coscienza e intenzionalità la possibilità di percepire come stimolo una modificazione ambientale e di reagire in modo adeguato in termini di sopravvivenza, porta al paradosso di dover considerare dotato di coscienza e intenzionalità un normale impianto antincendio. Le reazioni alle modificazioni dell’ambiente nel caso dell’uomo spesso passano da circuiti nervosi complessi che comprendono valutazione, riflessione ecc., ma non tutte… per fortuna, altrimenti come potremmo sopravvivere mentre dormiamo o pensiamo ad altro? Il nostro riflesso pupillare è un esempio di funzioni che si ritrovano in organismi anche “semplici” come i batteri, la cui origine risale a più di tre miliardi di anni fa, basate su strutture biologiche che permettono di evitare danni all’organismo e di avere vantaggi nella sopravvivenza, che si sono evolute ben prima e in assenza di una rappresentazione cerebrale.

La biologia sviluppa la domanda base della scienza “come e perché accade ciò che accade?” nei termini di “come funziona e quali strutture organiche lo consentono?”. La teoria dell’evoluzione ha aggiunto come ulteriore domanda “che storia c’è dietro?” e le risposte riguardano il manifestarsi di modificazioni casuali (per mutazione e ricombinazione), il loro rivelarsi vantaggiose per la sopravvivenza e per la riproduzione, il loro crescere statisticamente nella popolazione attraverso le generazioni. Tra le “cause prossime” (come funziona; quali strutture lo rendono possibile) e le “cause remote”(che storia evolutiva c’è dietro) si pongono le “cause funzionali”: quale vantaggio in quel contesto ecologico di relazioni con l’ambiente ha innescato l’evoluzione di quel tratto.

Gli adattamenti alla vita sessile sono il risultato (non certamente il fine) dell’evoluzione delle piante; le caratteristiche che permettono di sopravvivere e di riprodursi senza spostarsi da un luogo all’altro sono state vantaggiose; perciò, in quanto ereditarie, hanno aumentato la loro frequenza nella specie attraverso le generazioni successive. Tra queste caratteristiche quelle che consentono di reagire a condizioni esterne, collegando la sensibilità all’attività (movimento, produzioni biochimiche), sono ovviamente importanti.

E se riusciamo a trovare un percorso evolutivo che fa derivare prestazioni più specifiche o energeticamente meno costose da caratteristiche più generiche abbiamo una spiegazione “economica” ed “elegante”. È ciò che fa il pensiero evolutivo, ancora una volta partendo dalle ricerche di Darwin, quando ipotizza che il tigmotropismo e il gravitropismo (modificazione della crescita sulla base di stimoli relativi al contatto o alla percezione della gravità) e il fototropismo siano specializzazione successive di una funzione di base, che tutte le piante hanno, la circumnutazione (movimento nello spazio dell’apice del germoglio), che ha un vantaggio generale in termini di esplorazione dell’ambiente.

E allora, per comprendere che storia c’è dietro le caratteristiche delle piante, non abbiamo bisogno dei misteri di Giacobbo, del disegno intelligente di Paley, dell’intenzionalità di Mancuso, buoni per i talkshow della TV, ma di domande, osservazioni, esperimenti, studio, confutazione, discussione… insomma di ricerca e di linguaggio scientifico.



[1] http://www.festivalscienza.it/archivio-live-2011/home/conferenze/utopia-tranquilla-delle-piante.html .

[2] http://www.linv.org/alle-radici-dellintelligenza/ .

[3] https://www.youtube.com/watch?v=p6rCAuzSQ8U .

[4] http://www.festivalscienza.it/archivio-live-2011/home/conferenze/utopia-tranquilla-delle-piante.html .

[5] Ibidem.

[6]  https://www.youtube.com/watch?v=kPCPiFzy7hQ .