“Piccole e grandi personalità"
Valentina Vitali
"La Natura è grande nelle grandi cose, ma è grandissima nelle piccole” parole importanti non solo per l’epoca in cui sono state pronunciate da Plinio il Vecchio, naturalista ante litteram, ma ancora oggi che le tecniche di studio, gli strumenti scientifici e di conseguenza le conoscenze sono evidentemente maggiori.
Con grande facilità in effetti si può cadere nella trappola di osservare, fotografare, comprendere e tutelare solo grandi animali carismatici, come i big five della savana oppure cervi, lupi e orsi dei boschi italiani, e di dimenticarsi delle specie più piccole, che passano quasi inosservate e che per questo vengono considerate poco rilevanti per garantire il benessere e l’equilibrio di un ecosistema. In realtà piccoli organismi possono rivelarsi estremamente interessanti, fondamentali per la sopravvivenza di numerose altre specie e sono addirittura in grado di influenzare un intero paesaggio o la ricchezza specifica di una copertura boschiva.
Una recente pubblicazione su Biological Science (Intraspecific variation in the landscape of fear: personality-driven tradeoffs in habitat use, 2025) e gli studi condotti dal gruppo di ricerca del prof. Alessio Mortelliti evidenziano per esempio come i micromammiferi possono modificare la composizione floristica di un territorio, nonostante in ambito forestale spesso non vengano considerati. Le querce o i faggi si affidano totalmente alla zoocoria e anche le conifere hanno una prima fase di disseminazione anemocora seguita però da un’altra in cui sono i micromammiferi a prelevare i semi caduti a terra; è stato rilevato che i topi trovano il 90-95% dei semi nel sottobosco di una foresta, molti dei quali non sono predati subito ma nascosti e consumati successivamente (ogni individuo ne accumula 4000-5000 a stagione), e viste le elevate densità con cui questi animali sono presenti (circa 100 per ettaro) è evidente la loro grande importanza, tanto che sono considerati veri e propri ingegneri ecosistemici. Le loro scelte in particolare sono fondamentali: un micromammifero deve innanzitutto stabilire a quale seme dedicare le proprie attenzioni, poi può mangiarlo subito oppure decidere di nasconderlo (caching) e in questo caso può farlo a diverse distanze dalla pianta madre e in vari punti della foresta (in una buca ricoperta, sotto ad un masso, dentro ad un albero morto a terra…).
Ogni fase della complessa interazione determina il destino del seme e dell’albero che l’ha prodotto e quindi su larga scala la futura distribuzione delle specie
arboree. Ma su quali basi vengono prese queste scelte? Tale domanda ha spinto i ricercatori a indagare se la personalità di ciascun organismo (solo in parte dipendente dai geni) può influire sulle decisioni relative alla predazione o al caching dei semi; personalità che a sua volta può modificarsi in base alle condizioni ambientali e all’uso del suolo in una determinata area. L’indagine è stata svolta nel Maine, nella Penobscot Experimental Forest, una foresta mista di conifere e latifoglie gestita con differenti approcci selvicolturali; questo ha consentito di testare la personalità dei micromammiferi in una porzione con alberi coetanei, in una con alberi disetanei e in un’area di foresta matura ad alta naturalità poiché non interessata da interventi antropici almeno dal 1800. Dal 2016 al 2022 sono stati testati centinaia di esemplari di Peromyscus maniculatus (topo cervo), Peromyscus leucopus (topo dai piedi bianchi), Myodes gapperi (arvicola dal dorso rosso di Gapper), toporagno (Blarina sp.), Tamias striatus (tamia striato) e Tamiasciurus hudsonicus (scoiattolo rosso americano). Dopo essere stati catturati, gli ignari volontari venivano sottoposti a tre semplici ma efficaci test per scoprire la loro personalità: l’emergence test, l’open-field test e l’handling bag test.
Nel primo si misuravano i tempi di latenza all’ingresso di una trappola aperta, cioè quanto ciascun individuo ci impiegava a scappare quando la trappola veniva aperta; sorprendentemente qualcuno scattava immediatamente fuori, qualcun’altro si fermava a lungo sull’ingresso e altri ancora non uscivano proprio. Sono state così ottenute informazioni sull’audacia e sul coraggio dei piccoli mammiferi. Nell’open-field test venivano chiusi per cinque minuti gli individui in una scatola vuota bianca con una telecamera interna per osservare la tendenza ad esplorare un ambiente nuovo e sconosciuto; anche in questo caso i comportamenti erano eterogenei, con alcuni che rimanevano fermi, altri che esploravano solo il perimetro e poi dei coraggiosi che indagavano tutto lo spazio a disposizione. Nell’handling bag test invece si mettevano gli esemplari per un minuto in un sacchettino trasparente di plastica tenuto in mano da uno sperimentatore, per testarne la docilità. Per riuscire a collegare i dati sulla personalità così ottenuti e l’influenza sulla composizione floristica della foresta è stato necessario procedere poi con un monitoraggio successivo.
Ogni individuo, prima di essere liberato, veniva microchippato e sono state collocate nel bosco delle stazioni con semi di varie specie a disposizione, una fototrappola, un’antenna per leggere il microchip e consentire un riconoscimento personale e una polvere fluorescente. I micromammiferi si sporcavano le zampe con la polvere e questo consentiva ai ricercatori di vedere di notte con una torcia UV le loro tracce nel sottobosco e di seguirle, registrando dati sulle distanze percorse e sul tipo di nascondiglio adottato. Già osservare il momento della scelta del seme è stato interessante perché i micromammiferi, pur rischiando di esporsi alla predazione, vi dedicano alcuni secondi per selezionare quello di migliore qualità, con pochi tannini (percepiti attraverso l’olfatto) e più nutrienti (stimati in base al peso). I dati raccolti hanno dimostrato che esistono importanti differenze individuali nella personalità che influiscono anche sulla distribuzione nell’ambiente: individui più timidi hanno un areale con maggiore probabilità di presenza di predatori mentre i più coraggiosi e i più attivi vivono in zone con una maggiore copertura vegetale.
Ciò potrebbe risultare controintuitivo ma bisogna considerare che gli esemplari più audaci e aggressivi possono avere un vantaggio competitivo sui più timidi, che vengono quindi esclusi dagli areali migliori; inoltre i micromammiferi che si espongono più facilmente vengono anche più facilmente catturati quindi dove i predatori sono più diffusi sopravvivono maggiormente gli individui con un carattere meno attivo. È poi emerso che i timidi tendono a non spostarsi molto dopo aver raccolto il seme, quindi si comportano come antagonisti nei confronti delle piante, mentre i più coraggiosi si allontanano di più quindi sono disseminatori efficaci e mutualisti nei confronti delle piante.
Da questi risultati emerge che la rigenerazione di una foresta può avvenire con successo solo se sono presenti tutte le personalità dei micromammiferi in modo equilibrato; questo è risultato vero solo per l’area di indagine nella foresta matura ad alta naturalità, sottolineando come una gestione forestale il più
possibile naturale risulta migliore. Inoltre non è sufficiente concentrare gli sforzi di conservazione dei micromammiferi a livello di popolazione, bisogna cercare di tutelare la variabilità individuale perché ogni piccolo organismo è diverso dagli altri per carattere e ruolo.
È proprio il caso di dirlo, un topo non vale l’altro!