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Fuori il rospo!

 

 

Sostituisci la foto delle galline con un bel Bufo bufo. Le altre due immagini vanno bene, ma quella dell' "uomo col gatto" la inserirei nel paragrafo "L'animale".

 

Fuori il rospo!                      

                                                                                       di Angiolo Innocenti

 

 

Ritirare le macchine guaste

Un evento importante, quarant’anni fa, per il mondo della fantascienza. Il 25 giugno 1982 usciva il film Blade Runner diretto da Ridley Scott. Fu un successo strepitoso, e il consolidamento come cult ne conferma la grandezza. Non c’è da meravigliarsi se di questi tempi gli articoli e i servizi a celebrazione della ricorrenza vanno a sommarsi a ciò che non è mai venuto meno, vale a dire la polifonia di commenti e di considerazioni suscitati dall’opera tra gli studiosi di pressoché tutti i campi del pensiero. Nessuna meraviglia. Come, tutto sommato, poco deve sorprenderci la perdurante sproporzione tra l’interesse nei confronti del film e quello per il romanzo del 1968 a cui gli sceneggiatori si ispirarono: il Do Androids Dream of Electric Sheep? dello scrittore californiano Philip K. Dick. Molti lavori di questo autore visionario sono popolarissimi, ma non altrettanto può dirsi per il Do Androids … noto per l’associazione con il film, ma letto da pochissimi. Leggere un libro costa più tempo ed impegno che guardare un film, e se ti dicono che quello lì è l’eccellente e fedele trasposizione cinematografica di un romanzo, chi te lo fa fare di durar fatica?

In realtà, di fedele in questo caso c’è ben poco: Scott e gli sceneggiatori raccontano una storia ben diversa da quella del romanzo, con cui è condivisa solo l’idea di base. Sempre più perfezionati, i robot dalle sembianze umane (“di ciccia”, potremmo dire) sono diventati pressoché irriconoscibili dai veri esseri umani. L’immissione, oltre che di intelligenza, anche di simulacri di sentimenti e di ricordi, determina reazioni e comportamenti del tutto simili a quelli umani. Tutto bene finché la macchina risponde alle aspettative. Quando l’androide si guasta iniziano i problemi e, per evitare guai grossi, va “ritirato”, vale a dire fatto fuori sparandogli. Prima, però, l’addetto al ritiro deve accertare che effettivamente si tratti di “roba artificiale”, e per farlo si avvale di una macchinetta-test basata sull’assunto che al robot puoi dare ogni genere di capacità, ma non quella empatica. L’empatia è l’unico fattore che l’uomo mai riuscirà ad innestare in una macchina. Ma dalla difficoltà di individuare l’empatia (mediante l’uso di una macchina, tra l’altro) nascono tutti i dilemmi esistenziali: cos’è, in effetti, la vita? con che coraggio vado a togliere quella “non vita” ad un essere che è convinto che la sua sia vera vita? è giusto o folle che io provi compassione, e quindi empatia, nei suoi confronti, nei confronti di una macchina? fino a che punto io sono empatico … non è che anch’io, senza saperlo, sono una macchina?

Non è certo il primo caso in cui vediamo lo sceneggiatore prendersi le più ampie libertà nel trasferimento su schermo di un’opera letteraria: non può non “metterci del suo”. Di solito, se l’autore dell’originale è ancora in vita, per lo più non gioisce, salvo poi convincersi ad ingoiare il boccone, allettato dalla prospettiva dell’incremento di popolarità e di “cassetta” che gliene deriverà. Le vicende relative alle reazioni di Dick nel corso della realizzazione del film sono oggetto di ampia trattazione da parte dei biografi, e a loro rimando per chi fosse interessato ad approfondire. È un fatto, comunque, che la prematura morte, avvenuta il 2 marzo 1982, impedì all’autore del Do Androids … di vedere il film finito, quindi più di tanto non possiamo sapere a proposito del suo giudizio. Per l’idea che mi son fatto della complessa psicologia di Dick, immagino (e sicuramente i più non condivideranno) che, dopo averlo guardato e riguardato, l’avrebbe ritenuto in cuor suo una “macchina guasta”.

 

Mano al bisturi

La eccellente qualità artistica del lavoro di Scott non può essere messa in discussione. Ma è un fatto: gli sceneggiatori di Blade Runner misero in atto un consistente lavoro di chirurgia, asportando dal racconto di Dick numerosi organi vitali, solo in piccola parte rimpiazzati con trapianti. Sarebbe del tutto insensato tentare di mettere a confronto le due opere (come paragonare un uovo e una mela, per usare un’espressione contadina), ma può risultare interessante vedere cosa può passare per la testa a uno che abbia visto il film, che abbia successivamente deciso di leggere il libro, e che sia rimasto sorpreso per la mole e per la sostanza degli elementi presenti nel romanzo e scomparsi nel film. In quei panni “mi ci sento bene”: è proprio il mio caso. Ed è evidente che esprimo opinioni personali e discutibili, senza volermi infiltrare tra le schiere degli innumerevoli ferratissimi esperti in materia. Non posso non prendere atto, comunque, che molti studiosi ritengono che nel suo genere il film di Scott non riesca a spianarsi le rughe dei suoi quarant’anni, mentre il romanzo di Dick non dimostra affatto i suoi 55, adattandosi sorprendentemente ai “modi” concettuali della nostra epoca. Giustissimo il rapportarlo alla realtà californiana di quegli anni e ai fermenti non solo culturali del tempo, del luogo e del soggetto. Ma il concentrarsi e il trastullarsi su questo filo di analisi può (come mi pare succeda ad alcuni critici) lasciare in ombra l’attualità e l’universalità del messaggio dickiano; il suo esser pronto agli sviluppi futuri, e che oggi riscontriamo più che presenti. Scott vuole stupire, Dick intende prendere a braccetto, ciò che si riconosce anche nello stile, con il discreto accompagnare il lettore in un clima di quotidianità attraverso uno sviluppo narrativo tanto scarno quanto lineare, mai incline all’iperbole, e che si lascia tranquillamente andare a sprazzi di sdrammatizzazione … anzi sfruttando in chiave ironica particolari circostanze.

La prima cosa che mi è saltata agli occhi è l’assenza, nel film, di pur timidi tentativi di caratterizzazione dei personaggi. Sono tutti “presi e messi lì” … te li trovi davanti come i birilli del bowling che l’apposito marchingegno ha piazzato al millimetro sul fine-pista. Neppure a proposito di Rick Deckard, il ritira-androidi principale protagonista della storia, puoi aspettarti una qualsiasi forma di definizione su quel che costituisca il suo vivere e il suo sentire, sulla collocazione nel contesto sociale ed affettivo, su ciò che possa porsi a sfondo di un’unica cosa: l’essere schifato e stufo di quel lavoro di cacca. La voce narrante in prima persona, pateticamente infilata nel cut più conosciuto, serve ben poco a smorzare la gravità del problema.

Nulla sul protagonista, tanto meno sugli altri personaggi; se non vuoi, qualcosa di un po’ più “umano” lo trovi nelle lacrime dei robot, piuttosto che tra gli umani ormai disumanizzati.

Ben diversa l’impostazione del romanzo. Pur nel modo narrativo scarno ed essenziale, Dick disegna con molta accuratezza i contorni delle persone e dei contesti. Rick Deckard ha una moglie, un ambiente familiare e un insieme di piccoli elementi di vita quotidiana che ne definiscono la personalità. Il lettore è sin dalle prime righe chiamato a partecipare all’indispensabile confronto soggetto-oggetto, a riflettere sui limiti della conoscenza (e quindi anche della scienza) nell’oggettivare. La visione “oggettiva” è pur sempre una visione soggettiva realizzata dall’esterno rispetto ad altra “soggettiva”. All’immagine formata dagli “occhi dall’esterno” attribuiamo maggior valore semplicemente perché questi occhi sono più numerosi e più organizzati, cioè legati tra loro dalla condivisione di regole di discernimento scelte per convenzione. Questo determina l’idea (ideologia) di oggettività. Questa premessa fondamentale nel rapporto con il lettore (o spettatore che sia) non viene trascurata da Dick, che inizia il romanzo col mostrarci quanto nel quotidiano sia un “lavoro duro” oggettivare il soggettivo. Il battibecco coniugale è un caso tipico, al proposito, e Dick non si lascia sfuggire l’occasione. Donna e uomo ragionano ciascuno con la propria “testa”, sono immersi ognuno nel proprio “mondo” concettuale ed emozionale. Per quanti sforzi possa fare ciascuna delle due parti a decifrare l’altra, i risultati saranno sempre insoddisfacenti e ballerini. La ricerca della sintonia è tuttavia innata nella coppia, che “funziona” finché la voglia di cercare non cessa.

Toglimi di dosso quelle manacce da sbirro … è la tagliente amarezza con cui la consorte risponde alla premura e delicatezza di un tentativo empatico di Rick. E a lui non mancheranno poi le occasioni per ricambiare (come certamente è un “ricambio” anche la ruvidezza della moglie.) 

I due mondi, nell’alterna ed eterna lotta tra la ricerca al trovarsi e quella al distinguersi. E nel continuo e altalenante tentativo di trovare (o di respingere) lampi di condivisione negli stati d’animo e nelle condizioni di umore. Alla fantascienza classica viene spesso rimproverato il non aver saputo prevedere il PC, Internet e il cellulare. Vero solo in parte, se pensiamo all’uso pratico che delle tre invenzioni facciamo quotidianamente. Nate per l’elaborazione dei dati e per la gestione/scambio di informazioni, ma poi impiegate nel quotidiano principalmente per dilettarci ed “influenzarci”. A seconda di come ci sentiamo e di come vorremmo sentirci, scegliamo il “dove” indirizzare il puntatore: con chi chattare, se sentire le canzoncine o il resoconto di pandemia/guerra, se alzare l’obiettivo verso il cielo piuttosto che abbassarlo sotto le suole delle scarpe. I signori che dall’alto tengono in mano le levette di comando degli aggeggi, semplicemente perché li hanno inventati e ce li hanno propinati, fanno altrettanto nei nostri confronti, con i fini più disparati.

Gli effetti pratici delle future genialate della tecnologia Dick le aveva intuite con molta efficacia, presentandoci il modulatore d’umore Penfield, aggeggio elettronico capace di emettere onde che influenzano il “come sentirsi” del fruitore, il quale di volta in volta sceglie il codice da digitare, sulla base della voglia del momento.     

È l’occasione, per Dick, di rivelarci già dalle prime pagine l’intenzione di smorzare la drammaticità del tema trattato con ampie sbracciate di “semina a spaglio” del canzonatorio. In numerose occasioni – e spesso quando meno se lo aspetta – il lettore si troverà di fronte a situazioni in cui l’assurdo dei paradossi alla Russell rasenta il comico.

Fai l’888 – disse Rick – “desiderio di guardare la TV, qualsiasi cosa trasmetta”.

Adesso non ho voglia di fare un bel niente – rispose Iran.

Allora fai il 3 – le disse.

Non posso digitare un numero che stimola nella corteccia cerebrale il desiderio di comporre un codice! Se non voglio fare un numero, quello è il numero che voglio fare meno di tutti, perché poi mi verrebbe voglia di comporre un altro numero, e aver voglia di comporre un numero è al momento la voglia che sento meno; me ne voglio solo star qui seduta sul letto a fissare il pavimento.

Come pure è un magistrale connubio tra dramma e commedia dell’assurdo quello che poi costituisce il leitmotiv di tutta la storia: il bisogno di tenere un animale, vero o finto che sia, come oggetto di esercizio empatico e come distintivo di dignità sociale.

… salì in terrazzo, al pascolo pensile coperto dove la sua pecora elettrica ‘brucava’. Dove quel complesso marchingegno automatico ruminava ebbro di soddisfazione simulata, riuscendo a infinocchiare gli altri inquilini del palazzo.

 

L’ambiente

La storia raccontata da Dick è ambientata in un mondo post-apocalittico pervaso dal grigiore della solitudine e del disordine. Niente a che vedere con la folla tumultuosa, con i ritmi frenetici, con le colorazioni spinte e i rumori assordanti della metropoli ultra-consumistica e arci-esibizionista messa in scena (peraltro con magistrale bravura) da Scott e dai suoi collaboratori. 

Ma è l’ambientazione concepita dall’autore del romanzo quella che meglio può accompagnarci a capire il succo del discorso, e a farci rendere conto della sua straordinaria attualità.

C’era stata la guerra, a proposito della quale ci vien detto:

Nessuno oggi si ricordava del perché ci si fosse trovati in guerra, né chi avesse vinto, ammesso che qualcuno avesse vinto. La polvere che aveva contaminato la maggior parte della superficie del pianeta non aveva avuto origine in una nazione particolare, e nessuno, nemmeno il nemico al tempo di quella guerra, l’aveva prevista.     

La descrizione del silenzio quale principale costituente ambientale ci arriva nel secondo capitolo, quello in cui ci viene presentato J. R. Isidore, personaggio non di secondo piano nella storia di Dick, in quanto è attorno a lui e con lui che ruotano gli aspetti emozionali “di spessore” e a cui toccano i contatti più diretti e più profondi con gli androidi. Sostituito nel film da un ben meno significativo J. F. Sebastian, Isidore dimostra in più di una occasione di valere molto di più dell’etichetta dispregiativa che la società gli ha appiccicato, quella di “speciale” e di “cervello di gallina” derivatagli dallo scarso quoziente intellettivo.

Silenzio. Riverberava come un bagliore dalle pareti e dai pannelli di legno; lo percuoteva con una tremenda energia assoluta, come venisse generato da un'immensa turbina. Saliva dal pavimento, dalla consunta moquette grigia. Si sprigionava dagli elettrodomestici rotti o semiguasti della cucina, macchine morte che non avevano mai funzionato da quando Isidore era andato ad abitare in quella casa. Stillava dall'inutile lampadario in salotto e andava a mischiarsi a sé stesso, ad altro silenzio che calava dal soffitto macchiato di mosche. Riusciva in effetti a emergere da qualsiasi oggetto vi fosse nel campo visivo di Isidore, come se il silenzio volesse sostituirsi a ogni cosa tangibile. Quindi assaliva non solo le orecchie, ma anche gli occhi; in piedi davanti al televisore inerte, Isidore percepì il silenzio visibile e, a modo suo, vivo. Vivo! Ne aveva spesso avvertito l'austero avvicinarsi in precedenza; quando arrivava gli esplodeva in casa senza alcun rispetto, evidentemente incapace di attendere. Il silenzio del mondo non riusciva a tenere a freno la propria avidità. Non poteva aspettare ancora. Non quando aveva già virtualmente vinto. 

Ottima la traduzione di Duranti; ma, volendo, il testo originale, nella sua secchezza, ci incunea una sensazione ancora più agghiacciante. Caso analogo al kipple, diventata palta in italiano: l’ammasso informe e dilagante dell’inutile. Con il tempo tutto ciò che c’era nel palazzo si sarebbe fuso – una cosa nell’altra – avrebbe perso individualità, sarebbe diventato identico a ogni altra cosa, un mero pasticcio di palta ammonticchiato dal pavimento al soffitto di ogni appartamento. E dopo di ciò lo stesso palazzo, senza che nessuno ne curasse la manutenzione, avrebbe raggiunto lo stadio di equilibrio informe, sepolto dall’ubiquità della polvere.

Anticipazione delle riflessioni di Rifkin; ma anticipazione, ancor più illuminata, dell’estendersi a macchia d’olio del conformismo culturale, di cui di questi tempi possiamo sperimentare la durezza. L’ “identico a ogni altra cosa” è il carattere che permette agli insignificanti ciarlatani del sapere omologato, ostentato e tronfio, di aggiudicarsi credito.

 

Il mito

Il mito è l’attrattore, il sostegno, l’appoggio, il riferimento. Poiché la linfa vitale del mito è l’estremizzazione, esso si presenta sempre come un Giano bifronte. Su una faccia il piacere terapeutico, sull’altra il dolore salvifico. 

Faccia A. Dai televisori dei rari appartamenti occupati rimbomba la voce familiare di Buster Friendly, che ciarla allegro rivolto all’immensa audience interplanetaria. Rassicurazione elargita a piene mani in forma di frizzi e lazzi, di pubblicità, di alleccorimenti e di inni alla spensierata gaiezza. Lo show perenne dell’esibizione alla portata di tutti … e non credo ci sia bisogno di esempi per rapportarci all’attuale.

Faccia B. Attraverso un marchingegno elettronico, evoluzione spinta del “modulatore d’umore”, ci si collega emotivamente con gli altri che, in qualsiasi parte dell’universo, son collegati con i marchingegni gemelli. Stringendo le due maniglie della empathy box, l’utente prova l’esperienza di un io che contiene ogni altro essere vivente. L’elemento congiungente è un personaggio mistico, un certo Wilbur Mercer, che si materializza nelle menti e negli animi, realizzando la fusione fisica, accompagnata dall’identificazione mentale e spirituale. A Dick non fa certo paura inventare religioni. Si può anzi affermare che sia uno dei più prolifici ed acuti inventori di religioni; mirabile quella che costituisce l’ossatura di A Maze of Death, romanzo di pochi anni successivo a Do Androids …

Ma perché inventarne di nuove, quando sulla Terra ce ne sono già a migliaia? Pur profondamente cristiano, Dick non esita a pungere e schiaffeggiare le nostre coscienze con l’interrogativo “sei proprio certo che esistano religioni non inventate?”

L’uomo di ogni tempo e di ogni luogo rigira tra le sue mani la medaglia, guardandone ora l’una ora l’altra faccia. A , B. Capisce che sono antitetiche, e che se si appoggia all’una non può farlo con l’altra; tuttavia è affascinato proprio da quella antitesi, da quella lotta eterna. L’aspirazione alla felicità è legittima e va coltivata, ma tale aspirazione non elimina la constatazione dell’ineluttabilità del dolore. Il cristico Mercer viene percepito arrancante su una irta salita mentre riceve sassate, e chi con lui è collegato empaticamente si becca a sua volta qualche sassata addosso, anche se ce la mette tutta per scansarle. Staccatosi poi dalle maniglie, si ritrova davvero con il livido o la ferita, il che riporta al quotidiano “qualcosa lassù deve pur esserci!” L’impossibilità per la nostra sfera razionale di uccidere la spiritualità: racconta menzogne, prima di tutto a sé stesso, chi dice di esserci riuscito. Tant’è vero che il gaudioso showman Friendly, che razionalmente smaschera Mercer (bufala messa su con l’aiuto di un attore ubriacone e di finti fondali scenici) non ce la fa ad impedire che lividi e ferite compaiano ancora sulla pelle degli ostinati fruitori della scatolaccia. 

Naturale e potremmo dire scontata, allora, la conseguenza: i due miti opposti e contrastanti li soppiantiamo con l’introduzione di un mito “superiore”, la Macchina. Questo ci appaga ma non ci toglie dai pasticci. La macchina è figlia della tecnologia e la tecnologia è figlia della scienza, quindi scienza, tecnologia e macchina costituiscono una triade inscindibile. Nata, come i robot, per aiutarci ma, come i robot, soggetta a guastarsi.  Quando ti accorgi del guasto (se te ne accorgi) ti trovi al bivio: o sei innamorato della triade al punto di perdonarle tutto, o sei un innamorato “con riserva” cioè ti è rimasta addosso almeno una piccola dose di quel sano scetticismo che dovrebbe contraddistinguere chi è (anche) razionale.

Di fronte al bivio ci portano sia il film che il romanzo, ma la strada scelta è nettamente diversa. Nel film si assiste addirittura al “fuori di testa” totale dell’incaricato al ritiro delle macchine simil-umane. In nome del “tanto vale …” (se essere umano e macchina condividono l’amaro destino del non sapere da chi e con quale scopo sono stati costruiti e per quanto tempo dureranno, tanto vale …) decide di abbandonarsi alla macchina, qualsiasi cosa possa poi succedere. Ben diversa la “morale” del romanzo: la macchina simil-umana, che pur in varie occasioni è stata utile, alla fine attua le conseguenze del suo malfunzionamento nella forma più crudele … peggio di così non si può, e ti accorgi di quanto sei stato fesso a fidarti.

Del resto, se la verifica di una macchina che è stata progettata per sfuggire alle verifiche è affidata a un’altra macchina, cosa vuoi pretendere? Il test Voigt-Kampff, quello impiegato per smascherare gli androidi, non è sicuro al cento per cento. E la situazione della macchina che non “sa” di essere macchina è una giacca double face, perché neppure l’uomo che ha costruito la macchina, né la macchina per il controllo della macchina, dispongono di mezzi sicuri per stabilire quale sia uomo e quale sia macchina. Se il simulacro è stato fatto per non essere riconosciuto, come fai a smascherarlo? La triade scienza-tecnologia-macchina si attorciglia, la coda va a riunirsi alla testa e l’insieme circolare diventa Macchina. Non riconoscibile come tale.

Il bluff diventa la regola.

Attualissimo! Pensiamo a quante volte, nei tempi recenti di intenso disagio sociale, abbiamo visto la show-scienza mascherata da seria scienza presentarci acrobatici esercizi di immaginazione come frutto di ricerca effettuata con rigore scientifico! E quante volte ci siamo trovati di fronte i ciarlatani accreditati presso (e da) una parte – fortunatamente minoritaria – della comunità scientifica che si scagliano contro chi si permette di chiedere a quel “mondo” un tantino in più di serietà.

Il bluff diventa non solo regola, ma costume. 

 

L’animale

Con l’animale non puoi permetterti di bluffare. Che tu sia un etologo, o che tu tenga l’animale per compagnia, o che lo allevi perché ti aiuti, oppure per, un bel giorno, ucciderlo per mangiartelo, le cose non cambiano: devi cercare di entrare nella sua testa. E, nella grande maggioranza dei casi, cercare anche di entrare meglio nella tua che entra nella sua, e nella sua che cerca di entrare nella tua. Con la/il partner, con il capufficio, con te stesso, puoi permetterti di inventare ogni tipo di sotterfugio per aggirare, deviare, forzare, sostituire, aggiungere o sottrarre. Con l’animale non puoi farlo. Ogni forzatura porterà all’esatto contrario del desiderato.

Non esiste esercizio empatico più elevato dell’interazione reciproca tra uomo e animali: così uguali all’uomo e così diversi. Cavalli, pecore, civette, struzzi, conigli, capre nubiane, ragni, scoiattoli … nel romanzo, ma non nel film, gli animali compaiono in ogni circostanza e segnano i passi dell’uomo oppresso dalla solitudine e immerso nella palta. Il rapportarsi con l’animale diventa motivazione di vita. Praticamente scomparsi dalla Terra dopo la catastrofe nucleare, ai pochi animali rimasti vanno affiancati quelli finti, affinché non ci sia persona, degna di questo nome, priva dell’esercizio empatico più completo ed appagante. Dover lavorare alacremente per arrivare a permettersi una bestiola vera può apparire una assurdità, ma è proprio su questa bizzarria che ruota tutto il racconto. Occasione per la riflessione più profonda come per lo sberleffo, tant’è vero che è da qui che parte la situazione più comica di tutto il romanzo, quando nel settimo capitolo il “cervello di gallina” Isidore (scelto dall’autore come campione dell’autentica umanità nell’uomo) si trova col furgone della ditta a prendere in consegna un gatto “guasto” per portarlo al laboratorio di riparazione. Tenta disperatamente di trovare i terminali delle batterie a ricarica rapida, per porre fine ai convulsi lamenti, per poi ritrovarsi canzonato dai suoi superiori per non essersi accorto che si trattava di un gatto vero. Che nel frattempo se n’era andato all’altro mondo.  

Gatto vivo o gatto morto? Schrödinger coniugato e amplificato, con il gatto vero morto e il gatto finto “vivo” … ma è più vero il vivo che ora è morto o il finto che vivo non è mai stato?

Il rapporto con l’animale e il ruolo che questo rapporto svolge nella società è l’anima del racconto originale. In Rick Deckard la necessità di quel rapporto ai fini di un vivere empatico costituisce la motivazione che lo spinge a sgobbare e rischiare la vita per portare quattro palanche a casa, impegnato in un compito violento e sgradito che preferirebbe lasciare a qualcun altro, ma in cui è inviluppato fino al collo. Dovunque andrai, ti si richiederà di fare qualcosa di sbagliato. È la condizione fondamentale della vita essere costretti a far violenza alla propria personalità – si sente dire da Mercer in un momento mistico.

E il rapporto sballato con l’animale emerge chiaro negli esseri che non sanno cosa sia l’empatia, cioè gli umanoidi. Quelli a cui Scott ha affidato il ruolo della bellissima e del bellissimo: Rachael Rosen e Roy Baty.

Rachael Rosen, deformata da Scott attraverso lo splendore del massimo grado con cui sia possibile costruire (costruire nel vero senso della parola, trattandosi di un robot) il campione della femminilità dolce e bambina. Ma nel romanzo è una fredda calcolatrice. Calcolatrice al punto di inventarsi progetti di manipolazione: tentativo di corruzione, tentativo di spionaggio. Dick fin dal primo apparire la descrive così: sul piccolo volto dai lineamenti molto marcati aveva un’espressione di torva avversione. Calcolatrice che, proprio come una HP35s, è prodotta identica in migliaia di esemplari, affinché te la possa ritrovare tra le mani nelle più diverse occasioni. Calcolatrice in grado di elaborare piani di vendetta: non esita ad uccidere, scaraventandola giù dalla terrazza, la capra nubiana vera che finalmente, dopo tanti sforzi, Rick Deckard é riuscito a comprarsi e alla quale assieme alla moglie si sta affezionando. 

E poi Roy Baty, a cui Scott – aiutato da un bravissimo Rutger Hauer – dà la capacità sovrumana della “santa bipolarità”: adatto a distruggere il proprio creatore come a salvare il proprio persecutore, materializzando nell’artificiale l’essenza del sacrificio. L’eroe romantico, insomma, da cui puoi anche aspettarti ampollosi esercizi di retorica poetica. Niente a che vedere con il paranoico capoghenga del romanzo, leader di gruppo anche nella sadica operazione di mutilazione sistematica e progressiva di un innocente ragno; forse uno degli episodi più truci a cui Dick ci porta ad assistere.

 

Tentativo di fuga

Nel patetico finale del film, Scott ci mostra la “fuga in macchina” dell’ormai completamente rincitrullito cacciatore di androidi. Macchina quella su cui viaggia, macchina quella con cui viaggia e, alla fine, macchina pure lui. A vincere è la confusione, la palta. E, in sostanza, la rassegnazione. L’ineluttabilità della convivenza con la Macchina, accettata fino all’annichilamento di chi la macchina l’ha costruita per servirlo e poi si lascia fagocitare da essa, pur nella consapevolezza che si è guastata. Se il discriminante è l’empatia, se è vero che alla macchina puoi dare, oltre che intelligenza, anche simulacri di ricordi e di emozioni, ma non la capacità empatica, allora come potrai farcela a riconoscere la macchina usando uno strumento (macchina) che si basa sull’empatia? Quando dell’empatia la macchina, in quanto tale, non sa proprio nulla? …rasségnati, amorfo, alla confusione!

Di tutt’altro tenore la conclusione (se di conclusione si può parlare, perché la palla viene sempre passata al lettore) del romanzo: l’uomo non può addormentarsi e non deve sbarazzarsi della necessità-dovere del distinguere.

Senza volerci terrorizzare, Dick intende metterci in guardia. Si sforza di farci capire che l'insieme composito definibile come “macchine” è un servitore insostituibile, ma che può anche danneggiarci se abbassiamo il livello di attenzione e rinunciamo al controllo. Per controllare le macchine bisogna anzitutto saperle riconoscere come tali, dopodiché occorre essere in grado di accorgerci quando si guastano. E non è facile. Perché? Per almeno tre motivi.

Perché le “macchine” non sono solamente quelle materiali, fatte di metallo, plastica, ingranaggi e circuiti elettronici. Sono anche (e probabilmente in maggior numero e potenza) quelle immateriali: strutture, meccanismi e articolazioni concettuali costruiti con il fine di ottenere risultati prefissati in ambito psicologico e comportamentale di piccola (singoli), media (gruppi) e vasta (correnti) taglia.

Perché vanno molto più veloci di noi (o almeno della maggior parte di noi). Siccome aiutano l’uomo a inventare e costruire altre macchine, aumenta rapidamente la loro complessità. La capacità dell’uomo di controllarle non cresce altrettanto velocemente. Il controllo (e quindi anche la verifica dell’eventuale malfunzionamento) è affidata ad altre macchine, nelle quali l’intervento umano è sempre più limitato.

Perché il modello è pur sempre l’uomo. La crescente complessità delle macchine le rende sempre più simili all’uomo, il che equivale a dire che rende l’uomo sempre più simile alle macchine e più debole nella capacità di distinguerle e di distinguersi da loro. La difficoltà a discernere è maggiore laddove scarseggia o è assente la fisicità della “macchina”. La “umana tolleranza” verso i nostri naturali “guasti” viene estesa alle macchine e questo atteggiamento è estremamente pericoloso: la macchina guasta, una volta accertato che non è riparabile, va sempre tolta dalla circolazione. 

Dick ci mette in guardia, e lo fa attraverso un genere bistrattato e non di rado respinto: la fantascienza. Che avrà molti difetti, ma è onesta. Non pretende di insegnare, né di mostrarci le soluzioni ai problemi; tenta, invece, di stimolare la curiosità e la voglia di ragionare. La tagliente – e imbarazzante – attualità/universalità del Do Androids Dream of Electric Sheep? possiamo riscontrarla a ogni pie' sospinto in un modello di società, ormai globale, in cui la mistificazione e il bluff son diventati regole e dove è dilagante la costruzione di “macchine” che nascono già guaste. L'insidia sta nel fatto che le “sembianze umane” le rendono difficilmente identificabili, mescolate e mimetizzate come sono all'interno di contesti generalmente proposti ed intesi come “razionali”, “di provata affidabilità” e “scientifici”. La disinvoltura con cui la show-scienza si intrufola in ogni piega dell'informazione dà luogo a un potente generatore di confusione. Paradossalmente, diventa più educativa la fantascienza, in cui il falso (la finzione, fiction) è presentato come tale, piuttosto che il guazzabuglio che spaccia congetture al posto di elementi conoscitivi accertati con l’applicazione rigorosa, seria, disinteressata, non blaterante, del metodo. Non del tutto fuori luogo, allora, l’invenzione del neologismo nato per assonanza con fantascienza: la santascienza, in riferimento a quella parte di rappresentanti del mondo scientifico che propongono la loro “scienza” come attrattore di venerazione cieca … “macchina guasta”, quindi. Che, tra l’altro, fa spesso perdere fiducia nel lavoro delle tantissime persone che nel silenzio e nella poca “cura dell’immagine” si impegnano con abnegazione nella ricerca seria.

Ci vorrebbe la macchinetta, la Voigt-Kampff specifica, ma sappiamo bene della sua non completa affidabilità, e tutto ritorna nelle nostre mani … come uscirne?

 

Fuori il rospo!

Togliamoci dalla testa che Dick possa fornirci risposte. Non ci prova nemmeno. Ma è generoso, perché non lesina il dono a piene mani di spunti di riflessione; contestualmente è dispettoso, perché quegli spunti va a sistemarli negli angoletti più reconditi, dove meno ce li aspetteremmo ma dove lo scoprirli rende le cose più intriganti e stimolanti. Il riscatto, se c’è, non arriva certo dalle macchine guaste, né dal sentimentalismo sciocco nei confronti di esse, che si dimostra sempre portatore di guai. Può venire solo da chi se ne sta in disparte, messo in un cantuccio dalla sorte, dalle contingenze e dalla violenza dei prepotenti. E’ la semplicità d’animo unita all’assenza di astio che permette ai “poco visibili” di prendersi la rivincita; rivincita tanto più significativa quanto più inaspettata. Riflettiamo: chi sono i veri protagonisti della bislacca storia sul cacciatore di androidi? Non sono i grandi cervelli: non le menti eccelse degli inventori di robot quasi perfetti, e neppure quelle dei poliziotti che vanno ad esaminarli. No, sono i “cervelli di gallina”, quelli molto meno dotati ma che riescono a impiegare bene le loro scarse risorse coniugando la curiosità con l’esperienza, la sensibilità e l'intuito con la scienza. Quelli a cui non importa mostrarsi. Vediamoli, i veri protagonisti del racconto.

Iran, la moglie del cacciatore di androidi, che riscatta ampiamente nelle ultime pagine la scialbezza in cui l’avevamo vista piantata all’inizio. Accoglie piena di premura ed attenzioni il marito di ritorno dalle fatiche, dai rischi e dalle delusioni. Avevamo incontrato dei coniugi che bisticciavano, ma l’incipit è ribaltato dal finale, che ce li mostra intenti nello sforzo empatico, l’unica linfa che può riportare alla vita.

Isidore, il “cervello di gallina” che si rivela “ritardato” solo sulla base delle regole discriminatorie e delle convenzioni imposte dalla classe dei potenti. Nel pratico, il basso QI è ampiamente compensato dalle doti di scatto e di sensibilità dimostrate in almeno due occasioni. Per la capacità di scatto, è significativo osservare l’acume e la fantasia che gli “spuntano fuori” quando è messo alla prova dal datore di lavoro allorché si scopre che il “gatto finto vivo” è in realtà il “gatto vero morto”. Costretto a far lui la telefonata alla padrona dell’animale, si disimpegna alla grande nel compito, neutralizzando persino l’abituale balbuzie. E, per quanto riguarda la sensibilità, è proprio Isidore a provarla al suo massimo grado di intensità, quando è costretto ad assistere alla “meccanica crudeltà” messa in atto ai danni di un malcapitato ragnetto da parte della squadra di macchine umanoidi. La totale assenza, in loro, di empatia, viene da lui diagnostica con molta più rapidità e chiarezza di quel che può fare il Voigt-Kampff.

Infine, l'autentico protagonista. 

Il rospo.

Quel rospo di cui Scott ci ha violentemente privati (del resto, ci ha sottratto tutti gli animali, che costituiscono il cuore del racconto). Rick Deckard, alla fine della giornata dalle mille fatiche, ne ha trovato uno tra le sabbie del deserto e lo ha portato a casa. Se il clima battibeccoso che avevamo trovato all’inizio della storia è svanito, e tra moglie e marito c’è il recupero della sintonia, è merito anche del poter godere insieme il ritrovarsi un animaletto tra le mani. Ma …

Allungò le mani per riprendere la bestiola. Ma lei aveva scoperto una cosa; sempre tenendolo rovesciato, gli tastò la pancia e poi, con un’unghia, scoprì il piccolo pannello di controllo e ne aprì con uno scatto il coperchio. Oh! La delusione s’impossessò pian piano della sua faccia.

Forse non avrei dovuto dirtelo, che era artificiale. Iran allungò una mano e gli toccò il braccio; si sentiva un po’ in colpa, vedendo l’effetto, il cambiamento, che la rivelazione aveva avuto su di lui.

No – rispose Rick – è meglio che lo so. O piuttosto – tacque per un attimo – Bè, preferisco saperlo.

Nell’animale finto puoi trovare, se cerchi, il pannello di controllo seminascosto in mezzo al pelo, alla peluria o al piumaggio. Ed è al semplice, al “povero di spirito” ma non povero di curiosità, a venirgli in mente di rigirare il rospo a pancia all’aria. A scoprire la “verità”. Poi, pur sapendo che è finto, puoi dedicargli cure, affetto ed esercizio empatico. 

È invece la macchina (materiale o immateriale che sia) studiata e costruita per eludere i tentativi di distinzione e per apparire “umana”, a non portare segni di riconoscimento.

La frammentazione, la paltizzazione, si dileguano come nebbie al sole attraverso il recupero delle attenzioni che legano in semplicità e in genuinità, dove anche le finzioni sono innocue ed utili, semplicemente perché sono riconoscibili come tali.

La premurosa consorte si preoccupa di procurare il “cibo” per il rospo, e telefonando al negozio specializzato ne fissa anche gli interventi di manutenzione: Va bene – disse Iran – lo voglio in perfetta efficienza. Mio marito gli è molto affezionato – dettò l’indirizzo e riappese.

Poi, sentendosi già meglio, finalmente si preparò una bella tazza di caffè nero e fumante.