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TRA FIDEISMO E DIFFIDENZA

   

Vaccinazione 

Tra fideismo e diffidenza

La citadinanza scientifica sotto scacco pandemico 

 

Elena Gagliasso

  

La cittadinanza scientifica

 

Un interessante rapporto tra ricerca scientifica e collettività civile che si andava tessendo lentamente a partire dagli anni Settanta del XX secolo con quasi due anni di pandemia sembra entrato in una serie di testa-coda preoccupanti. Vediamo come e perché, e cosa insegna questo passaggio epocale.

Negli anni Settanta fisici italiani come Marcello Cini e la sua scuola avevano spalancato il vaso di Pandora della "non-neutralità della scienza", influenzata com’è, nel cuore stesso delle sue domande, dai contesti storici ed economici (Parisi, 2011). Negli stessi anni comitati tecnici e operai prendevano la parola, si "alfabetizzavano" sui temi della salute nelle fabbriche e nei territori inquinati. Da interlocutori critici pretendevano ascolto e insieme formazione scientifica, mentre nasceva tra i tecnici la prima medicina del lavoro, la futura epidemiologia ambientale. Nel mondo anglosassone negli stessi anni nasceva un movimento politico e di ricerca che realizzava formazione e dibattito sui rapporti tra ricerca e apparati militari tra biologi, fisici, tecnici e vi si univa la comunità civile democratica: Science for the People.[1]

Insomma, già da più di mezzo secolo, soprattutto nelle scienze della vita e dell’ambiente, il numero degli attori e delle pratiche di ricerca cresceva anche al di fuori dai laboratori. Si ragionava per collettivi tematici con intenti propositivi e critici e una circolazione di reciproca fiducia epistemica. "La responsabilità degli intellettuali", tanto per parafrasare Pierre Bourdieu, era chiamata in causa a pronunciarsi e si discuteva, in modi certo non indolori (AA.VV., 1990) sui rapporti di forza tra scienziati, politiche e società.

È da lì direi che s’impostano ordito e trama di ciò che più avanti sarebbe confluito nella attenzione per la cosiddetta "cittadinanza scientifica" (citizen science) (Funtowicz, Ravetz, 1993; Nowotny et al., 2001; Jasanoff et al., 2013; Tallacchini, 2017; Rufo, 2019).

Per molti di noi epistemologi l’esigenza d’andar oltre il discorso sulle sole regole interne del metodo fu cruciale. Parlare di filosofia della scienza diventava culturalmente sensato, "realistico" (Ziman, 2000), nel momento in cui si integravano le politiche e il ruolo dell’economia nella ricerca (la Science Policy) nonché, appunto, quello interlocutorio delle cittadinanze informate (la Citizen Science).

Perché accennare a questa storia dell’altro ieri? Quale la sua morale per il nostro presente? Intanto che serve rinominarla e tornare a studiarla per farne un termine di confronto significativo. Per collocare somiglianze e differenze in giusta prospettiva, confrontandole con i discorsi a più voci che circolano oggi sulla scienza nella società. Discorsi discordi che nel corso della pandemia Covid-19, dopo una prima fase di allarmata curiosità pubblica sono diventati cacofonici: insieme iper-richiedenti e iper-diffidenti.

Di fronte a un virus altamente mutageno che imperversa per ondate successive da quasi due anni, gli strumenti conoscitivi e medici, pur straordinari rispetto a tutte le pandemie del passato (basti pensare ai tempi stretti che vanno dal sequenziamento genico del virus alla messa a punto agli screening molecolari e alla produzione dei vaccini), non sono stati certo risolutivi "del male" con un agognato colpo di bacchetta magica dello scienziato-mago. In modo reattivo le insofferenze, le riottosità di fronte alla necessità di una governance pubblica del contagio, con le sue diposizioni di "politiche sanitarie" [2], hanno accomunato soggetti disparati: sovranisti in piazza e grandi menti filosofiche. Il governo della diffusione pandemica è stato sentito come atto liberticida per i figli del neoliberismo: soggetti estranei per formazione individuale a un’etica e una politica di solidarietà, di protezione della reciproca vulnerabilità, lontani dal sentimento di  “percepirsi connessi” come comunità umana e come comunità vivente (Campanella, 2020).

Siamo generazioni che non hanno conosciuto "il morbo" del contagio epidemico, nonostante una ventina di epidemie solo dall’inizio del XXI secolo (Longo, 2020) – ma non nell’Occidente, ma non in casa nostra – e nonostante la lunga storia di "pestilenze" remote. Così molti hanno reagito con negazioni e spostamenti del problema.

Si può pensare a un regredire canalizzato entro un’antica e micidiale coppia oppositiva, quella del determinismo scientista da un lato e del suo antagonista di ritorno sotto forma di accusa di "dittatura degli scienziati" dall’altro.

In realtà come contrappunto sotto traccia questa coppia non ci aveva mai lasciati. A partire dal contrasto ottocentesco tra romanticismo/positivismo, riproposto e inasprito poi con le esaltazioni prometeiche del modernismo e il loro contraltare: il dolente discredito di intere scuole filosofiche per i dispositivi di potere disumanizzanti delle tecnoscienze. Oggi puntualmente questo contrasto risorge come frutto di scorciatoie del pensiero, in parte spiegabile con l’affaticamento pandemico collettivo, la paura, e con l’intollerabilità del "subire".

In questa situazione turbolenta, che è sociale non meno che biologica (noi e il virus siamo in fondo presi in una delle strategie più note dell’evoluzione: il contagio, produttore di biodiversità e selezionatore di individui), basta che la scienza comunichi di più, meglio, con più trasparenza i suoi dati? È fondamentale ma non basta. Concordo assolutamente con le tante voci autorevoli che, alla luce di questo evento epocale, chiedono che esso sia giustamente sprone di cambiamento per una accresciuta educazione scientifica nei percorsi formativi di ogni grado. Certo. Ma la divulgazione di dati e teorie, una maggiore alfabetizzazione scientifica se è auspicabile e necessaria, non è sufficiente.

Quel che occorre è trovare una oggettività scientifica "forte". L’oggettività della scienza è forte quando sa includere l’integralità dei suoi processi: il contesto esterno ai laboratori, il ruolo della società, l’estensione metodologica della sua capacità critica in autocritica, il rapporto tra etica e ricerca, ben sapendo che "oggettività" non equivale a "neutralità", che la scienza, sì, non è neutrale, ma non è però "opinione" (Gagliasso, Della Rocca, Memoli, 2015; Mangia, 2020a). Diventa forte quindi anche grazie all’accresciuta consapevolezza nei ricercatori degli interessi economico-finanziari da cui è attraversata. Un punto su cui convergono oggi molte delle critiche etiche e politiche è ad esempio la proprietà brevettuale dei vaccini. Ebbene non è abbastanza noto all’esterno come nel mondo scientifico su questo ci sia un vivo fermento che s’inserisce nella ricerca di nuove strategie di democratizzazione e per l’estensione dell’open access (Destro Bisol, et al., 2020), in battaglie di medici critici dei conflitti d’interessi con profitto farmaceutico[3] . Mentre una parte delle scienze del vivente e dell’ecologia incontra l’attivismo l’ambientalista (Artale, 2019), e nella pratica dell’epidemiologia ambientale sempre più spesso si fa "co-costruzione" tra tecnici e cittadinanze inquinate (Mangia, 2020; Cori et al., 2021). È con tutto ciò che la credibilità scientifica si irrobustisce.

C’è un’efficacia emancipativa in questa capacità dialettica tra mondi della ricerca e cittadinanze, e c’è una differenza con la comunicazione verticale, unidirezionale, istruttiva o massmediatica (utile peraltro), dal mondo della scienza alla società civile intesa come ‘pubblico’. Un pubblico che per certi versi, in questi due anni, è stato trattato a volte come soggetto minorenne.

Di questa ‘co-costruzione’ tra scienza e società si parla da tempo (Funtowicz, Ravetz, 1993; Kitcher, 2011; Jasanoff et al., 2013). È uno dei caratteri della Post-normal science che malgrado il brutto nome oggi giocoforza riapre proficuamente nessi tra la storia delle scienze e dei contesti epocali: nel caso presente pensiamo al riscontro degli storici sulla nascita di sistemi sociali sanitari nelle pandemie del passato (Spinney, 2018; De Waal, 2020; Capocci, 2022- in press). Questa forma di scienza poi collega trasversalmente più discipline nell’inseguire un dato problema. Ad esempio l’evoluzione ecologica di un virus, le velocità e modalità degli aereosol del contagio negli spazi chiusi o aperti: le disposizioni sanitarie raccordano sullo stesso bersaglio virologia, climatologia, evoluzionismo, epidemiologia, con la clinica, la farmacologia, e usano strumenti condivisi di statistica e modelli di probabilità.

Quel tavolino a tre gambe, come è stata chiamata (Ziman, 2000) la scienza post-normale – ricerca+finanza+condivisione sociale – ha dunque tra i suoi stakeholders da un lato l’economia finanziaria, che nel frangente pandemico con il tema delle multinazionali farmaceutiche è stata dirompente, e dall’altro lato, le cittadinanze informate con le loro utili sfide e l’opinione pubblica, spesso con i suoi pregiudizi idiosincratici. Cittadinanze attive e opinione pubblica che non sono la stessa cosa, come non sono la stessa cosa il citoyen e il bourgeois.

 

Quel doppio tempo tra fideismo e diffidenza

 

La pandemia con le sue devastazioni sulla salute collettiva, fisica e sociale, ha danneggiato l’economia reale, infragilito la tenuta della comunità umana, e ha avuto contraccolpi altalenanti nello scorrere dei mesi sul rapporto di fiducia/sfiducia tra scienza e società.

In un primo momento, nell’inverno e primavera 2020, nuove allarmate curiosità si sono fatte strada tra le persone con un iniziale affidamento al verbo degli esperti visti come detentori di un sapere salvifico. Quando soggiacere a un virus sembrava inaccettabile e sconvolgente, l’ideale rassicurativo di clinici e virologi è stato spesso offerto -e in ogni caso percepito- come luogo di certezze, quasi sostitutivo di una fede religiosa, quasi capace di trasformare l’esperto di turno in un guru.

Nella seconda metà del 2021, s’è verificato l’opposto. La frustrazione delle nuove ondate di ritorno di un virus altamente mutante e il perdurare di un tempo lungo pandemico ha incrinato la fiducia nella scienza idealizzata nel primo impatto con il Sars-Cov-2. Si sono aggrovigliati tra loro questioni scientifico-finanziarie spinose (anche se ben note da tempo agli addetti ai lavori) con timori di soluzioni liberticide: la diffidenza sugli intenti della scienza "al servizio" della cosiddetta BigPharma, prima, e l’accusa di "dittatura sanitaria" nel momento della stretta governativa degli obblighi vaccinali anticontagio, poi.

Se il momento della scoperta dei vaccini in tempi straordinariamente veloci era stato enfatizzato anzitempo come risolutivo, a ciò s’è subito associato il tema spinoso dei profitti stratosferici sui brevetti, quello della loro distribuzione iniqua tra paesi ricchi e poveri, e quello della blindatura sui dati sensibili anche in risposta a richieste esplicite da parte di virologi, di protocolli condivisi[4]. S’è assistito alla volata dei mercati finanziari all’indomani del primo annuncio sul vaccino, al loro immediato contrarsi al primo annuncio di caso avverso. Insomma se il volto disumano del neoliberismo era palese, restava tuttavia innominato, mentre la voracità finanziaria delle grandi holding del farmaco veniva addossata tout court proprio all’intera comunità scientifica, con le sue pratiche di ricerca preziose nei due sensi del termine: salvifiche e redditizie.

A pochi mesi di distanza da questa situazione, comunque interessante per la richiesta di equità che sottendeva, si aggiunge un'altra componente di grave sospetto. Proprio nei paesi ricchi, di fronte alla opportunità vaccinale di cui questi potevano ormai godere, e in risposta alla sempre più pressante richiesta dei governi (non solo italiani) di copertura vaccinale estesa per abbattere velocemente il contagio, emergono movimenti di opposizione. Son fatti di movimenti No-Vax già preesistenti [5], di numerose – e in una prima fase comprensibili – persone esitanti, di fosche allerte di filosofi oracolari contro la stretta biopolitica liberticida in atto: una parte del mondo intellettuale e una parte della società diffusa colludono nella diffidenza crescente verso la scienza.

Le bassissime percentuali dei casi di reazioni avverse, se contestualizzate in dati disaggregati e sui grandi numeri, avrebbero potuto essere rassicuranti, e sempre più ultimamente lo stanno diventando. Ma, e questo è un punto cruciale, l’ideale scientifico di riferimento per il gran pubblico è fermo alla vulgata di "Scienza" propria delle scienze esatte del secolo scorso, con le sue linearità causative e sue leggi predittive. Leggi lineari e esattezze che in questo caso specifico sono disattese: i campi dove giocano i virus sono i rapporti complessi tra organismi, popolazioni, derive e ambienti, e, se di "regole" si può parlare, le indica il grande esperimento a cielo aperto dell’evoluzione per contagio. Lontani dal determinismo, comportamenti, mutazioni ed ecologia dei virus e di conseguenza clinica ed epidemiologia fanno i conti con probabilità, caso e contingenza storica. Si dispiegano per sistemi complessi, intrecciandosi con un indeterminismo costitutivo della materia vivente che funziona sempre per gradienti di maggiore o minore incertezza stocastica (Bianchi et al. 2020; Angelini 2020; Cori et al. 2021). Insomma, per tradurre nel concreto tornando alla vicenda in atto: per l’obbligo vaccinale (o per il suo omologo soft: la necessità sociale di green-pass), l’efficacia non può essere cercata in una lineare assenza di contagi, sempre disattesa, ma nella significativa diminuzione della loro probabilità sui grandi numeri.

Tra elaborazioni di ricerca, interesse e condivisione in cerchie già attive e scientificamente formate di citizen science (penso ai tanti blog di ricercatori in dialogo tra loro e con gruppi di studio in formazione, a nuovi periodici on line nati dalla pandemia come Scienza in rete) da un lato (Waltner-Toews, 2020) e dall’altro, sfiducia epistemica diffusa in una parte dell’opinione pubblica, è difficile individuare le frastagliate linee di separazione e insieme talora di sovrapposizione.

L’opinione pubblica, ampiamente ondivaga, è stata sottoposta alla continua divulgazione unidirezionale mass mediatica e insieme alle camere di risonanza dei social. Social e blog sono stati strumenti utili di confronto in certi casi, ma anche luoghi in cui qualunque increspatura interpretativa può essere equiparabile a dato di realtà certa: la ‘dittatura sanitaria’, i vaccini come armi interessate foriere di patologie future hanno sostituito nella gamma delle paranoie nel corso dell’ultimo anno i precedenti  complottismi sul virus ingegnerizzato nei laboratori e altre declinazioni della fuga da una realtà quotidiana troppo spaventosa e per essere, quella, la realtà vera (Recalcati, 2020).

Sembra così evidente che parlare di cittadinanza scientifica o di opinione pubblica non è la stessa cosa[6]. Un’analogia suggerita dalla filosofia della scienza: quando si parla di scetticismo, ci sono due scetticismi di pasta totalmente diversa, lo ‘scetticismo metodologico’, motore dell’avanzamento della ricerca, ovvero la specifica attitudine di qualunque scienziato al dubbio metodico sui suoi dati, i suoi pensieri e quelli dei suoi pari, strumento di democrazia e di trasparenza, e lo scetticismo generico, la diffidenza del linguaggio di tutti i giorni, come sospetto sugli intenti, che può diventare persecutorio se assedia una società già in affanno[7].

Ora, la cittadinanza scientifica è qualcosa che richiede sforzo e condivisione reale i tra soggetti e una interlocuzione basata su fiducia col mondo scientifico. In ciò differisce dalle credenze e esclude la diffidenza, e in ciò differisce dalla semplice divulgazione dello scienziato.

Quella che era nella fase della scienza post-accademica l’apertura della ricerca dal chiuso dei laboratori al confronto con l’esterno, la dialettica attiva di comunità civili organizzate e informate con il mondo della ricerca, sembra oggi sotto scacco. Lo è, si spera, temporaneamente, in questi ultimi mesi, tutta concentrata com’è sulla questione, della pandemia e della sua governanceÈ uno scacco che crea confusione tra cittadinanza e ‘pubblico’. Capirne le molteplici ragioni può permettere di ricostruire un tessuto che si va sfilacciando. L’incalzare ripetuto, ad ondate, del virus, l’inseguimento delle sue caratteristiche, delle sue mutazioni, della gamma di patologie intrecciate che scatenava, la velocità senza precedenti delle conoscenze fino alla vaccinazione, sono una parte della storia. Molti sono i panorami ancora ignoti e su cui la ricerca sta correndo e che arriveranno in seguito: dall’incerto dei tempi e modi delle lunghe sindromi post-covid, nello specifico, alla conoscenza più dettagliata delle chiavi ecologiche di diffusione di ulteriori pandemie, nel tema più vasto (Mangia et al., 2020; Shah, 2020).

Le conoscenze aumentano e sono incomplete. Questo è un punto importante. ‘Dateci certezze’ chiedeva un noto politico ai virologi nel 2020: la richiesta pressante dalla società era di rapida ‘soluzione’. Ma su quali metri misurare la ‘rapidità’? Sulle possibilità effettive della ricerca o sull’esaurimento della resistenza della società? Eppure proprio l’incompletezza era, è, una chiave su cui riflettere collettivamente come caveat metodologico.

Le religioni sono in sè compiute (salvo il costante ripresentarsi di eresie [8]). Qualsiasi soluzione scientifica che si presenta come "risolutiva" perde credibilità. La perde perché il metodo scientifico cresce sui propri errori e le teorie sono falsificabili per definizione, ma la perde anche di fronte alla fantasia dell’evoluzione biologica che riserva sorprese, sia pur all’interno di cornici di massima.

Incompletezza e incertezza sono stati i punti su cui gran parte della riflessione epistemologica ha dovuto riflettere di più in questi lunghi mesi, in modi meno gridati e meno oracolari di quelli dei soggetti che hanno perso la fiducia in istituzioni e saperi.

L’incompletezza e il ruolo dell’incertezza costitutiva sono rappresentate dalle mediane, dalle oscillazioni statistiche, dai modelli probabilistici, con la conseguente necessità di essere interpretate, ivi compresa la loro possibilità di modificare in risposta, nel caso dei contagi, anche pochi comportamenti soggettivi che trasformano ulteriormente altre prospezioni future. Quindi sì a un’accresciuta alfabetizzazione di base, ma ricordando sempre che in tempi pandemici le informazioni tecniche devono anche farsi carico del bisogno di rassicurazioni, ma non di certezze ultimative. E proprio le oscillazioni probabilistiche in queste fasi esasperate alimentano delusioni antiscientifiche, quando non proiezioni di interessi complottistici. Né i dati da soli, al netto del contesto di ricezione, sono risolutivi per rispondere alle preoccupazioni su una dittatura sanitaria, sul controllo occhiuto che starebbe dietro alle richieste di tracciamento dei contagi. La ricerca di rassicurazione, il risentimento di non aver avuto soluzione taumaturgica, la durezza di un quotidiano in cui molti punti di riferimento e di sicurezze vengono a cadere, può generare una fuga dal sapere (e dalla realtà) molto più forte adesso che non all’inizio della pandemia.

 

Il "bene pubblico globale" della conoscenza e il "Che fare?"

 

Mentre in passato era vista come una condizione di mancanza, quasi prossima all'errore, l'incertezza oggi diventa invece un nuovo parametro della ricerca. Vale a dire che ci si deve fare carico di una dimensione scientifica in cui la sua centralità prende il posto delle leggi di previsione, per lo meno in questi campi che stiamo considerando e ovviamente non per tutto. Ciò quindi impone vari gradi di sospensione di giudizio e trattandosi di ambiti che hanno a che fare con la vita e con la salute e con i territori riattiva dei legami tra metodo scientifico responsabilità etiche.

Pietro Greco, pensatore e ineguagliato giornalista scientifico e storico della scienza, parlando della “società della conoscenza” come di quella in cui consapevolmente o inconsapevolmente siamo tutti immersi, ricordava il suo carattere di "bene pubblico globale". E mostrava l'urgenza di considerarlo tale a partire dall’emergenza ambientale: se non si modifica il modello di crescita, se non si rifonda la società in vista della felicità di un'etica collettiva e di pratiche di sapere condiviso (ciò che i Greci chiamavano l’eudemonia) la privatizzazione del pianeta ne inghiottirà le possibilità di vita future (Greco, 2015).

Pensiamo alle questioni dei protocolli climatici da trent’anni a questa parte, alle grandi battaglie contro il cambiamento del clima, in difesa della biodiversità, per le energie rinnovabili. Lì troviamo movimenti di cittadinanza scientifica con una funzione di sprone, di interlocuzione, di critica, talvolta anche conflittuale, e trainanti anche della più estesa opinione pubblica. Le cittadinanze scientifiche in questi casi sono state di guida al pubblico diffuso. Nel campo della salute ambientale, oggi inseparabile da quella dei corpi (tematizzata come One-Health) epidemiologi, ecologi, oncologi, biologi, hanno lavorato insieme a cittadinanze che portavano il loro contributo di conoscenze "dal basso", imparando tecniche e prendendo la parola in consessi aperti e focalizzati (Cori et al. 2021). Questa tessitura ancora, bisognosa di una certa cura è un utile esempio.

Gli anni della pandemia, questi due anni, hanno portato a un duplice effetto. Al diffuso antiscientismo che ha incrinato nella mente di alcuni il tessuto dei rapporti tra scienza e società, ha fatto da contrappunto, in altri già più formati una crescita di curiosità e di senso della responsabilità.

La condivisione di informazioni, si diceva, è esplosa soprattutto nel primo anno della pandemia. La quantità di lavori, di ricerche open access, alla portata di tutti, sono stati di stimolo alla ricerca e hanno creato un fermento che è riuscito a raccogliere conoscenze e scoprire nuove cure in tempi così rapidi è stato dovuto, oltre che agli avanzamenti della genomica e della virologia alla condivisione e cooperazione tra ricercatori di ogni grado che scavalcavano molti dei canonici paletti istituzionali.

Nella comunità civile più digiuna di scienza il rapporto con questa, s’è visto prima, ha subìto alti e bassi di infatuazione e delusione.

Così alla crescita della cultura scientifica faceva da contrappasso, in alcuni settori della società civile, il collasso della fiducia nella scienza. La paura diffusa, spesso inconfessata, per noi stessi, per i nostri cari, per tutta la popolazione del mondo ha trasformato a volte il soggetto e il cittadino maturo in una persona più vulnerabile, una sorta di minore in cerca di affidamento (come è avvenuto nel 2020), o in un adolescente oppositivo e riottoso, preda di un contagio emotivo (come è avvenuto nel 2021). Se l'affidamento è l'elemento che caratterizza di norma tutte le religioni [9], l’affidamento fideistico ha posto per un periodo la scienza su un altare destinato a franare col prolungarsi della pandemia.

Il problema, dunque, non è solo trovare soluzioni urgenti sapendo che si sta all'interno di un paradigma in cui l’incertezza è costitutiva. È evidenziare il problema e trovare il modo di affrontarlo lavorandoci dentro. Gli scienziati devono imparare a dire con limpidezza “Non lo sappiamo ancora”. E quell’”ancora” è importante perché significa: “stiamo lavorando in un cantiere in costruzione, e mostriamo quelli che sono i punti in trasformazione anche per noi”. È formativo mostrare le differenze di opinione, la dialettica interna alle comunità scientifiche. Certo non come nei talk show, in cui ci si dà sulla voce senza entrare nel merito: pratica efficace nella ricerca del consenso e della popolarità, non certo nella pratica di educazione alla cittadinanza scientifica.

Due o più ricercatori possono certamente ragionare su un problema con prospettive diverse [10]. Anzi, dare visibilità al dibattito interno alla ricerca in modo trasparente e ragionato, offrendo formazione, è un antidoto contro le fake news, che prosperano invece in un contesto in cui vengono proclamate certezze apodittiche, l’indomani sistematicamente smentite. E inoltre permette una ben diversa interlocuzione con i decisori politici [11].

La nuova configurazione (o ricomposizione?) tra mondo della ricerca, cittadinanza scientifica e opinione pubblica sarà uno dei temi che ci accompagnerà nei prossimi anni. Ma non solo. La responsabilità degli intellettuali e la tenuta della società saranno messe alla prova. Ancora una volta il rapporto scienza-società non dipenderà solo dai "risultati" scientifici come il successo della farmacologia e della clinica nell’arginare il contagio, ma dalla capacità di una loro comunicazione efficace. Il che significa disponibile al dialogo, e di condivisione.

Occorrerà, certo, capacità di recupero dell’economia reale e di coesione solidale, in un mondo oggi provato da quella che è stata chiamata la ‘fatigue’ pandemica. La durata della pandemia, le possibili mutazioni del virus e i suoi ritorni, le risposte alle cure saranno ovviamente i fattori da prendere in considerazione: sociali, esistenziali ma anche bioevolutivi.

Cosa serve? Non certo meno potere alla scienza ma una scienza diversa, in grado di ricalibrarsi su posizioni critiche ed autocritiche, la cui oggettività non sia rigida nel fallace tentativo di proporsi come neutrale, ma sia forte perché inclusiva, capace di comprendere al suo interno le cittadinanze interlocutorie, quell’estesa democratica “società della conoscenza” che è ben più della semplice offerta e ricezione di dati.

 

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[1]  Questa forma straordinaria di partecipazione e condivisione, modulata in quegli anni da un diverso clima politico, è oggi nuovamente attiva. Ha ripreso vita la rivista nata allora e c’è un sito che ne documenta la storia: http://scienceforthepeople.org.

[2] Sulla costante di politiche di contenimento e di igiene sociale nelle pandemie del passato si vedrà Capocci, 2022; il sito della Treccani dedicato alla storia delle pandemie e http://www.resviva.it/resviva-covid-19/

[3] Il network Cochrane Italiano che verifica l’efficacia e la sicurezza dei farmaci al di là della propaganda delle case farmaceutiche, il Centro Mario Negri fondato da Silvio Garattini con la rete di ricercatori indipendenti, come il Gimbe, Gruppo italiano per la medicina basata sulle evidenze e contro i conflitti d’interesse (Capocci, 2020).

[4] Come non ricordare un Presidente come Biden che il 5 maggio del 2021 entra nella storia con la proposta politica della revoca della proprietà dei brevetti vaccinali per Covid -19? Inattuabile certo nel breve periodo, ma presente anche in parte del mondo medico nazionale (Silvio Garattini) e internazionale. E come non ricordare quei protocolli di ricerca farmaceutica punteggiati di dati secretati, le cancellazioni in neretto, in risposta al virologo Andrea Crisanti che aveva incautamente ma onestamente detto ‘io non mi vaccino se non vedo i dati’?

[5] Ricordiamo che i No-Vax non nascono con i movimenti che abbiamo conosciuto negli ultimi anni, ma preesistevano, in quanto fin dall’Ottocento furono coevi alla stessa nascita della pratica della vaccinazione.

[6] Anche se nella letteratura anglosassone il termine di ‘public engagement’ non le distingue

[7] Per una contestualizzazione agile e critica dei molti volti dello scetticismo tra l’attualità corrente e la sua storia filosofica si veda D’Eramo, 2021.

[8] Non è un caso che a fine estate il libro dei negatori della pandemia porti il titolo Eresia, e saldi con questo termine plasticamente il nesso tra logiche incompatibili: il rifiuto del dogmatismo religioso e la sua parodia, quello di un ipotetico dogmatismo scientifico.

[9] E, ricordiamo,i momenti delle grandi epidemie sono sempre state fasi di intensa religiosità, anche quando ai miti era succeduta la scienza. L'ultima pandemia che abbiamo conosciuto noi occidentali, la cosiddetta Spagnola del 1918-20, ha visto crescere a dismisura i contagi in molte zone cattoliche o mussulmane percorse da pellegrinaggi e richieste di grazia di guarigione (Spinney, 2018).

[10] Giorgio Parisi, presidente dei Lincei e Premio Wolf per la fisica, ha detto che forse gli esperti avrebbero dovuto essere messi in una stanza ‘a parlare tra loro’ un'oretta prima di entrare in uno studio televisivo, per trovare una linea con cui far vedere le loro differenze ma senza trasformarle in un'esibizione di protagonismo.

[11] In Italia non esistono strutture istituzionalizzate come in altri paesi europei. Penso soprattutto alla Gran Bretagna, dove c'è una grande tradizione scientifica di quelli che si chiamano i policy advisors, cioè delle figure intermedie di esperti (non necessariamente scienziati, ma esperti) strutturati tra loro con una sorta di rete e sono l'interfaccia dei decisori politici. Perché la decisione politica è qualcosa che deve essere avere alle spalle un livello di preparazione ed informazione più grande di quello che noi abbiamo incontrato in questi anni.