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WotanFagoT9

WotanFagoT9

di Riccardo Mansani


Nel dicembre del 1945, Palmiro Togliatti, segretario generale del Partito Comunista Italiano e Ministro della giustizia in carica nel primo governo De Gasperi, ricevette da Mosca un dossier segreto contenente una terribile rivelazione.

Terribile per il mondo e terribile in particolare per l’Italia, uscita dalla guerra pesantemente sconfitta, ma in quella situazione ambigua di chi, prima che le ostilità fossero cessate con la resa totale della Germania, era riuscita a esprimere una sorta di pentimento, sincero per lo più, anche se non esente dalla contaminazione dei numerosi voltagabbana sempre presenti in quelle situazioni in cui la storia, pur avendo palesato con chiarezza i suoi giudizi sul passato, concede ad alcuni la possibilità di agire come se le loro scelte potessero ancora credersi frutto di un tormentato percorso interiore.

 

Togliatti era rientrato l’anno precedente dall’Unione Sovietica, dove aveva trascorso la maggior parte degli anni del fascismo, portando la nuova politica del partito in un’Italia divisa dove al nord, tuttora nelle mani di Tedeschi e Fascisti, continuava a imperversare una dura lotta di liberazione.

A Mosca, negli anni precedenti, era stato, ed era ancora in carica, come segretario generale dell’Internazionale Comunista, il partito planetario che, idealmente, riuniva tutti i partiti comunisti del mondo e, in tale posizione, aveva avuto accesso, con totale disappunto di Stalin, a informazioni estremamente riservate che il movimento comunista non poteva ignorare senza negare se stesso, ma che il dittatore avrebbe preferito considerare materia interna dello Stato Sovietico.

Le informazioni contenute nel dossier erano agghiaccianti. Nella sua avanzata verso ovest, l’Armata Rossa aveva liberato il campo di Auschwitz-Birkenau scoprendovi le atrocità dei campi di stermino, da molti sospettate, ma negate dalla maggioranza degli Europei la cui immaginazione non arrivava a concepire orrori di quella portata. Ma le truppe Sovietiche, avevano riportato in patria anche un importante bottino scientifico.

I nazisti avevano della scienza una strana idea. I loro scienziati erano dotati di intelligenze elevate, ma fredde e calcolatrici, così rigide da far impallidire il povero Hegel, padre nobile dello Spirito del Raich, per la loro totale estraneità alla dialettica. Allo stesso tempo condividevano interessi esoterici che, con sommo sconcerto di un qualsiasi scienziato “occidentale” di mezza tacca, permettevano loro incursioni in territori dove si mescolavano spregiudicatamente scienza e morale, orgoglio germanico e vaneggiamenti sulla utilità dello spiritismo nell’elaborare la strategia di una campagna militare.

L’analisi del materiale sequestrato e i verbali degli interrogatori degli scienziati fatti prigionieri avevano portato a conclusioni sconcertanti: tutto ciò era contenuto nel dossier proveniente da Mosca.

Togliatti, per formazione, era un giurista, ma non essendo l’intelligenza una prerogativa che, settorialmente, si applichi solo a questo o a quel campo in cui si è esperti, aveva capito. Certamente non aveva capito i dettagli, ma il nocciolo della questione, l’impatto che quelle scoperte potevano avere sulla realtà gli era sinistramente chiaro. Togliatti capiva e, poiché capiva, temeva.

Dal rapporto catalogato Z74/05 del dottor Rufus Hartstein direttore del progetto “Nuovi Virus” del Centro Ricerche di Birkenau:

… la sperimentazione condotta ha dimostrato senza apprezzabili margini di dubbio che il virus isolato nelle prove da W/07 a W/18 (nome convenzionale WotanFagoT9) è responsabile dell’inaspettatamente elevato aumento dell’aggressività nelle cavie inoculate.

Il risultato più stupefacente risiede nel fatto che le cavie, oltre a manifestare l’aumento di aggressività coerentemente ai consueti modelli (difesa territoriale, affermazione nel branco, competizione per il partner ecc...) vanno incontro a una variazione qualitativa dei comportamenti aggressivi inspiegabile secondo le teorie biologiche correnti.

Esemplare è l’esito degli esperimenti rubricati sotto la sigla WP/11-24. Si tratta di 13 esperimenti,  con 13 paralleli test di controllo su individui non inoculati, nei quali la cavia inoculata con WotanFagoT9 mostra, nei confronti del possibile rivale compagno di gabbia, un’aggressività che non si esaurisce, come di consueto, con la resa dell’individuo più debole. In queste prove, l’individuo vincente insegue il rivale sconfitto e continua ad attaccarlo fino ad ucciderlo e a infierire sul cadavere dilaniandone i resti, in violazione di ogni regola comportamentale normalmente osservata.

Ma la scoperta più inquietante è descritta in una successiva sezione del rapporto:

Analisi condotte su campioni umani costituiti da migliaia di individui: prigionieri del campo di varia etnia e appartenenti alla popolazione locale rigorosamente selezionati come soggetti di razza Ariana, hanno mostrato che WotanFagoT9 è normalmente presente nel sangue degli individui analizzati in quantità costante ma soggetta a elevata variabilità all’interno del campione. Tale variabilità risulta totalmente indipendente da parametri quali: sesso, razza, posizione sociale.

L’analisi variazionale, condotta con i metodi statistici più aggiornati (vedi per i dettagli la sezione sperimentale del presente rapporto), ha altresì evidenziato, con un elevato fattore di correlazione (R2=0,97), che la presenza del virus nel sangue degli individui analizzati cresce al crescere di caratteristiche quali autoritarismo, crudeltà, prepotenza (parametri per i quali abbiamo elaborato un originale metodo di stima quantitativa). All’inverso, quantità progressivamente più basse di WotanFagoT9 si sono riscontrate nel sangue di individui miti, potenzialmente succubi, dotati di personalità più deboli e recessive.

Al di là del linguaggio tecnico, peraltro abbastanza accessibile a un non specialista dotato di una qualche cultura scientifica, il significato del rapporto risultava evidente: era stato scoperto il “Virus del Male”.

Il rapporto proseguiva dettagliatissimo, accompagnato da una documentazione sperimentale ineccepibile ed estremamente rigorosa dove si specificava che la sperimentazione era tuttora in corso finalizzata  alla messa a punto di un vaccino specifico. Il raggiungimento di tale obbiettivo, si puntualizzava, non avrebbe richiesto idee particolarmente brillanti o innovative né salti di conoscenza, non c’era da inventare niente di nuovo: la messa a punto del vaccino sarebbe stata solo questione di tempo e di lavoro.

 

Fin dalle sue prime esperienze politiche il compagno Togliatti aveva dato alla causa del comunismo tutto se stesso, la sua intelligenza lucidissima, le sue capacità organizzative, la sua non comune abilità diplomatica; ma i diciotto anni trascorsi a Mosca lo avevano convinto, supposto che ce ne fosse stato bisogno, di quanto le buone intenzioni lastrichino le vie dell’inferno. A Mosca, in quegli anni aveva visto cadere, abbattuti dalla realtà, i progetti condivisi nella giovinezza torinese con tutta una generazione di militanti. Le notti all’ “Ordine Nuovo”, le mattine ai cancelli della FIAT, le interminabili discussioni con Gramsci, l’amico fraterno morto in carcere credendo fino all’ultimo perché non aveva visto, come lui, la realtà della tanto decantata Russia caduta nelle mani di burocrati senz’anima, la fame e l’odio nelle strade di Lenigrado, gli intrighi, le trappole e le paure nei palazzi del potere. Lui no, lui, a Mosca, aveva imparato uno scetticismo distaccato, arido, senza ideali; lo aveva praticato per sopravvivere ma non aveva perso il senso della realtà e la capacità di distinguere. Aveva conosciuto bene Stalin, la sua sete di dominio, la sua mancanza di scrupoli, la sua fantasia diabolica e sapeva bene, per averne fatto parte, quanto il potere si senta “al di là del bene e del male” e cosa, la padronanza del bene e del male, che avrebbe potuto conferire un vaccino contro WotanFagoT9, potesse permettere. S’immaginava vaccinazioni di massa imposte da dittatori non vaccinati che volessero conservare la propria autorità aggressiva per ottenere un controllo assoluto su un popolo reso mite e accondiscendente; eserciti di schiavi ubbidienti cui chiedere qualsiasi sacrificio in nome di ideali non più creduti: il trionfo del potere, la catastrofe dell’obbedienza planetaria, la morte dell’Uomo assoggettato all’arbitrio di pochi dittatori. E cos’era tutto ciò se non il Male assoluto? Il paradosso del Male assoluto prodotto dalla vittoria dell’uomo sul male stesso! Sembrava che la natura, beffarda, volesse rammentare all’umanità chi era il padrone di casa.

Si doveva fare qualcosa, un potere così sconfinato nelle mani di uomini come Stalin avrebbe distrutto il mondo.

Aveva scartato immediatamente l’idea di far arrivare il dossier agli Alleati. Tra l’altro anch’essi nella loro avanzata verso Berlino si erano impadroniti di fabbriche, centri ricerche, laboratori e avevano fatto prigionieri numerosi scienziati che potevano aver condotto ricerche simili o essere al corrente dei risultati dei loro colleghi di Birkenau, e il generale Patton, con il suo fanatismo anticomunista non era certo tipo da farsi sfuggire una simile chicca. Degli Americani non si fidava: le loro pulsioni dittatoriali sono più timide ma la loro voglia di dominio, ipocritamente nascosta sotto la bandiera della democrazia, non è meno spietata. Se entrambi i blocchi avessero potuto disporre del vaccino la divisione del mondo si sarebbe pietrificata e le minacce di una nuova disastrosa guerra, con eserciti ciecamente obbedienti e le armi terribili che solo pochi mesi prima avevano distrutto Hiroshima e Nagasaki, non avrebbero tardato a manifestarsi.

Del dossier aveva parlato solo con Secchia, suo vice in pectore, un compagno generoso e combattivo che, nonostante i suoi slanci rivoluzionari, aveva sinceramente condiviso la svolta moderata imposta l’anno precedente da Togliatti alla politica del partito. La trovava avveduta e aderente alla realtà del momento, ma come tanti compagni, soprattutto tra quelli provenienti dalla file partigiane, covava ancora la speranza di una società nuova da costruire, se necessario, anche con la lotta armata. Anche se non la conosceva per esperienza diretta, Secchia era molto legato all’Unione Sovietica e questo sarebbe stato un buon motivo perché il segretario non si fidasse di lui, ma era anche un amico e Togliatti si sentiva solo con quel terribile segreto, la sua sicurezza granitica, che non sembrava mai concedere nulla al sentimento, aveva mostrato, questa volta, una piccola falla.

Al principio Secchia non aveva detto niente, non sembrò dare alla cosa tutta l’importanza che le dava il capo, forse non aveva capito pensò Togliatti, forse una cosa così grossa appariva quasi irreale a un dirigente alle prese con i problemi quotidiani dell’organizzazione: le sezioni periferiche da ricostruire, la propaganda che, in quei mesi, richiedeva a tutti uno sforzo nuovo in vista del vicino referendum per la scelta tra monarchia o repubblica. Ma, nelle settimane che seguirono, il suo interesse cominciò a manifestarsi sempre più frequente e, quando i due si ritrovavano da soli, cosa abbastanza rara in quei frenetici giorni, le sue domande si facevano più dettagliate e pressanti. Decisero insieme di conservare il dossier nella cassaforte del partito di cui solo loro due, Togliatti in quanto segretario generale e Secchia quale responsabile del settore organizzazione, avevano le chiavi. 

***

Per Togliatti furono giorni terribili: un incubo da cui non riusciva a vedere vie di fuga: “Wotan”, ormai lo chiamava come un vecchio amico, gli bruciava i pensieri di giorno, Wotan lo svegliava di notte: si era impossessato della sua vita, Wotan.

Poi prese forma un’idea, una possibilità remota, una fiammella nel buio dello smarrimento totale: se tutto il mondo avesse saputo, se tutti gli uomini, grandi e piccoli, potenti e semplici, si fossero vaccinati, allora un sentimento unico avrebbe gradatamente pervaso l’umanità. Un’unica disposizione alla collaborazione, alla solidarietà, al bene comune si sarebbe propagata per generazioni, la vaccinazione sarebbe entrata a far parte delle normali profilassi e Wotan, come altri virus sarebbe stato sconfitto.

Ma il nostro non era uomo da accontentarsi di idee e, con realismo e pazienza, si mise al lavoro per elaborare una sorta di strategia, un percorso praticabile. Prima di tutto sarebbe stato necessario che si vaccinassero i detentori del potere planetario, ma non prima di aver fatto emanare una legge che obbligasse i loro governi a intraprendere campagne di vaccinazioni di massa e i rispettivi ministeri della sanità a inserire la vaccinazione contro Wotan nei protocolli profilattici. Era la precauzione minima per impedire che, una volta vaccinatisi i capi, i loro antagonisti politici potessero evitare la vaccinazione e conservare la carica di aggressività che avrebbe loro consentito di prendere il potere. Era in fondo un meccanismo semplice, ma Togliatti non si nascondeva che poche erano le speranze di successo: come convincere a vaccinarsi uomini come Stalin, Truman o militari come Patton o Eisenhower? Essi avrebbero dovuto farlo loro malgrado e per convincerli occorreva che un’autorità a loro superiore li mettesse pubblicamente davanti a una scelta di fronte alla quale, volenti o no, non avrebbero potuto tirarsi indietro. Occorreva un’autorità morale, universalmente riconosciuta, considerata al di sopra delle parti e, formalmente, senza interessi materiali da difendere. Si rammaricò pensando a Roosevelt, morto da poco meno di un anno; il vecchio presidente, con il suo carisma avrebbe avuto la capacità di dare al modo un messaggio molto forte. Pensò al Papa e quella gli parve l’unica strada percorribile.            

Il Papa avrebbe dovuto parlare al mondo, rivelare l’esistenza del vaccino anti-Wotan e proporre la strada pensata da Togliatti. I potenti del pianeta, davanti a una tale rivelazione, che sarebbe stata ribadita da tutte le diocesi, da tutte le parrocchie, da tutte le strutture di base di tutte le chiese e di tutte le religioni, non avrebbero potuto sottrarsi; neppure in Russia dove la Chiesa Ortodossa, tollerata e spesso perseguitata dallo stato sovietico, aveva ancora un forte radicamento popolare con secoli di tradizioni alle spalle. Togliatti avrebbe aggiunto la sua voce, era pur sempre il leggendario “compagno Ercoli”, segretario dell’Internazionale ed eroico combattente nella guerra di Spagna: la sua voce aveva sempre un grande credito nel mondo comunista e tante altre voci  si sarebbero aggiunte a quella del Papa e alla sua. Le speranze erano poche, ma si doveva rischiare.

Pio XII e Togliatti, certamente, non si amavano. Il Pontefice aveva sempre manifestato un anticomunismo viscerale che, durante gli anni del regime, gli aveva anche attratto qualche accusa di simpatie nazziste, ma tra i due correva, reciprocamente, una sorta di timore reverenziale. L’uno si inchinava di fronte all’intelligenza e alla lucidità politica, l’altro subiva il fascino della compostezza distaccata, quasi ieratica, con cui Pio XII sapeva rivolgersi al mondo. Togliatti era sicuro che lo avrebbe ascoltato, ne era sicuro perché in quel momento lui rappresentava la voce della ragione e la Chiesa Cattolica, con le sue tradizioni scolastiche, non poteva sfuggire alla riflessione su fatti che le sarebbero apparsi sotto una luce apocalittica. Si convinse che quella era la strada giusta, bisognava attendere il momento favorevole e agire, i suoi amici sovietici lo avrebbero tenuto al corrente sull’avanzamento dei lavori nella produzione del vaccino e lui, nel frattempo, avrebbe perfezionato il suo piano.

***

E il momento favorevole venne, qualche anno più tardi, inatteso, dirompente come un fulmine estivo. Molta acqua era passata sotto i ponti, L’Italia a seguito del referendum popolare era diventata una repubblica, le sinistre erano state estromesse dal governo, l’internazionale comunista era stata sciolta e il mondo apertamente diviso in due blocchi che non perdevano occasione per mostrarsi i denti.

 

6 Marzo 1953

STALIN È MORTO

GLORIA ETERNA ALL’UOMO CHE PIÙ DI TUTTI

HA FATTO PER LA LIBERAZIONE E

PER IL PROGRESSO DELL’UMANITÀ

 

L’UNITA' uscì con questo titolo a tutta pagina. Il “Piccolo Padre”, come affettuosamente lo chiamavano in Russia, era morto all’improvviso stroncato da un ictus cerebrale.

Nelle città si videro cortei disperati, uomini e donne con gli occhi pieni di lacrime, manifesti listati a lutto tappezzarono i muri: il popolo comunista piangeva la sua guida, l’eroe, il salvatore dell’Europa dalla barbarie nazzista.

Il cordoglio fu unanime in tutto il mondo: Stalin era pur sempre l’uomo che a Stalingrado aveva offerto l’estrema resistenza all’avanzata germanica e col sacrificio di quasi cinquecentomila russi aveva segnato l’inizio della sconfitta hitleriana. In realtà nessuno, in occidente, sapeva davvero cosa era stato Stalin, Togliatti sapeva, molto immaginava, ma non tutto.

Ma con la morte di Stalin veniva meno il punto più critico del suo piano, il tassello di resistenza più duro, il maggior ostacolo. Pochi giorni dopo si conobbero i nomi dei successori: Nikolaj Aleksandroviè Bulganin e Nikita Sergeyevich Khrushchev, due oscuri burocrati, ignoranti e rozzi che niente avevano della grandezza mefistofelica del vecchio dittatore, Togliatti, in Russia, li aveva conosciuti: omuncoli. Era il momento giusto, bisognava agire.

***

Il capo del governo aveva ascoltato in silenzio le parole del suo vecchio ministro della giustizia, da più di un’ora erano chiusi nel suo studio e De Gasperi, che di Togliatti conosceva la serietà e il rigore, aveva capito perfettamente il senso di quella storia incredibile. Del resto la scoperta degli orrori hitleriani aveva attutito in tutti, in quel tragico dopoguerra, quel senso di stupore con cui si era soliti guardare alle azioni umane più estreme. I due avversari, pur separati da opposte concezioni della vita e del mondo si trovarono, in quel momento a condividere il valore ultimo del bene e del male, e De Gasperi non ebbe dubbi che i margini delle azioni possibili erano molto stretti intorno al piano concepito dal suo interlocutore. Chiese qualche giorno per riflettere, poi ne avrebbe parlato al Santo Padre e avrebbe combinato un incontro tra i due. La cosa non era semplice, neanche per il capo del partito cattolico: la diplomazia vaticana imponeva un protocollo rigido che si doveva rispettare se non si voleva far fallire l’incontro sul nascere. Non era cosa da poco l’incontro tra Pio XII e Palmiro Togliatti, il comunista, il senza Dio, lo scomunicato e se solo qualcosa fosse sfuggito al controllo tutta la stampa si sarebbe avventata sulla notizia e un allarme gravido di conseguenze imprevedibili si sarebbe rapidamente diffuso nel modo della politica.

Pochi giorni dopo squillò il telefono nell’ufficio di Togliatti: era la notizia attesa, l’incontro si faceva, De Gasperi aveva parlato al Pontefice e dopo una lunga spiegazione aveva trovato in lui la massima disponibilità. Avrebbe ricevuto il capo dei comunisti ma raccomandava una discrezione assoluta.

***

Il segretario uscì dal portoncino laterale del palazzo delle Botteghe Oscure per evitare i giornalisti che sorvegliavano costantemente l’ingresso della sede del partito a caccia notizie fresche. Una vecchia Balilla 1100 lo aspettava all’angolo del vicolo. Erano le dieci del mattino, le vie intorno erano animate di passanti e poche vecchie automobili percorrevano lentamente le strade del quadrato di Torre Argentina. La Balilla, percorse via Arenula, attraversò il Tevere sul ponte Garibaldi e svoltò a destra sul vialone della Farnesina seguendo il lungotevere fino a imboccare via san Pio X. Qui svoltò a sinistra, percorse via Porcari e si fermò all’inizio di viale Vaticano di fronte all’ingresso dei musei. Togliatti scese dalla macchina, si mischiò alla folla dei turisti davanti alla biglietteria, acquistò un biglietto e, cercando di non dare nell’occhio, entrò nel museo. Salì le due rampe di scale, percorse lentamente i corridoi interminabili gettando qualche vago sguardo sui capolavori esposti ed entrò finalmente nella sala della Segnatura sostando, tra i presenti, davanti alla Scuola di Atene. Quando fu sicuro di poter sfuggire ad ogni attenzione, si diresse verso la porta laterale che immette negli appartamenti privati del Papa. La guardia svizzera, evidentemente avvisata, gli tributò un rigido presentat-arm e lo lasciò entrare.

***

La sera stessa Il papa convocò i consiglieri più vicini, c’era il segretario di stato monsignor Domenico Tardini, il cardinal Alfredo Ottaviani camerlengo del collegio cardinalizio, il cardinal Giuseppe Pizzardo prefetto della Congregazione del Sant’Uffizo e il cardinale Pietro Fumaroli Biondi segretario della Congregazione per l’Evengelizzazione dei Popoli. Si chiusero nello studio privato di Sua Santità dove rimasero per sette ore. Alle 22 la sala si aprì e il Papa si diresse verso i suoi appartamenti dopo aver dato all’addetto stampa la notizia che l’indomani, all’Angelus, avrebbe fatto importanti comunicazioni.

 

Domenica 12 maggio 1953 era una bella giornata di sole. Un cielo azzurro cupo sovrastava piazza S. Pietro facendo risplendere i travertini del colonnato e una folla multicolore rumoreggiava affollando il selciato all’inverosimile. Erano quasi le 12 e l’appuntamento domenicale dell’Angelus era un  evento fondamentale nei rapporti tra la Chiesa e il suo popolo: donne, uomini, bambini provenienti da ogni dove e di tutte le condizioni sociali sventolavano bandierine bianco-gialle con gli occhi rivolti alla finestra degli appartamenti papali. Ma l’Angelus, tradizionalmente, era anche il momento di comunicazioni importanti e la consueta nutrita presenza di giornalisti aspettava impaziente le parole del Papa che, sapendone leggere il linguaggio squisitamente curiale, avrebbero rivelato i settimanali aggiornamenti della politica Vaticana. L’annuncio della sera precedente aveva caricato di attese la stampa internazionale presente a Roma e le ipotesi sulle comunicazioni papali si sprecavano: i rapporti tesi con i paesi comunisti, la ferita aperta della condanna del cardinal Mindszenty, Nunzio Apostolico a Budapest, per cospirazione contro lo stato, la scomunica disposta due anni prima agl’iscritti al Partito Comunista che aveva provocato grande inquietudine nel panorama politico italiano...

Quando, a mezzogiorno in punto, la finestra si aprì, trascorsero alcuni secondi prima che la piazza si rendesse conto che alla finestra non c’era la tonaca bianca di Pio XII.

Il cardinal vicario, monsignor Clemente Micara, si era affacciato e cominciò a parlare prima che si esaurisse l’attimo di stupore: “Fratelli carissimi, nella tarda nottata di ieri sua Santità Pio XII è stato colto da un grave malore che non gli ha oggi permesso di recitare l’Angelus insieme ai suoi figli diletti. L’Archiatra pontificio ha definito le sue condizioni serie ma non allarmanti e ha escluso, per il momento, che la sua vita sia in pericolo”. Isolati brusii cominciarono a levarsi dalla piazza fino a comporre un boato misto di delusione e stupore che sommerse la voce degli altoparlanti. Il cardinal vicario dovette quasi gridare nel microfono: “Sarà cura….  Sarà nostra cura, fratelli, fornire alla stampa accreditata ogni aggiornamento sulle condizioni di sua Santità”. La piazza continuò a fremere e il frastuono sembrò assumere i connotati sinistri di uno sgomento collettivo. Pio XII non era stato un Papa popolare, il suo distacco aristocratico, la sua scostanza, non lo avevano reso gradito alla grande massa dei semplici che costituivano il popolo della chiesa. Ma un simbolo fa sentire tutta la sua forza proprio nel momento in cui vacilla e adesso tutto un popolo, che ancora portava le ferite aperte di cinque lunghi anni di guerra, si sentiva abbandonare da quella presenza lontana, rigida ma, in qualche modo, rassicurante. Con intuito pronto, monsignor Micara riprese il controllo della situazione: “Possa la nostra paterna benedizione, fratelli carissimi, suscitare nei vostri cuori la fiamma della speranza. E ora preghiamo insieme per la salute del Santo Padre”.

 

Togliatti era seduto nel suo ufficio alle Botteghe Oscure, aveva davanti a sé un fascio di giornali che leggeva con attenzione sottolineando passaggi e prendendo di tanto in tanto appunti. Massimo Caprara, il suo giovane segretario, entrò trafelato senza bussare e buttò sulla scrivania del capo un foglio di telescrivente con la notizia appena battuta dalle agenzie. Togliatti lesse e si alzò di scatto, era livido in viso, tremava per la rabbia e l’angoscia. A passo veloce si diresse verso la stanza della cassaforte: “chiamatemi Secchia, chiamatemi Secchia…” gridava passando per i corridoi seguito dal segretario attonito. Arrivato nella stanza aprì la cassaforte, travolse pacchi di documenti, sfogliò ogni cartella con frenesia disperata, poi cercò di calmarsi e rivide tutto con pazienza: il dossier era scomparso. “Secchia, Secchia… dov’è Secchia?” urlò fuori di sé rivolto al segretario. Caprara abbassò la testa leggendo l’angoscia negli occhi del capo: “… il compagno Secchia è partito stamani per Mosca”

Togliatti si fece di pietra, a nulla gli servi il disincanto maturato in lunghi anni di osservazione fredda della realtà, si sedette, abbassò la testa e, forse per la prima volta, nella sua età adulta, pianse.

 

Riccardo Mansani