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Latino e tedesco per un sommerso e salvato
Primo Levi    

Latino e tedesco per un sommerso e salvato

 

Nell’ottobre di 75 anni or sono Primo Levi rimetteva piede nella sua Torino

 

Luciano Luciani

 

Fu uno scienziato Primo Levi, laureato in chimica a Torino dopo aver frequentato il liceo classico di quella città, il D’Azeglio. Non andava troppo bene in italiano e all’esame di maturità proprio in tale materia fu rimandato a settembre. È strano a volte il percorso di vita degli scrittori e non solo: la chimica gli dette da vivere e lo aiutò anche a salvarsi. Perché fu proprio grazie agli studi scientifici che apprese i rudimenti del tedesco, la lingua dei suoi carnefici, e quella conoscenza lo aiutò, una volta deportato ad Auschwitz, a scampare alla morte riuscendo più, prima e meglio degli altri suoi compagni di sventura a comprendere gli ordini degli aguzzini. Ricordava Primo anche un po’ di latino e pure quella lingua morta lo aiutò a sopravvivere. Gli tornò utile quando, intrapreso il viaggio di ritorno verso l’Italia dopo l’esperienza del lager, giunto in Polonia in quel di Cracovia, affamato e disperato perché nessuno, interpellato in francese e tedesco, gli rispondeva su dove trovare un po’ di cibo, così si rivolse a un religioso: “Pater optime, ubi est mensa pauperorum?” riuscendo così finalmente a mettere qualcosa sotto ai denti.

Scienziato e partigiano, Primo Levi dopo l’8 settembre era entrato in un gruppo che operava in Val d’Aosta. Le sue convinzioni erano quelle del movimento Giustizia e Libertà e del Partito d’Azione: è quindi repubblicano, crede in un futuro di economia mista pubblica e privata, prevede la nazionalizzazione dei grandi monopoli industriali e finanziari. È un ebreo, Primo Levi. Intercettato dalle leggi razziali del ’38, riesce lo stesso a laurearsi a pieni voti e la lode, ma sul suo diploma di laurea compare la menzione “di razza ebraica”.  Motivo per cui lavora sotto falso nome in un centro di ricerca di prodotti farmaceutici contro il diabete.

Da dicembre ’43 al gennaio ’45 gli tocca il campo di sterminio di Auschwitz: Primo Levi è manodopera coatta finché dimostrerà di essere in grado di reggersi in piedi. Nel suo presente esistono solo la fatica, il freddo, la fame, le malattie, le vessazioni quotidiane. Nel suo futuro c’è il forno crematorio. E intorno soltanto scenari di morte e di orrore. A uno a uno i suoi compagni di prigionia muoiono tutti: “Devo dire che l’esperienza di Auschwitz è stata tale da spazzare qualsiasi resto di educazione religiosa che pure ho avuto… C’è Auschwitz quindi non può esserci Dio. Non trovo una soluzione al dilemma. La cerco, ma non la trovo”. Partigiano ed ebreo, Primo sopravvive ad Auschwitz. Riesce a resistere un minuto più dei suoi carnefici che lo abbandonano semivivo nell’infermeria del campo dove il nostro morituro assiste all’arrivo dei suoi liberatori:

La prima pattuglia russa giunse in vista del campo verso il mezzogiorno del 27 gennaio 1945… Erano quattro giovani soldati a cavallo, che procedevano guardinghi, coi mitragliatori imbracciati, lungo la strada che limitava il campo. Quando giunsero ai reticolati, sostarono a guardare, scambiandosi parole brevi e timide, e volgendo sguardi legati da uno strano imbarazzo sui cadaveri scomposti, sulle baracche sconquassate, e su noi pochi vivi.

E inizia il dopo lager, il dopo Auschwitz in un continente reso selvaggio, inospitale e feroce da quasi sei anni di una guerra terribile che aveva fatto milioni di morti, distrutto ogni senso di civiltà, cosparso il panorama di macerie materiali e miserie morali. E Primo intraprende il suo viaggio di ritorno verso casa, verso Torino: un Odisseo malato, gracile, ferito fuori e dentro che affronta il suo nostos, il suo difficile viaggio di ritorno. Un rimpatrio che durerà circa sei mesi, raccontato nel libro La tregua, premio Campiello nel 1963, che si svilupperà lungo itinerari complicati e labirintici che porteranno questo novello Enea fin nella Russia Bianca e in Ucraina, in Romania, in Ungheria e in Austria. Una peregrinazione, un pellegrinaggio, una via crucis fatta di stazioni dolorose, d’incontri ora tragici ora rivissuti nella memoria con un filo d’ironia, sempre con una commossa e umana partecipazione. Mai con rabbia.

Rimette piede nella sua Torino Primo Levi solo il 19 ottobre 1945: “Ero gonfio, barbuto e lacero e stentai a farmi riconoscere”.