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Occhio alla penna l'inizio

 

 

 

occhio alla penna

Inizia un lungo viaggio nel mondo della scuola in Italia

 

L'occhio alla penna è quello di Giorgio Porrotto

 

Una vita lavorativa nella scuola secondaria come insegnante e come preside (al Liceo scientifico XXV Aprile di Pontedera e al Classico Parini di Milano), con una decennale esperienza di “Ufficio studi e formazione” in un’organizzazione di categoria. Dal 1989 al 2012 è componente dell’Osservatorio sulla scuola dell’autonomia (Centro Bachelet della Luiss). Ha insegnato “Politiche, legislazione e organizzazione scolastica” alla SSIS del Veneto dal 2000 al 2009, e “Educazione comparata” alla Università di Roma Tre dal 2005 a 2008, come docente a contratto. Da quarant’anni pubblica articoli e saggi, sempre di politica scolastica, in libri e riviste.

 

 


 Politica e scuola ω Scuola e stampa ω En Attendant  Godot  ω E il Sindacato? ω Scuola sul filo ω Gli altri e noi ω Si salverà la scuola? ω Buongiorno tristezza ω scuola e società? BUIO SOCIALE ω Antologia degli opposti ω è SCUOLA? ω SCUOLA a CINQUE STELLE? ω Scuola tradita. Da chi? ω La Mastrocola e la storia ω La corruzione e ... la scuola (?) ω Schiaffo al governo I presidi? equilibristi! ω Schiaffoni al Ministro Giannini ... per procura? ω Ma in Italia no, in Italia non si può ω Il sindacato dello sconforto ω Mal di stampa ω Italia sua ω La scuola sotto palanche ω Il preside della “buona scuola” ω Indietro tuttaaa!!! ω Un eccesso di eredità  

 

 

 


 

 

  Marco Porcio Catone

 

LA CORRUZIONE E … LA SCUOLA (?)

di Giorgio Porrotto

24/05/2016

 

Lo scambio di accuse e denigrazioni tra i partiti di questo nostro paese, in tempi di populismo dominante, sta salendo a livelli sempre più rabbiosi. O almeno così sembra. Ma allo steso tempo la credibilità della politica tutta scende a livelli sempre più avvilenti: è ormai opinione corrente, e quindi difficilmente contestabile, che essa non sia in grado, per difetto di capacità – o, peggio, per gli interessi individuali o di gruppo – di combattere la corruzione, o quanto meno di frenarla. Si teme pertanto che l’andazzo vada logorando ulteriormente sia la regolarità della vita pubblica, sia la credibilità del paese nel quadro internazionale. E non si può contare nemmeno sui politici incorrotti: non combattono, pensano a salvarsi.

Speranze o illusioni di riscatto possono venire dai vertici della magistratura, che proprio di recente hanno ritenuto indispensabile evidenziare a tutto il paese, e a chiare lettere, le responsabilità di governo e opposizione. Ma si sa anche che i tempi della magistratura, e quindi gli effetti dei suoi interventi, sono estremamente lunghi, e di non facile impatto per la pubblica opinione.

In materia, come su altri grandi temi, ben poco possono esprimere i vertici del mondo culturale italiano, già offuscato, e non di poco, dal ciclone populista, e ora destinato a perdere le tradizionali funzioni di corrispondenza – richiesta o non richiesta, diretta o indiretta – con le varie parti politiche e finanche con il governo. Quello attuale, infatti, si esprime ed agisce in termini di risoluta e sbrigativa autoreferenzialità, anche a fronte di problematiche che richiedono le competenze più diversificate. Un esempio di indubbia divaricazione tra passato e presente, per quanto riguarda il rapporto tra cultura e potere, ci è offerto anche dalla diversità dei successi di attenzione ottenuti da due sociologi, entrambi interessati ai livelli di onestà civile in Italia. Il primo, l’americano Edward C. Banfield, definì “familismo amorale”, nel suo libro del 1957, l’indomita fermezza del Sud d’Italia nell’anteporre gli interessi particolari della famiglia alle leggi dello Stato; e il suo libro fece epoca, anche nelle scuole, per il resto del secolo. L’inglese con cittadinanza italiana Paul Ginsborg, che di recente ha denunciato l’estensione e la recrudescenza di detto familismo anche nelle altre parti del paese, arriva a una definizione molto più allarmante – “familismo immorale” – per denunciare la dequalificazione della legge; ma non sta ottienendo l’attenzione che aveva premiato il collega. Anzi, è oggetto di giudizi polemici, soprattutto di matrice cattolica.

Di fronte a questo quadro, dominato da negatività accumulate e intersecate, è almeno possibile sapere se esistono studi e ricerche, da qualunque parte realizzati o quanto meno avviati, che consentano di avere un’idea circa le situazioni, gli stimoli, le prospettive, i bisogni, le suggestioni che inducono gli italiani a quella forma di violenza felpata che si chiama corruzione? È quanto si è chiesto Galli della Loggia (Corriere della sera, martedì 26 aprile 2016). (1)

Il suo articolo è un puntiglioso esame delle condizioni di crescita – a casa e a scuola – della gioventù d’oggi. E tratta di ciò che, in fatto di mala-società, ci si può aspettare da parte delle nuove generazioni. L’autore sintetizza, in termini di risoluta competenza, e di amara ironia, i tratti essenziali degli orientamento educativi delle famiglie e delle scuole italiane. Riassumiamone a tratti i passaggi iniziali del testo, che preannunciano un inesorabile vulnus alla vita civile. Ma che fino ad oggi vengono denunciate saltuariamente, senza adeguati allarmi, e quindi, soprattutto, senza adeguate reazioni. “… a scuola … tutti cercano di copiare … Chiunque … può maltrattare arredi, imbrattare di scritte di ogni tipo (in genere oscene) … muri dell’edificio … senza sanzione così come … se marinerà la scuola … se si metterà a compulsare il suo smartphone durante la lezione, se manderà l’insegnante al suo paese. Imitato … anche dai suoi genitori. I quali talvolta - assai più spesso di quanto si creda - ameranno ricorrere anche a insulti e minacce … Tutto coperto … da una sostanziale impunità … infatti la scuola sarà per il nostro … un’ottima palestra di turpiloquio, di bullismo sessista, di scambio di materiale pornografico, quando non di spaccio di droga … per tornare a casa … se usa i trasporti pubblici … si guarderà bene dal pagare il biglietto … in Italia pagare … sui mezzi pubblici è … un’attività amatoriale.” Segue la segnalazione dei comportamenti più diffusi fuori dalla scuola tra i maggiorenni: sgassate micidiali a dispetto delle norme stradali con il motorino truccato dal meccanico (ben pagato e abusivamente), almeno tre bottiglie di birra per organizzare gare di motorini (vigili e carabinieri comunque assenti) e altro di simile … .

(1) (v. anche in Le altre uscite:“SCHIAFFONI AL MINISTRO GIANNINI … PER PROCURA – Galli della Loggia: ma importa a qualcuno la scuola?”) Poi, arrivando alla conclusione, l’autore dice qualcosa che è difficilissimo trovare sulla stampa (libri a parte), e ancora più raramente nella TV, e cioè che i giovani raccolti maggiormente nel percorso appena tracciato sono: “non nascondiamocelo: in particolare quelli del ceto medio, della cosiddetta buona borghesia … Alcuni non ci stanno e se ne vanno, ma la grande maggioranza ci si trova benissimo e cerca una nicchia dove sistemarsi (spesso grazie alla raccomandazione e/o alle relazioni dei genitori di cui sopra). La nostra corruzione nasce da qui”.

Questo finale di Galli della Loggia è un’autentica rilevazione, nel senso che aiuta a valutare dati e prospettive a cui sta andando incontro la società italiana. Si cominci con la constatazione di fondo, ossia il dover ritenere irreversibile, e non per poco, il declino delle grandi imprese italiane, già subito o prossimo da registrare. Si ritenga pressoché scontato che, sulle basi delle dimensioni e delle logiche di sempre, la media borghesia si avvia a rappresentare pressoché la totalità dell’imprenditoria nazionale. Resta così scontata la riluttanza delle medie imprese, comunque affollate, a guadagnare ulteriore crescita per non rinunciare alle certezze di lealtà garantite dall’azienda di famiglia (eterna e sempre rimproverata colpa – con garbo, s’intende – dalle migliori teste dell’economia). Eccoci cosi alla stagnazione, al vuoto di prospettive di crescita, all’insufficienza della politica di ieri e di oggi, alla delusione lasciata da saltuari momenti di sviluppo, al blabablà dei furbastri. È questo insieme che pilota una parte dei cittadini a farsi forti della corruzione. I più deboli, ancorché maggioritari, non ci riescono.

E l’istruzione? È al servizio di imprenditori, padri o madri di alunni che sanno imporsi nei confronti dei docenti. Niente di nuovo, ci aveva già provato Berlusconi (DdL Aprea), in nome del “diritto dei genitori a inculcarle le loro idee nella testa dei figli” (ovviamente a dispetto degli insegnanti). Non aveva invece tolto il divieto ai genitori (facoltosi) di dar soldi alla classe: ma lo sta facendo la “Buona Scuola”. I Rapporti Faure (1972) e Delors (1993) hanno garantito a insegnanti di diversi paesi continuità di crescita culturale e libertà professionale. I docenti italiani sono appena passati dai controlli della burocrazia ministeriale, a quelli di un ex docente divenuto gestore amministrativo.

 

 




Presidi equilibristi

Un’indagine scientifica della Fondazione G. Agnelli

 

Schiaffo al governo

I presidi? equilibristi!

24/12/2015

 

È di questi giorni la comparsa del primo studio di livello scientifico sulle sorti magnifiche e progressive della “Buona Scuola”. E che, in premessa, esalta il ferreo proposito governativo di dare vita a processi educativi vigorosi e taumaturgici, in tutto e per tutto predisposti e garantiti, controllati e valutati, sempre e comunque, dai presidi. Come mai da decenni e decenni. Sempre che gli stessi presidi – cosa ufficialmente scontata, anzi implicita – diventino, o tornino a essere, onnipresenti e onniveggenti e onnipossenti, come accadeva, giustappunto, nella scuola dell’Italia monarchica, e naturalmente e con maggiore ostentazione, in quella fascista, drogata dal regime. Vale comunque anche la pena di ricordare, a tal proposito, che perfino negli Anni Ottanta, e cioè in pieno clima di lassismo post-sessantottino, un provveditore, autorevole studioso dei regolamenti scolastici, ebbe modo di esaltare nel preside “l’ultimo presidio periferico della scuola di Stato”. A qual fine? salvare lo Stato medesimo. E però l’auspicio, all’epoca, rimase tale.

Ma dopo aver preso atto del totale inserimento della suddetta ricerca scientifica nelle indiscutibili logiche della “Buona Scuola”, il lettore si trova d’improvviso, – mirabile dictuincredibile dictu – di fronte ad una presa d’atto a cui non può in alcun modo sfuggire: il predetto studio di ricerca ha registrato, nel profilo reale dell’attività e delle potenzialità dei presidi, l’impossibilità di dirigere il servizio scolastico nei termini categoricamente imposti dalle disposizioni stabilite dal Governo. È come a dire che il libro, frutto di una ricerca tempestiva e specificamente predisposta per sostenere l’ampliamento e l’invigorimento del potere funzionale dei presidi, svirgola di botto proprio sulla possibilità dell’esercizio di quel potere. Più precisamente nega la realizzabilità delle disposizioni destinate ad imporre loro modelli di attività, e di alto tasso di responsabilità, a cui in precedenza non sono stati né tecnicamente preparati, né, tanto meno, psicologicamente predisposti. Insomma, stiamo parlando di un libro di 131 pagine e schierato a sorpresa per smentire debitamente le tonitruanti certezze governative, ancorché disposto a recuperarle in altre forme e con altri mezzi.

 

Massimo Cerulo

Dalla premessa a una rassegna dei contenuti del volume.

 

Ideazione e promozione del volume: Fondazione Giovanni Agnelli di Torino, “istituti di ricerca nelle scienze sociali”, interprete “da quasi cinquant’anni dei cambiamenti della società italiana”; attualmente “i suoi programmi guardano ai nodi critici della scuola e dell’università, nella prospettiva di un rinnovamento del sistema d’istruzione”.

 

TitoloGli equilibristiLa vita quotidiana del dirigente scolastico: uno studio etnografico.

 

Editore: Rubettino Editore, 2015 (Particolare d’indubbia rilevanza: il testo è disponibile gratuitamente sul sito della Fondazione Giovanni Agnelli, www.fga.it)

 

Autore (della ricerca e del testo): Massimo Cerulo, ricercatore in Sociologia presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’università di Perugiagià ricercatore presso il Dipartimento di Cultura Politica e Società dell’Università di Torino, e già insegnante nelle università di Parigi (V “René Descartes”), Salerno, Cosenza (Della Calabria); libro più recente (Rubettino, 2015): Maschere quotidiane. La manifestazione delle emozioni dei giovani contemporanei: uno studio sociologico. Editore: Rubettino, 2O15.

 

Premessa iniziale: «Quali sono le attività principali svolte dal Dirigente Scolastico nella sua quotidianità professionale? Quali e quanti ruoli si trova “costretto” a recitare? Quanto interagisce e quali comportamenti adotta nel rapporto con docenti, personale ATA, studenti e soggetti esterni al campo scolastico? Che rapporto instaura con il Direttore dei Servizi Generali e Amministrativi e con gli altri suoi più stretti collaboratori? Lo studio raccontato in questo libro prova a rispondere a queste domande. Sulla scia dei suoi precedenti studi, Massimo Cerulo segue “come un’ombra” quattro Presidi di scuole secondarie superiori in quattro regioni italiane (Piemonte, Veneto, Calabria, Puglia) raccontando e analizzando comportamenti, dialoghi, interazioni, non detti. Il risultato è un’innovativa ricerca sociologica che focalizza lo sguardo su una delle figure professionali più discusse degli ultimi mesi nonché sul mondo della scuola italiana il quale, come paesaggio impressionista, spesso varia in base al contesto locale in cui si trova».

 

Dalla prefazione del direttore della fondazione giovanni agnelli: «Il … più importante aspetto sottolineato nella ricerca ci consente di capire meglio in quali e quante attività il dirigente scolastico impiega il suo tempo. Nei quattro casi descritti da Cerulo, il preside trascorre gran parte delle ore facendo fronte ad attività di carattere amministrativo (nonostante il rapporto positivo con i Dsga, che dovrebbero consentire un’ampia delega) e in senso lato organizzativo, alla necessità di relazione con gli enti locali (dappertutto, ma in modo emblematicamente problematico a Cosenza), con studenti e genitori, e talvolta addirittura a obblighi di natura giudiziaria in luogo dell’avvocatura dello Stato (Bari). Manca quindi del tutto, invece, la leadership educativa: in nessuna delle scuole investigate il dirigente è colto mentre discute con il collegio o i singoli docenti degli specifici indirizzi educativi della scuola, dei pregi o dei limiti delle attuali pratiche didattiche adottate (e possibilmente rinnovate), dei problemi di questa o quella classe o di questo o di quel dipartimento. È difficile dire se questa scelta sia legata alla volontà di mantenere il quieto vivere nella scuola, astenendosi dall’interferire in un ambito che spesso è percepito di stretta e unica competenza del corpo docente (così forzando i limiti e lo spirito della norma costituzionale sulla libertà di insegnamento), oppure se più semplicemente ai Ds mancano il tempo, gli stimoli o le competenze per dedicarsi agli aspetti didattici. In ogni caso, si tratta di un problema serio: a giudizio di chi scrive, la gestione di un’organizzazione non può avvenire in astratto, ma si deve fondare su una conoscenza precisa di che cosa l’organizzazione deve fare. Nel nostro caso, il compito della scuola è educare: se il preside – per una ragione o per l’altra – perde di vista l’oggetto stesso della sua azione, la sua efficacia non può che essere ridotta.

 

Dalle riflessioni conclusive dell’autore: «5.1 – Il campo ci dice quindi che vi è un forte squilibrio in termini di spazio e di tempo tra i due ruoli previsti dal legislatore: quello di leader educativo-didattico risulta offuscato quando non cancellato dal carico di impegni amministrativi del Preside manager. Come mai accade ciò? La risposta più immediata e forse più semplice è che i Dirigenti non hanno abbastanza tempo per riuscire a occuparsi di entrambi gli ambiti. La ricerca etnografica svolta fa emergere soggetti oberati dagli impegni amministrativi e quindi incapaci – impossibilitati a dedicare spazio all’ambito prettamente didattico, che viene molto spesso delegato ai collaboratori. Se ciò avviene per cortocircuiti sistemici o mancanza di volontà dei singoli soggetti non è facile dirlo: da una parte mi sembra infatti che nella visione del legislatore non siano stati presi in considerazione gli altri ruoli che il Dirigente si trova costretto a recitare nell’ambito della sua quotidianità professionale. Ruoli che, come i resoconti delle osservazioni raccontano, sembrano cadere sulle spalle del preside senza che la sua volontà possa opporsi. Dall’altra parte, però, il Dirigente appare come un soggetto accentratore di poteri, mal propenso ad un ampio utilizzo della delega, e quindi, di conseguenza, non troppo utilizzatore delle potenzialità a lui offerte dallo strumento dell’autonomia». «5.2 – I Dirigenti osservati invece si caratterizzano per una capacità (leggi: obbligo) di ricoprire differenti ruoli a seconda della situazione in cui si trovano e dalla persona che hanno di fronte. La figura del Dirigente Scolastico mi appare così come una matrioscka, all’interno della quale vi sono tanti altri personaggi che vengono di volta in volta “recitati” da un soggetto multitasking, pur non avendo, in generale, né le competenze né il dovere di farlo».

Il mondo della scuola italiana, a giudizio di chi lo considera al limite del precipizio, deve esprimere un caloroso ringraziamento alla Fondazione Giovanni Agnelli, e in particolare al Presidente Andrea Gavosto e al Sociologo Massimo Cerulo, per aver realizzato e pubblicato, con indubbia tempistica, una scrupolosa ricerca sulla riforma battezzata “Buona Scuola” (Legge 107/2015), con specifico riferimento alla parte più indigeribile di essa: l’invenzione, contestatissima nelle aule e nelle piazze, del “preside-Manager”, dotato del potere di assunzione degli insegnanti e di valutazione (ai fini delle conferma o meno) del loro operato. Tanto più meritevole, la Fondazione, in quanto è espressione tra le più rilevanti dei vertici del mondo industriale italiano, e quindi favorevolissima all’adozione anche in Italia del sistema scolastico inglese, e quindi alla funzione pienamente dirigenziale del preside adottata anche dall’attuale governo italiano. Per quanto riguarda però i criteri realizzativi, la Fondazione si è premurata di accertare, con una propria iniziativa ovviamente di carattere scientifico, la corrispondenza delle competenze culturali e operative dei presidi italiani ai criteri educativi di ispirazione britannica. Il fatto che detta corrispondenza sia risultata nulla, e che nel contempo non sia stata registrata alcuna pubblica riflessione sull’inatteso divario di formazione e competenze tra i presidi italiani e quelli d’Oltremanica, ci prepara, con ogni probabilità, ad unica e già collaudata prospettiva: ulteriore fasi di disorientamento e di impoverimento dell’attività scolastica.

Il deficit di potenziale educativo di questa Italia è imputato da tempo, e con progressiva pervicacia, agli insegnanti. L’introduzione di presidi ulteriormente e indebitamente graduati, e quindi ulteriormente isolati dagli insegnanti, non potrà che acuire le situazioni di smarrimento all’interno della scuola. Da dove ripartire per salvarla? Possiamo consentirci, in chiusura, soltanto un accenno alla chiamata in causa di quanti si stanno nascondendo in vergognosi silenzi. A cominciare dai sindacati, indispensabili nella scuola come in tutti i posti di lavoro, ma che su di essa hanno esteso i loro poteri fino a sottrarla ai processi di sviluppo culturale e professionale realizzati in altri paesi europei. Alle elite culturali, troppo ammalate di individualismo e di congreghe per adeguarsi all’idea che la modernità di un paese comincia dalla crescita dal basso. Ai pedagogisti, che al contrario dei loro colleghi di altri paesi, non mettono mai piede nelle scuole per alimentarne il potenziale educativo. Alla stampa che, piccola o grande – ma più vergognosamente la seconda – si avvale di esperti di ogni settore produttivo tranne uno: la scuola. Ai politici, nessuno dei quali, da tempo immemorabile, si occupa seriamente degli ormai mastodontici e improduttivi (a livello personale) problemi scolastici: se almeno uno di loro lo facesse, ce ne saremmo accorti, perché avrebbe avvertito i colleghi che sì, in Inghilterra il preside conta molto, ma anche gl’insegnanti, che da secoli si avvalgono di aggiornamenti, di autonomia professionale e di adeguati stipendi, mentre l’insegnante italiano è arrivato all’autonomia professionale soltanto in questo secolo, nessuno gli ha assicurato gli strumenti professionali adeguati, e resta inchiodato ad uno stipendio infame. Lo stesso parlamentare potrebbe perfino citare una radicata tradizione francese: l’attività dei docenti è seguita da ispettori delle singole materie, al preside spetta l’amministrazione dei servizi della sede scolastica. 

 


 

 

 

Ministro Giannini

SCHIAFFONI AL MINISTRO GIANNINI …

PER PROCURA?

Galli della Loggia: ma importa a qualcuno la scuola?

di Giorgio Porrotto

20/11/2015

 

   In data 6 novembre 2015 Ernesto Galli Della Loggia, il più combattivo e poliedrico degli opinionisti del Corriere della sera, ha dedicato alla scuola italiana un articolo tanto risoluto, documentato e apertamente accusatorio, quanto centrato su una sottilissima, quasi impercettibile ma rilevante sorpresa: non dedica una parola, nemmeno un accenno o un sottinteso, alla riforma della così detta “Buona Scuola” (approvata in toto ma in fretta e destinata, stando ad esperti di provata prudenza, a risultare il provvedimento più arretrato e quindi più discutibile tra quelli assunti dal governo attualmente in carica). Tanto silenzio a tal proposito non può non far pensare.

   L’intento dell’articolo sembra avere un solo obiettivo: denunciare l’inaccettabilità della scuola italiana, in crisi progressiva “Da almeno due o tre decenni”. L’autore punta il mirino su una scuola che vorrebbe vedere rinnovata alle radici, per tutte le falle anche aberranti che presenta. Ma non sa, e nemmeno dimostra di voler sapere, come effettivamente la trasformerà il governo, che ne sta completando in silenzio la riforma. Denuncia esempi di situazioni scabrose e ne profila il rovesciamento, con acume. Ma rischia di aver studiato a fondo problemi di elevata rilevanza politica – perché la politica scolastica esiste, anche se in Italia non se ne fa uso – per esaurirne l’eco in una pagina solitaria, come in effetti sta accadendo sulla grande stampa. E infatti: quanti altri sono gli opinionisti disposti e capaci di occuparsi debitamente della scuola?

   Non c’è da meravigliarsi della preoccupazione e dell’indignazione con cui GdL guarda e riflette sulla scuola d’oggi. Che vive con tutti i difetti su cui la si è lasciata inesorabilmente indebolire, e quindi sbandare, sì che è ridotta a vivere di obiettivi pedagogici e culturali al tramonto, e può specchiarsi con qualche soddisfazione soltanto nelle aule delle elementari; che è da tempo rassegnata a non lamentarsi della sua scarsa rilevanza sociale, della sua esclusione dalla modernità, e dello scarso credito che la umilia agli occhi dell’utenza. Che a sua volta – genitori in testa, sempre più spesso – abbisogna di non poche lezioni di educazione civica. A dir poco.

   La requisitoria dell’autore prende le mosse da una constatazione gravissima e incontrovertibile, ma non riferibile specificamente alla scuola: “l’Italia appare sempre più spesso un paese di ladri e di truffatori”. Però il coinvolgimento del mondo scolastico spunta subito dopo, e risulta vincolante, a dismisura: “… la scuola – stante il forte indebolimento dell’istituto familiare, dell’influenza religiosa e la fine del servizio di leva – è divenuta da molto tempo l’agenzia primaria se non unica del disciplinamento sociale degli italiani: con esiti che sono sotto gli occhi di tutti”. Segue, subito dopo, l’impietoso contraccolpo di una rassegna delle insufficienze disciplinari in ambito scolastico: è così realistica e impietosa che qualsiasi ispettore esiterebbe a firmarla; ma che gli insegnanti si trovano, di fatto e sempre più apertamente, a subire. E in rassegnato silenzio. Soprattutto per non aggravare la perdita di una dignità già così logorata – è proprio il caso di aggiungere – di decennio in decennio dall’umiliante trattamento retributivo.

   Nel titolo (CHE ERRORE IGNORARE LA SCUOLA – COSÌ SI ROVINA L’IDENTITÀ DEL PAESE) e nel sottotitolo (DERIVA – Le promozioni d’ufficio e le offerte didattiche modaiole impoveriscono la formazione delle nostre generazioni – Uno svilimento dannoso) l’autore sembra interessato esclusivamente agli orientamenti educativi in chiave classicistica, per tradizione italiana. Poi però prendono campo le sue doti di acuto osservatore dei livelli comportamentali, la sua capacità di prevederne gli effetti futuri. Torna all’improvviso ai compiti trasferiti alla scuola da “famiglia, chiesa e caserma” e si chiede: «Ma importa a qualcuno di come la scuola riesca ad adempiere il ruolo descritto?»

Nel testo la risposta è ampiamente argomentata, ma qui basta un “no”, ovviamente a carico del ministero. Analoghe domande e analoghe risposte si susseguo con motivazioni ora più spicce, ora più dettagliate, in riferimento alla non costruzione sociale degli italiani, alla frequenza di abolizioni di fatto della disciplina, all’anticipato ingresso degli insulti e delle minacce nelle Medie, alla ostinata protezione genitoriale del “cocco di casa” che è anche teppista. Un buon tratto di pagina è dedicato all’ormai trentennale silenzio-assenso del ministero sulla promozione d’ufficio nei tre anni della Media, e ai livelli di incompetenza di chi, si fa per dire, ne è “beneficiato” (da citare, a conferma, Tullio de Mauro sui livelli nostrani di dealfabetizzazione di ritorno). Durissimo il finale sulle scuole-sottomercato: raccattano iscrizioni con offerte formative inconsistenti ma attraenti per genitori e figli, e discriminano tacitamente gli alunni che non garantiscono prestigio; chiudono anche un paio d’occhi nello scrutinio finale per non perdere il rinnovo dell’iscrizione di un insufficiente cronico.

   Rimangono da citare due elementi attrattivi di cui tener conto. Il primo: è brevissima ma demolitrice la definizione – “famigerata” – che l’autore fuggevolmente appioppa alla “Autonomia scolastica” (articolo della Carta Costituzionale di cui “Occhio alla Penna” si occuperà prossimamente). Il secondo: la chiamata in causa della Onorevole Ministro Giannini a proposito della fallimentare gestione dell’attività scolastica. “… di ciò che costituisce la vita concreta degli istituti, dell’effetto delle regole adottate, dei rapporti degli insegnanti con le famiglie e con gli alunni … di quanto essa (scuola) riesca davvero a insegnare, non sembra che importi quasi nulla a nessuno … Anche il ministro Giannini ho il sospetto che di tutto questo si occupi e sappia pochissimo …”. Oppure: “Mi chiedo se il ministro Giannini sia consapevole di ciò che un gran numero di insegnanti potrebbero confermarle: e cioè che oggi termina la scuola dell’obbligo un grandissimo (insisto: grandissimo) numero di studenti incapaci di scrivere correttamente in italiano, di fare il riassunto di un testo appena complesso, di risolvere un pur non complesso problema di matematica ”.

Resta una curiosità: è imminente oppure no un intervento di GdL sulla “Buona Scuola”? Se sì, a chi andranno le eventuali riserve del risoluto opinionista sul nuovo sistema scolastico, stante il fatto che a presentarlo, a esaltarlo e a difenderlo ha provveduto il Presidente del Consiglio con tanto di buon riposo del ministro dell’istruzione? Ci saranno e a chi andranno i nuovi schiaffoni? 

 

 


 

 

 

 

 


 


la buona scuola

Ma in Italia no,

                         in Italia non si può


di Giorgio Porrotto

28/10/2015


Quel che segue è il testo integrale di una lettera inviata a la Repubblica dal giornalista veneto Giuseppe Barbanti, e pubblicata dalla stessa in data 8.10.2015, nel taglio di pagina riservato ai commenti dei lettori. Il titolo – non importa se redazionale o dell’autore – è d’immediata attrazione: “Perché festeggiare la giornata dei prof”. Soprattutto perché in evidente contrasto con la malasorte che sta accanendosi sulla scuola italiana.

In diversi paesi del mondo un giorno dell’anno è dedicato alla festa de­gli insegnanti. Una ricorrenza laica, destinata a manifestare l’apprezzamento di allievi e famiglie nei confronti degli insegnanti per il contributo che danno alla crescita degli studenti e della società. In Italia non c’è mai stata una ricorrenza del genere, nemmeno quando gli inse­gnanti godevano di una accettabile considerazione sociale. A metà anni ’90 l’Unesco ha individuato nel 5 ottobre la Giornata degli insegnanti, celebrata in Italia in sordina. L’Unesco e le Nazioni Unite sono consape­voli della necessità di “aumentare l’offerta di insegnanti qualificati”. In Italia, purtroppo, qualsiasi discorso sull’argomento invece che unire di­vide. Assimilati al resto della pubblica amministrazione, gli insegnanti sono sempre più percepiti come un costo a carico del bilancio pubblico. Mai nessuno che faccia il conto di vantaggi e benefici che la società ri­trae da quanto fanno. Certo trascorrono anni, a vote decenni, per ve­derli. Ci vorrebbero proprio politici-statisti che non guardano alle pros­sime elezioni, ma al futuro dei nostri figli e nipoti”.

“Occhio alla penna” si occupa della lettera con deliberato ritardo, avendo ritenuto probabile, inizialmente, che un articolo di così sana pianta – e rivolto alla fuoriuscita dal clima di scontri parapolitici im­perversanti da mesi sulla scuola – avrebbe suscitato interventi di altri lettori di la Repubblica. Si è affermato invece, e dura tuttora, il totale silenzio sia dei lettori sia, ed è ancor peggio, del quotidiano, che ha proceduto alla pubblicazione del testo senza cogliere l’opportunità – che sistematicamente assicura alle lettere di maggior significato – di un ampio commento.

E però la lineare e pacata denuncia di Barbanti resta, in tutta la sua verità. In poche righe, lascia al lettore il compito di misurare l‘inaccettabile distanza tra, da una parte, la scuola affidata a insegnanti qualificati culturalmente e professionalmente, e sempre in via di ulte­riore professionalizzazione secondo le indicazioni di studi internazionali, e, dall’altra parte, il governo della scuola che blocca la carriera degli insegnanti a bassi livelli amministrativi. Non solo: li degrada socialmente in tutta la carriera non prendendo mai atto di quanti, e sono di solito la maggioranza, manifestano impegno e cultura. Questo pesante confronto implica la chiamata in causa, per chiunque si avvicini al dramma della scuola italiana, delle due opposte linee politiche che hanno caratterizzato la storia della scuola in Europa dalla fine della seconda guerra mondiale ad oggi.

La “giornata dei prof”, là dove viene celebrata, altro non è che l’esito simbolico di una politica scolastica centrata – non senza difficoltà e contraddizioni, ma in continuo sviluppo – sulla costante crescita professionale, e quindi sociale, e quindi economica, dei docenti. Alle origini di questa scelta c’è la svolta della democrazia educativa sancita, nel 1948, dall’articolo 26 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo “Ogni persona ha diritto all’educazione … L’educazione deve mirare al pieno sviluppo della persona umana…”. Hanno fatto seguito, dalla seconda metà del 1900, il Rapporto Faure, il Rapporto DelorsLa testa ben fatta di Morin, per citare alcuni degli ulteriori sviluppi in stretta coerenza con l’idea di una scuola fondata, essenzialmente, sul rapporto culturale ed educativo tra docenti e discenti; e meno, molto meno, sui controlli di ruoli e funzioni.

La scuola italiana (con l’eccezione semimiracolosa dell’elementare) è invece vissuta, in pratica dal 1861 al settembre scorso, di programmi ministeriali da rispettare secondo norma di legge, e in esclusiva. Meno tassativi ma non incisivi quelli della media inferiore, tassativi ma sempre meno attrattivi quelli della media superiore, da tempo spogliati tacitamente di alcune materie di contorno. Non è mai stata fatta una ricerca di Stato sull’attuale possibile efficacia culturale ed educativa delle discipline ancora centrali ma volute da Gentile, ereditate da Casati e ispirate alla gesuitica Ratio Studiorum. E tutto questo accade in un mondo ormai capace di ottenere o disfare ad oras gli esiti di grandi ricerche scientifiche, pronto a cedere alla finanza il barometro delle scelte politiche mondiali, capace di organizzare scambi di intere popolazioni … e di assistere indifferente ai tentativi di evoluzione di una chiesa cattolica fondata sulla sacralità del suo bimillenario potere politico. Ma in Italia il vincolo all’arretratezza più forte è ancora il precariato, e cioè l’assunzione di personale scolastico a dismisura, e congegnato dall’intesa tra governi e sindacati per evitare a suo tempo un prolungamento del sessantotto. Significative le assunzioni in corso. Anche se l’errore di partenza fu l’incapacità dei governi italiani a indurre la galassia delle piccole imprese a fondersi per assumere. Non è dunque un capriccio della malasorte se da questo stato di cose stiamo per trovarci, a breve, a subire una scuola calata ulteriormente nei suoi cupi scalini, e beffardamente definita “Buona Scuola”. La crescita professionale non sarà collettiva ma individuale, verrà riservata a pochissimi e mirata ad una paghetta aggiuntiva. La scelta degli orientamenti educativi di ogni classe non sarà determinata dalle competenze degli insegnanti, ma dalla mediazione con i genitori, e nelle superiori anche con gli studenti. Al controllo e alla valutazione dell’operato dei singoli docenti dovrà provvederà il preside, che, per assicurare a docenti, studenti e famiglie valutazioni formulate con un minimo di competenza specifica, dovrà limitarsi ad aprire il registro di una sola materia: quella che insegnava. Insomma, non c’è speranza che in Italia si festeggi la giornata dei prof.

Barbanti ci lascia un dubbio solo: la sua invocazione ai “politici-statistici, che non guardano alle prossime elezioni, ma al futuro dei nostri figli e nipoti”, risulta recepibile soltanto dal Buon Dio. I giornali ci stanno infatti dicendo, da giorni, che i tassi di corruzione nel nostro paese sono così alti, e di numero e di rango sociale così pesanti, da annichilire anche i “politici-statistici” di fede certa. 

 

 

 

 


 Il sindacato dello sconforto

di Giorgio Porrotto

17/09/2015


  GIULIA – Come nel detto ”O piove o tira vento o suona a morto”?

  BRUNO – Ma con un pizzico di fiducia in più. 

  GIULIA  E però, a sindacati defunti, o anche soltanto emarginati, potrebbe davvero reggere un paese moderno?

 BRUNO  Il problema non è il sindacato in quanto istituzione, indispensabile sempre, ma l’insieme di particolarità del sindacato dell’istruzione, una sorta di orologio fermo.

  CELSO  È incapsulato in una normativa sindacale omologata ad al­tri settori, e quindi risulta sostanzialmente esterno alle problematiche specifiche dell’attività di insegnamento. Di conseguenza non si rap­porta, o per meglio dire, non è in grado di rapportarsi alle correnti di pensiero, interne od esterne alla scuola, capaci di proiettarla verso la modernità. I processi evolutivi che dagli anni sessanta e settanta hanno trasformato, pur con contraddizioni e comunque con difficoltà, gli obiettivi, le logiche e la portata dell’azione pedagogica di altri paesi, non hanno sostanzialmente sfiorato la nostra scuola. Il sindacato ha avuto il grande merito di aver favorito, al momento del miracolo economico, il passaggio da una scuola d’elite alla scuola di massa. Ma ha anche il demerito di averne ostacolato, fino ad oggi, le prospettive di modernizzazione. Mentre l’ONU assicurava l’istruzione in tutto il mondo, l’evoluzione incalzante della scienza allacciava tutto il mondo alla modernità, ma non la scuola italiana, per pochezza ed inerzia della politica che la governa. E il sindacato? Cosa ha fatto di nuovo il nostro sindacato scuola all’alba del duemila? Le RSU. Verrebbe da ridere, ma non possiamo: è proprio l’aver condannato la scuola alla stasi e all’isolamento, a dispetto di un mondo che si evolve senza tregua, è proprio questo vincolo all’arretratezza che ha fatto nascere la brama di un insegnamento padronale e familistico come quello della “Buona Scuola”.

  GIULIA – E però una qualche speranza ha pur da esserci!

  BRUNO  Hai ragione, ma per indovinare un rimedio dobbiamo ripartite dai profondi cambiamenti mancati. Operazione quasi sempre evitata, nella tradizione scolastica italiana. Cominciamo dalla famosa legge Malfatti, 477 del ’73. Prevedeva da parte del docente non solo la trasmissione della cultura, cioè dei sempiterni programmi ministeriali, ma anche – e sto per leggerti una strepitosa innovazione – “il continuo e autonomo processo di elaborazione di essa, in stretto rapporto con la società, per il pieno sviluppo della personalità dell’alunno nell’attuazione del diritto allo studio”. Doveva essere il primo passo verso l’introduzione delle scelte decisionali autonome del docente, e cioè verso la sua autonoma professionalità: principi, questi, assunti nei paesi più preparati, e raccomandati dal famosissimo RAPPORTO FAURE. E si impose come appello mondiale per guidare la persona alunno ad “apprendere se stesso”, perché – come sancì la DICHIARAZIONE UNIVERSALE DEI DIRITTI UMANI, emanata dall’ O.N.U. nel 1948 – “Ogni persona ha diritto all’educazione”, e “L’educazione deve mirare al pieno sviluppo della persona umana”. Una bomba, agli occhi di tutto il personale scolastico nostrano.

  DELIA  Tant’è vero che non la si fece esplodere.

  BRUNO  Infatti i decreti delegati attuativi della legge, sciagurata­mente concordati con i sindacati, hanno trasfigurato la legge in questi termini: La funzione docente è intesa come esplicazione essenziale dell’attività di trasmissione della cultura, di contribuzione alla elaborazione di essa”. Il “continuo e autonomo ruolo di elaborazione” previsto dalla legge per l’insegnante, venne così ridotto a generica e indefinita “collaborazione”. Cioè, in pratica, a niente. Il tutto nel più totale silenzio dell’inclita platea culturale italiana.

  DELIA  – Udite, udite! Ho trovato in internet un documento di appena un anno fa dedicato dalla CISL alla Legge in questione. Ve lo leggo:”Celebriamo il 41° compleanno della legge 30 luglio 1973, n. 477 … da allora un termine giuridico (“decreti delegati”) fu assunto nel linguaggio comune … con cui s’introduceva nella scuola statale italianala rete degli organi collegiali … destinati … all’irruzione del “sociale”“. Ed eccovi ora la prova di quanto e come i sindacati – uno per tutti, come fin troppo bene sappiamo – non riescano, a distanza di oltre quarant’anni, a riconoscere i loro errori madornali. In realtà le leggi … toccavano molti altri aspetti della legislazione scolastica (dallo stato giuridico del personale all’aggiornamento e alla spe­rimentazione) … Ma non c’è dubbio che il tema della democrazia scolastica … fu centrale nel dibattito di allora e lo rimane ancora oggi…”. 

  DANILO  – Vi prego, colleghi, usciamo dal passato remoto e discu­tiamo sulle vicende che ci hanno portato direttamente alla dispera­zione odierna. Alla fine di secolo e millennio era in ballo, per gli inse­gnanti, non la citata “contribuzione alla elaborazione della cultura” del 1973, ma niente di meno che il Regolamento di applicazione dell’Autonomia scolastica, introdotta da una Norma Costituzionale. A bocciare il vituperato Concorsone”, e di riflesso l’applicazione dell’autonomia, è stato il corpo docente. È pur vero che molto ha con­tato, in quel sciagurato fallimento, il silenzio più che mai complice e mai smentito dei sindacati. Ma la decisione spettava a noi e soltanto a noi, e abbiamo votato uno sciagurato “no”. Da allora, solo disastri in crescita. Prima la reincarnazione della Ratio Studiorum dei Gesuiti, ca­polavoro della Moratti. Poi, nei sei anni di finta tregua della Gelmini, ecco il Progetto Aprea, mai propagandato per impedirci di denunciarlo come atto dispotico: consentiva ai genitori di arruolare insegnanti di loro gusto. Alla Camera fu addirittura approvato all’unanimità, al se­nato venne fortunosamente bocciato, ma poi riuscirono a peggiorarlo fortemente e ad imporlo con il nome di “Buona Scuola”. La quale, dun­que, è figlia dei nostri errori. I sindacati ne sono solo comunque gli zii.

  OSCAR    – Ringrazio per l’invito e la possibilità di intervenire. Per ragioni di tempo, o per incompletezza di informazione, non sono probabilmente in grado di affrontare con la dovuta competenza i tanti temi, tutti rilevanti, su cu cui ho ascoltato i vostri orientamenti. Che le linee di politica scolastica seguite dalle confederazioni, ora concordemente, ora con divergenze più o meno rilevanti, vadano rimesse in discussione anche spietatamente, è, più o meno a parere di tutte le sigle sindacali, scelta scontata. Ma non posso non raccomandarvi – in questa fase improvvisa di tensioni estreme all’interno del mondo politico, e di riverberi di esse a danno del mondo sindacale, in alcuni casi addirittura vituperato – non posso non raccomandarvi, ripeto, una tenuta di fiducia nelle rappresentanze della nostra categoria. Rimproveriamoci a vicenda finché ne abbiamo bisogno, non per sfogo umorale o per rivalsa, ma per far valere i nostri convincimenti in termini di sintonia o quanto meno di compatibilità. Ricordiamoci di rafforzare in noi stessi quel che pensiamo di poter o dover insegnare ai nostri alunni. Vedete, vi confesso che è la prima volta che mi capita di ricorrere ad allarmi così insistiti. Non è retorica, è sana paura politica. Ricordiamoci allora, per vincerla, ciò di cui siamo stati capaci. E quindi, prima di tutto, che è stato storicamente riconosciuto ai sindacati, e più precisamente ai sindacati-scuola appena sorti, l’aver garantito all’Italia i due miracoli del dopoguerra, la travolgente scolarizzazione di massa e, in virtù di essa, la sorpresa del connesso “miracolo economico”. Così come, dal sessantotto e per almeno una dozzina d’anni, i sindacati scuola hanno contribuito a metà del secolo scorso, d’intesa con i vertici dell’amministrazione scolastica nazionale, ad allentare la morsa della disoccupazione giovanile. Scongiurando così, con ripetute forme di assunzioni, il pericolo di reazioni di massa non controllabili. Nessuno, prima d’allora, si era aspettato dal sindacalismo scolastico interventi rivolti a lenire pesanti disagi di massa. E ricordiamoci la storia della riforma generale della scuola, che ha attraversato quasi tutta la seconda metà del secolo scorso ma senza alcun approdo, al punto da evocare a pieno titolo l’En attendant Godot (G. Balduzzi e V. Telmon, 2002). Sindacati e docenti, per non trasformare lo spettacolo in un sordido Mistero buffo, hanno lasciato presto le proteste di piazza ai soli studenti. Ora invece ci aspettano tempi durissimi, molto più insidiosi perché la lotta per il potere richiama apertamente la logica del “fine che giustifica i mezzi”. Abbiamo bisogno, sindacati e docenti, di parlarci e di capirci prima che sia troppo tardi. Non esitiamo ad affrontare il peso degli errori di ieri, cerchiamo di sostituirli con maggiore competenza e tanto coraggio. Ricordiamoci che la scuola è una grande forza e non deve essere umiliata. Ce ne danno un esempio gli attuali esodi dei popoli d’Africa e del Medio Oriente, difformi dai precedenti non certo per riduzione di tragicità ma per una nuova destinazione di fuga: l’Europa. Chi ha aperto la strada verso di noi a popoli trucemente inchiodati da sempre alla miseria e alla schiavitù? L’ONU, l’Unesco, l’art. 26 della DICHIARAZIONE UNIVERSALE DE DIRITTI DELL’UOMO, a cominciare da quello dell’istruzioneVale a dire quella strada della qualità di un sapere che non smette di crescere affinché non si smetta di capirci. 

  VIRNA – Anch’io ho appena applaudito OSCAR, anche se inutilmente. Sul “Concorsone” votai a favore come Danilo, e lo rifarei subito. Dis­sento invece da lui quando considera perdita di tempo i riferimenti alla legge del ’73 e alla mancata svolta innovativa a favore della fun­zione docente. Vedi, se il testo non fosse stato castrato dai sindacati al momento della definizione dei decreti delegati, oggi saremmo qui a di­scutere del “continuo e autonomo processo di elaborazione e di trasmissione della cultura,in stretto rapporto con la società, per il pieno sviluppo della personalità dell’alunno nell’attuazione del diritto allo studio”. Discuteremmo su temi sempre più complessi, sul prepararsi all’autonomia professionale, e sui canoni di aggiornamento. Se oggi rimaniamo estranei a logiche di questi tipo,e alle prospettive disegnate da Rapporto Faure,da Delorsecc, e se poco o nulla abbiamo in comune con le scuole del mondo avanzato, la ragione sta nella diffe­renza tra quanto, in un quarantennio, hanno fatto altri e non noi.

  ELEONORA  Mi consenti un’aggiunta al tuo dire? La scuola non ha bisogno di raccomandazioni che a priori la qualifichino “Buona”. Il di­ritto di tutti i cittadini alla scuola e alla sanità è la grande conquista sociale del Novecento. E la scuola ha i suoi cardini, qualcuno qui lo ha già accennato, nell’obiettivo della formazione della persona, che di per sé è un unicum. Esattamente come la cura del medico. La scuola vera affida pertanto gli allievi agli insegnanti affinché ne individuino, distin­tamente, potenzialità, inclinazioni e problemi. La scuola a cui dob­biamo aspirare – e che altrove è in cantiere, in continuo cantiere – vede ora in collettivo, ora in incontri distinti, alunni e insegnanti im­pegnati a favorire e intensificare l’attività di apprendimento. Ed è ov­vio che assicura agli insegnanti corsi di aggiornamento, iniziative di ricerca e l’assistenza di qualificati esperti professionali, in rapporto con le università, per i casi difficili come per le innovazioni. Nei paesi in cui ai docenti si assicura costante crescita di competenze, al preside non è data competenza alcuna sull’insegnamento. E per i genitori? Un ricco pacchetto informazioni.

  GEO – Il declino ininterrotto della scuola italiana è addebitabile sia al governo sia ai sindacati, ma le scelte decisionali che contano, anche se concordate tra i due soggetti, possono essere proposte alla ratifica del parlamento soltanto dal governo. E siccome governi e legislature passano e cambiano in pochi anni e il sindacato invece no, almeno in Italia, è a quest’ultimo che spetta incassare anche colpe e meriti degli altri protagonisti. Così è capitato per l’ondata di scolarizzazioni al momento del “miracolo economico”, così è ricapitato per il dirompente reclutamento dei reduci del “Sessantotto”, protetti e ispirati dall’intero parlamento, a sua volta incapace di fermare i sedicenti rivoluzionari. Arrivano poi gli anni in cui le attenzioni per la scuola da parte dei centri culturali, degli studiosi di fama e dei pedagogisti, iniziano ad afflosciarsi fino a sparire. Dopo lo schianto del Concorsone e della Legge Moratti la politica, sempre più scarsa di idee, di obiettivi e di credibilità, e sempre più ricca di personalismi e congreghe, considera i problemi della scuola, da cui non guadagna nemmeno voti, come pratica di solo fastidio.Una speranza? Che almeno il sindacato impari a rispettare i suoi limiti.  

 AMALIA – Mi avete affidato l’intervento di chiusura, ma ciò che di più utile io posso proporre è una domanda. Preceduta da due premesse. La prima riguarda la sempiterna mancanza d’investimenti per ridurre i fenomeni di forte deficit culturale, quali, ad esempio, il 30% di analfabeti di ritorno, i casi di obbligo scolastico mancati, la stranezza dei voti della maturità nel sud, gli abbandoni nella secondaria. La seconda riguarda il lato del tutto opposto della nostra cultura, e cioè i bilanci delle principali biblioteche nazionali: Firenze 2 milioni e Roma 1 e mezzo, contro i 254 milioni di Parigi, i 160 di Londra, i 52 di Madrid; acquisto libri: 120mila euro sia a Firenze sia a Roma, contro i 19 milioni di Parigi e i 19 milioni Londra. Aggiungiamo, sullo sfondo, il tramonto delle nostre librerie. Domanda: quanto e come la Buona Scuola potrà distinguersi da quei lugubri segnali di indebolimento culturale? E senza l’alibi dei vincoli sindacali?

Siccome possiamo essere ben certi che quanto dice solennemente la CISL vale, sfumature a parte, per CGL e altri, Ora possiamo dirci ben certi che, dopo 41 anni a 41 anni di distanza il sindacato continua a ritenere gli organi collegiali, le assemblee e gli affollamenti genitoriali – riti formali scaduti da decenni - piuttosto che l’incremento costante della professionalità e dei poteri decisionali dei docenti in funzione del pieno sviluppo della persona umana di ciascun alunno (come accade nei paesi ad aggiornato livello educativo).  

 


 

 

MAL DI STAMPA

di Giorgio Porrotto

15/07/2015

 

 

         Ai nostri quotidiani nazionali va riconosciuta buona fama, ma anche una solitaria e bizzarra incapacità di interpretare il rapporto tra il potere politico e il ruolo dell’istituzione scolastica. Ultimi decenni del novecento: la stampa si occupava delle vicende dell’istruzione soltanto per regalare pagine e pagine di “scuola spettacolo” alle ricorrenti scenate di piazza degli studenti, che reclamavano senza conoscerle le riforme da ogni parte promesse e da nessuno realizzate. Dodicennio a cavallo dei due millenni: entra nella Costituzione l’autonomia scolastica, e si susseguono due riforme (Berlinguer e Moratti) contrarie in tutto e per tutto fino a scomparire entrambe; la stampa non riesce a spiegare l’estrema gravità dell’accaduto. Ultimo settennio: governo e parlamento tardano ad applicare la recente norma costituzionale che prevede l’introduzione dell’autonomia degli  istituti scolastici: il caos che ne consegue nell’organizzazione degli insegnamenti viene addebitato dall’utenza – alunni e genitori – agli interlocutori più visibili, gli insegnanti. Da qui il gran salto della politica, che è vergognosamente incapace di governare ma diventa luciferina nel salvarsi: la “Buona Scuola” risulterà tale nella misura in cui riuscirà a riversare sugli insegnanti, integralmente e definitivamente, la responsabilità di tutti i fallimenti del potere politico. Ma di questo serpentino rovesciamento di rapporti tra potere politico e competenze culturali, la stampa non pare si sia ancora accorta: le bastano, per i suoi compiti, i contributi di cronisti generici o, in via eccezionale, di consulenti del lavoro.

         Di recente, l’occasione per dedicare all’istruzione livelli di maggior attenzione, la stampa l’ha avuta il 9 luglio scorso (il 10 in edicola), con l’approvazione definitiva della Buona Scuola, e formalmente non l’ha perduta. Ma come? Il GIORNALE riassume in mezza pagina (titolo “Scuola, passa la legge tra fischi e proteste: nel Pd si sfilano in 29”) tutto quel che ha da dire, seppellendo abilmente la indiscutibile coincidenza di obiettivi tra la nuova legge e il ddl Aprea di berlusconiana fattura. Il tema non è la scuola ma la politica nuda e cruda anche per il gemello LIBERO, in linea col Giornale. Idem per IL FATTO QUOTIDIANO, pur di opposto schieramento: s’occupa solo del passaggio dei Verdiniani alla maggioranza. Un’illusione di svolta s’affaccia su IL FOGLIOche apprezza la linea della riforma ma non crede alla rapidità dei risultati, e poi s’interroga sui possibili nuovi sviluppi, ma ci nasconde la risposta. LA STAMPA (due paginoni) va oltre il dettato ministeriale con alcune righe sulla trasfigurazione del preside: a quale altro dirigente amministrativo è stato imposto il ruolo di plenipotenziario culturale in oltre dieci discipline? LA REPUBBLICA (idem) si occupa prima delle diversità di voto del P.D., poi delle future divergenze interne al P.D. sulla scuola viste da Renzi, poi delle stesse divergenze viste da uno degli oppositori di Renzi. IL MANIFESTO e L’AVVENIRE sono da associare perché da sponde ideologiche opposte, ma parimenti presidiate con rocciosa coerenza da decenni e decenni, esplicitano, diffondono e difendono i loro credi educativi. Ma con opposta fortuna e ben diverse alleanze: le istanze di L’Avvenire in campo educativo coincidono da sempre con gli ambienti culturali e politici del conservatorismo tradizionale, e oggi con la politica scolastica di governo; le istanze culturali ed educative de Il manifesto, pur largamente diffuse e comunque difficilmente ignorate, sono spesso declassate dall’antica convergenza con le tradizioni stantie del sindacato in campo scolastico. Il CORRIERE DELLA SERA (in ritardo di un giorno, per sciopero) offre una rassegna delle nuove strutture organizzative del servizio scolastico diversa da quelle degli altri giornali, solo perché non caotica. L’UNITÀ (stesso giorno) annuncia a tutta pagina “Sulla scuola parte la campagna d’estate del PD”. Il testo promette “cento appuntamenti in cui i parlamentari del PD incontrino gli addetti ai lavori per spiegare il provvedimento e affrontare le contestazioni”; nel resto del vistoso foglio non si parla di scuola. Il quotidiano più coraggioso e filtrante in materia? METRO, gratuito.

         Il diritto a scuola e sanità è, nel mondo, la grande conquista civile del ’900. La sanità pubblica italiana è ben classificata a livello internazionale, tanto i medici risultano preparati (e pagati). I livelli della professionalità docente si distinguono invece, rispetto al trend europeo, per l’assenza di aggiornamenti professionali sistematici, per i bassi livelli retributivi, e si distingueranno, prossimamente, per una radicale riduzione dei poteri decisionali d’ordine didattico, oltre che per l’introduzione, altrove impensabile, di premi saltuari. E il preside della “Buona Scuola”? Da insegnante e da dirigente amministrativo non ha mai avuto bisogno di un’idea di scuola da imporre agli altri; ora si sentirà sicuro soltanto se gli verrà dettata. La stampa? Zitta e mosca. 

 

 

 


 

 

Italia sua

di Giorgio Porrotto

20/06/2015

 

            Il Corriere della sera di Lunedì 8 giugno 2015 ha dato largo spazio ad Attilio Oliva, meritoriamente: nelle frequenti conferenze dell’Associazione TreeLLLe, di cui è presidente, ha anticipato addirittura il governo nell’indicare i presidi come unici possibili redentori delle scuole italiane. Che hanno bisogno, tutte e subito, di essere liberate da un orrido peccato: “nessuno…sa cosa vi avvenga”. Di conseguenza quasi tutto l’articolo incalza i lettori a ritenere che la priorità assoluta della scuola italiana sia un’adozione ininterrotta di controlli. Niente di male, se non fosse che dei controlli Oliva propone versioni vaghe, ossessive e impositive. Perché, invece, non tenta di capire se un preside, già docente di matematica, possa avere le cognizioni necessarie per valutare le competenze di un docente di italiano impegnato, toto corde, nelle varianti di linguaggio e di temi con cui Dante passa dal “Purgatorio” al “Paradiso”? Perché non tenta di capire se un preside già docente di filosofia possa valutare le lezioni di un docente di fisica alle prese con la meccanica quantistica? Perché la sua insistenza sui controlli fa da copertura ad un obiettivo ben più vincolante, ma accennato nell’articolo soltanto così: «La scuola non appartiene a chi vi lavora, ma alla comunità civile nel suo insieme”. Dove la “società civile” risulta poi essere, nella “Buona Scuola”, la “famiglia”.  

            Questa idea della famiglia alla guida della scuola ha almeno due storie fortemente controverse. La innescò, nel tardo ’900, tra stupori e clamori, l’economista conservatore americano Milton Friedman, fautore dei poteri genitoriali sull’istruzione. Ne conseguì la nascita delle Charter Schools, istituti finanziati dallo Stato ma gestiti in appalto dalle famiglie, direttamente o per agenzie. Se ne previde un trionfo mondiale, che non ci fu: «i sistemi scolastici statunitensi sono stati in grado di … resistere alla sfida”, e «il modello delle Charter Schools non si è rivelato contagioso” (Norberto Bottani, 2013). La seconda è l’eco italiana della vicenda USA: immediato l’entusiasmo di CL e ora - dopo il tonfo della Riforma Moratti e dopo una serie di DdL (detti Aprea) risalenti alle Charter ma non fortunati - ecco la solenne riesumazione di quei DdL nella “Buona Scuola”.

            A chi appartiene la scuola? Si ricordi la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, adottata dall’Assemblea generale delle nazioni unite in data 10.12.1948: l’art. 26 dichiara, al punto 1, che “Ogni persona ha diritto all’educazione”, e al punto 2 che “L’educazione deve mirare al pieno sviluppo della persona umana”. È dunque l’unicità della persona in crescita l’ambito in cui l’azione educativa odierna deve essere espressa. L’autonomia scolastica dei paesi avanzati è funzionale, pertanto, al potenziamento e all’aggiornamento delle competenze con cui gli insegnanti possono garantire il libero sviluppo della persona/alunno. Gli insegnanti vengono infatti svincolati, in buona misura, dall’uniformità di programmi ministeriali, e sono supportati da aggiornamenti e da ricerche con cui adeguare i propri contributi di informazione e formazione alle esigenze di libera crescita dei singoli alunni. La scuola dunque risulta finalizzata a questi ultimi nella misura in cui gli insegnanti dispongono delle condizioni necessarie a tale scopo. 

            Esempi? Anche la scuola italiana, nonostante il buio drammatico della sua attuale identità, può suggerirne teoricamente qualcuno, come questo:

“1. … ai docenti è garantita la libertà di insegnamento intesa come autonomia didattica e come libera espressione culturale del docente. 

2. L’esercizio di tale libertà è diretto a promuovere, attraverso un confronto aperto di posizioni culturali, la piena formazione della personalità degli alunni.

3. È garantita l’autonomia professionale nello svolgimento dell’attività didattica, scientifica e di ricerca” (Decreto legislativo 16 aprile 1994, S.O. n. 297).

            Le scuole cui si riconoscono livelli elevati di attività sono quelle dei paesi che garantiscono ai docenti ruoli, autonomie e riconoscimenti di caratura professionistica. Sono gli stessi paesi che riescono – anche fra contraddizioni e ripensamenti – ad affiancare la scuola ai ritmi della modernità. In Italia nemmeno ci si chiede più perché la scuola superiore di secondo grado sia ancora fondata sulla riforma Gentile, a sua volta fondata sulla riforma Casati (senza il voto del parlamento in entrambi i casi), a sua volta fondata sulla Ratio studiorum dei Gesuiti del Seicento. Il problema di base è anche ma non soprattutto scolastico: l’accusa grava sulla nazione. Come del resto dimostrano sia le incredibili ipoteche imposte rovinosamente dai sindacati sull’istruzione, sia le arroganze parapolitiche di mamma e papà.

 


 

La scuola sotto palanche

di Giorgio Porrotto

27/05/2015


         Il giorno prima 
 

X - I punti forti del governo sono due: l’emarginazione dei sindacati, e la can­cellazione del divieto di donazioni alle scuole da parte dei genitori. Il primo è funzionale al secondo: un sindacato ridotto alla sola piazza è dimezzato, e la sua opposizione salta.

Y - Colpa anche di tanti altri – stampa, intellettuali, cantori della costituzione – che non sanno più difendere l’imparzialità della scuola di Stato. Perfino l’Opera Nazionale Balilla si vantava di tenere assieme i ragazzi di ceti diversi.
X - Fiato sprecato. L’Italia vanta primati mondiali di corruzione nel servizio pubblico, ed è invasa dal familismo amorale. Ricordi i presidi che ti spiega­vano come un Vussia imponeva loro il voto di maturità da assegnare al pro­prio figlio? Preparati alla moltiplicazione della scena a tutte le latitudini. 
Y - Vorresti dire che il JOBS ACT è stato sì presentato come atto di stima meritata nei confronti dell’imprenditoria industriale medio piccola, e come preludio ad uno scatto macroeconomico del paese, ma che ha anche a che vedere con la liberalizzazione delle elargizioni genitoriali alla scuola pub­blica? E perché?

X -  Perché al governo, per ottenere fiducia e consenso, basta piazzare nella platea dei genitori un simbolo del potere più invidiato. Per il resto, addomesticata la scuola, si vedrà. Tanto più che una ripresa industriale risolutiva è di là da venire proprio per le caratteristiche del nostro imprenditore medio o piccolo. Quante volte è stato invitato dalla sua stessa stampa a superare i limiti dell’azienda di famiglia? Giuliano Amato lo ha definito Bentley, perché col suo coraggio arriva soltanto all’acquisto di quell’auto. Perché non assume laureati? E perché deve sempre sollecitarlo  ad espandersi il governatore della Banca d’Italia? E tu non credi che, trascinata in questo clima, la scuola  si trasfigurerà?

Y –  Credo che genitori zelanti e piccolo-borghesi provvederanno a far valere nel Consiglio di Istituto le volontà, vere o presunte, di chi ha il cinque per mille più pesante. 
 X – Il resto è scontato.


         Il giorno dopo

Y– Il governo, prima della votazione in parlamento, ha ritirato la facoltà di destinare il 5 per mille alla scuola! 
X - Il governo ha poi anche fatto sapere che il 5 per mille alla scuola sarà ripristinato.

 

 


 

Indietro tuttaaa!!!

di Giorgio Porrotto

29/04/2015

 

   Nei crescenti rigurgiti di violenze riservate agli insegnanti da allievi e genitori, il Ministro Stefania Giannini rileva la rottura del Patto educativo tra famiglia, insegnanti e studenti, e Il mancato rispetto dei ruoli (La Repubblica del 3.4.2015); nessun accenno a provvedimenti. Il 25 aprile, alla “Festa dell’unità” di Bologna, gli insegnanti inscenano una chiassata che impedisce al Ministro di parlare. E la Giannini alla stampa: Gli insegnanti? Maggioranza abulica, minoranza aggressiva. I tre comportamenti appena descritti sfiorano l’analfabetismo sociale. Ma a preoccupare di più è il Ministro, cui spetta il governo della scuola e della riforma in fieri. E che per giunta è pressato, molto più che dai picchiatori, dalle insoddisfazioni delle “buone famiglie”. Il tutto collima manifestamente con la “Buona scuola”, che prevede l’assoggettamento degli insegnanti al potere plenipotenziario dei capi di istituto. Una novità consimile, negli obiettivi, al Ddl-Aprea, approvato all’unanimità dalla Camera ma non dal senato alla fine della precedente legislatura: concedeva ai genitori di governare gli insegnanti tramite una sorta di “Squadre armate del Bambin Gesù” (profezia di Buñuel).

   La persecuzione dei docenti nasce (1999/2000) da un trauma inaudito: fallisce l’applicazione del Regolamento dell’autonomia scolastica, prevista dalla riforma costituzionale del 1997. Si scopre che nessuno è preparato alla complessità di tale evoluzione, e politici e parapolitici si danno alla fuga. Agli insegnanti rimane (per quindici anni!) il compito di una sopravvivenza senza obiettivi e supporti, ed esposta ai risentimenti di un’utenza pervasa dal familismo amorale, e incapace, per analfabetismo politico, di contestare i disertori.

   Che cosa garantirà alla “Buona scuola” il preside passato dall’insegnamento all’amministrazione di più istituti, e ad adempimenti già provveditoriali? Soltanto controlli su materie quasi tutte non sue, e adocchiabili solo con le certezze del passato remoto.

Altrove esistono docenti formati all’autonomia e alla modernità.

 


 

Il preside della “buona scuola”

di Giorgio Porrotto

30/03/2015

 

   Il Provveditore agli Studi di Milano degli anni ’80 (Enzo Giffoni, def.), definiva il preside Ultimo presidio periferico della scuola di Stato. Un anticipatore della riforma oggi in fieri? Ma no: nel caso di un insegnante in default per scarsa preparazione il preside chiedeva, e subito otteneva, l’intervento di uno degli ispettori specializzati nella materia di detto insegnante, e anche se si trattava di quella a suo tempo insegnata dal preside. Come a dire che il preside riusciva a presidiare la propria scuola anche ricorrendo a competenze esterne e più elevate. Di contro, la riforma della Buona scuola dice che in caso analogo il preside ghe pensi lù, sempre e in ogni caso. Ma non è dato capire come i livelli culturali e le capacità didattiche di un docente possano essere adeguatamente valutate – col rischio  di sospensione dalla cattedra – nel caso di un docente di Lettere alle prese con un ex-docente di Matematica, o di un docente di Scienze naturali alle prese con un ex-docente di Filosofia.

   Le stesse difficoltà circonderanno il preside quando, come Buona scuola comanda, sceglierà i docenti da reclutare. Ma con una fatica in più: dover convincere gli aspiranti delusi, e poi anche l’esercito dei laureati disoccupati, che in questo paese gonfio di familismo amorale, di corrotti e corruttori, di mafiosi e di politici birichini, gli unici santi possibili siano i presidi.

   E poi perché la Buona scuola prevede mancette annuali per il 5% degli insegnanti valutati dal preside e quindi sommariamente? Perché provocare competizioni e quindi irritazioni e scoramenti in un ambito professionale che necessita fiducia, serenità e collaborazioni, e che da cinquant’anni subisce emarginazioni deprimenti? Perché non destinare quei soldini a docenti disponibili per ricerche di metodologia didattica, o per guidare gli alunni nelle scelte in biblioteca, o per organizzazione pomeriggi culturali “aperti” sul tema del rapporto scuola-società?

 

 


 

Un eccesso di eredità

di Giorgio Porrotto

2/03/marzo 2015

 

   IERI Li battezzarono diciassettisti, cioè col numero della norma che li metteva in ruolo senza concorso. Costituivano, per il governo, uno strappo emergenziale a fronte di due urgenze: soddisfare l’imprevisto incremento della domanda d’istruzione germinata dal “miracolo economico”; arginare il sessantottismo violento offrendo ad un  po’ di laureati  il lavoro nella scuola. Un tentativo, questo ultimo, per rimediare in parte alla grettezza della “piccola industria” italiana, straripante di ditte ma restia ad assumere laureati. Poi il parlamento produsse altri strappi (delegittimando ogni irrisione), fino a dover affidare ai provveditorati e ai sindacati tutta la gestione della scuola. La quale si ritrovò, in breve, isolata dalle Università, dai centri di cultura, dall’editoria, e dai rari nantes interessati alle innovazioni in corso in altri paesi. E le riforme “Berlinguer” e “Moratti” spuntate all’alba del ”2000”?

L’una negava l’altra, e affogarono insieme.      

    OGGI (2. 3. 2015) La “Buona Scuola” si auto-qualificò, a squilli di chiarine,  grande riforma, ma in data odierna gli stessi autori l’anno rimandata, e poi declassata a linee guida. Meglio così, al momento: preoccupava quella logica ossessiva del controllo di tutti su tutto ma rivolta, implicitamente, ad impoverire la funzione docente. La quale invece, laddove è arricchita di aggiornamenti, ricerche organiche e poteri decisionali (tabù, qui da noi), diventa un baluardo. Tace in proposito la stampa, da sempre sguarnita sull’istruzione; più ignara ancora, ovviamente, l’opinione pubblica. La scuola italiana – figliata da Gentile, che era partito da Casati, che si ispirava alla Ratio Studiorum – non riesce ad entrare nella modernità.

I primi a dare l’allarme? Carlo Cattaneo e Camillo B. di Cavour.