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Matematica e studenti italiani: tutto da rifare? Intervista a R. Zan

Matematica e studenti italiani: tutto da rifare? 


Intervista con Rosetta Zan  (*)

 

Secondo l’ultima indagine OCSE-PISA i quindicenni italiani hanno scarse competenze in Matematica. Come leggere questi dati? Come farli diventare un pungolo positivo per gli ordini inferiori di scuola? Riprendiamo un'intervista con Rosetta Zan, che ha insegnato Didattica della Matematica all’Università di Pisa, apparsa sul sito La Vita Scolastica.


Gli ultimi dati OCSE-PISA sulle competenze dei quindicenni italiani sono piuttosto sconfortanti. In alcune scuole, a quanto pare, l'80% degli alunni è analfabeta in Matematica. Quali sono secondo lei i motivi dell’insuccesso?

Cominciamo con un’osservazione: le domande dei test OCSE-PISA rispecchiano un modello educativo tipicamente anglossassone, più attento ai legami tra Matematica e realtà e meno attento del nostro agli aspetti teorici e riflessivi di questa disciplina, che rimangono a mio modo di vedere essenziali in ogni ordine e grado di scuola.
Detto questo, rimane il fatto che i risultati dei nostri studenti sono sconfortanti.
A mio parere gli elementi che mettono più in difficoltà gli studenti italiani sono essenzialmente due. Da una parte, i nostri quindicenni hanno ricevuto una scarsa educazione ad affrontare situazioni nuove, cioè a risolvere i problemi: al cosiddetto “problem solving”, che tra l’altro non passa solo attraverso la matematica ma può essere coltivato all’interno di qualsiasi disciplina. Qui si vede un difetto della nostra scuola, che in moltissimi casi chiede a bambini e ragazzi di riprodurre cose già dette e fatte piuttosto che di affrontare situazioni nuove.
L’altro aspetto è che i nostri ragazzi sono in difficoltà davanti a testi lunghi e articolati come sono quelli delle prove PISA, che chiedono di immaginare situazioni e solo dopo ipotizzare possibili soluzioni.
Di fronte ad un problema di matematica, infatti, i nostri alunni sono abituati a “non leggere”, o meglio a leggere mettendo tra parentesi l’obiettivo di comprendere e puntando invece sulla risposta corretta, ottenuta in qualche modo, attraverso scorciatoie cognitive: tendono quindi a leggere solo i dati numerici presenti nel testo e a cercare affannosamente qualche parola chiave che suggerisca come combinarli. Difficilmente provano e riescono a rappresentarsi la situazione descritta.

Da dove vengono queste cattive abitudini degli studenti italiani?

Non c’è un solo responsabile. Ma direi che un fattore importante è un’idea diffusa e sbagliata: il successo in Matematica identificato col dare risposte giuste in poco tempo. Da questa idea distorta seguono le scorciatoie cognitive di cui parlavo sopra, spesso incoraggiate esplicitamente da insegnanti o libri di testo, che, per esempio, chiedono di fare attenzione, nel leggere i problemi, solo ai “dati numerici” e alle “parole chiave” o comunque alle espressioni che consentono di individuare come combinare i dati.
Naturalmente le scorciatoie cognitive e la ricerca immediata della risposta giusta funzionano solo con testi stereotipati. E così la scuola continua a proporre esercizi ripetitivi, tutti uguali, standard. Testi simili non possono essere nemmeno definiti “problemi”, perché non propongono situazioni nuove e complesse da affrontare. Né è possibile parlare di risoluzione di problemi quando l’insegnante spiega, per esempio, un’operazione, o introduce una formula, e dopo aver fatto vedere come si risolve un problema assegna 100 esercizi uguali a quello già risolto.

 

Come mai si continua a ridurre il “problema” a mero esercizio ripetitivo?

A mio modo di vedere questa tendenza è legata alla valutazione, o meglio a un’idea molto riduttiva di valutazione. Cerco di spiegarmi meglio: certamente valutare è importante e fa parte del mestiere dell’insegnante. Ma fare l’insegnante non significa valutare; al contrario, la valutazione deve essere funzionale all’insegnamento. Nella realtà molto spesso i termini sono malamente invertiti: la valutazione diventa una specie di buco nero che ha delle influenze incredibili su tutta la vita scolastica. La resistenza a mettere gli alunni davanti a problemi di giusta complessità è secondo me strettamente legata all’ossessione del valutare (e dell’essere valutati…). Così da un lato bambini e ragazzi si sentono sempre sotto valutazione e quindi non esplorano, non osano: sono ingessati nella ricerca della risposta corretta. Dall’altro lato l’insegnante per paura di ottenere brutti risultati semplifica le richieste.

 

Quanta parte di questa situazione dipende dal modo in cui in Italia si formano gli insegnanti, a partire dall’università?

L’università senza dubbio ha le sue responsabilità sulla scarsa formazione dei docenti, per esempio sulle loro lacune disciplinari che senza dubbio favoriscono l’adeguamento agli stereotipi di cui parlavo poco fa. I testi di ingresso alle SISS e al TFA hanno mostrato risultati imbarazzanti rispetto alle conoscenze di persone che erano uscite dal percorso formativo universitario con ottimi voti. Però ad un insegnante non basta la sola formazione disciplinare. È triste dirlo, ma se la formazione degli insegnanti in Italia non c’è o è carente, è perché non c’è mai stata, o meglio non s’è mai fatta con rigore e con continuità. Le SSIS sono state chiuse senza riflessioni su quel che si era ottenuto di positivo e di negativo; si è ripartiti da zero (e ogni volta in ritardo) con il tirocinio formativo; ora, mentre si parla di un nuovo concorso, non sappiamo ancora se quest’ultima modalità di formazione professionale, il TFA, verrà riattivata... Insomma, la responsabilità della formazione è del Ministero. Ed è dal Ministero che credo si debbano attendere le risposte più importanti e definitive in questa direzione.

 

In questo momento, tuttavia, tanti insegnanti probabilmente stanno leggendo notizie sui dati OCSE-PISA, si stanno chiedendo come interpretarli e come eventualmente fare meglio, sin dalla scuola dell’infanzia e primaria...

Non sono una fan del modello anglosassone che trapela dai test, con questo forte aggancio alla “realtà” nel senso più limitativo del termine. Secondo me, infatti, per migliorare l’insegnamento della matematica non occorre tanto agganciarsi alla realtà del sasso, dell’erba, della terra, dello scontrino… Si tratta di prendere in considerazione la realtà dell’allievo. Perché posso avere anche l’allievo a cui piace immaginare, fantasticare, volar via con i pensieri e ragionare “tra le nuvole”: è alla SUA realtà che mi debbo ancorare. Inoltre alla tradizione anglossassone manca l’attenzione alla Matematica come pensiero teorico che è invece cruciale per capire questa disciplina. Quando parlo di “pensiero teorico” intendo l’attenzione all’argomentazione, alla dimostrazione: un patrimonio che non deve essere perduto, che non può essere trascurato senza gravissime perdite. Agli insegnanti – in particolare del primo ciclo – che si interrogano sui risultati OCSE-PISA consiglierei di prendere atto dei difetti di cui parlavo ma anche di fare attenzione a un documento e a un modello tutto italiano, le Indicazioni Nazionali per il curricolo, dove le attenzioni che ho sollecitato sono curate e messe in evidenza. Si tratta in definitiva di riuscire a seguire le Indicazioni. E per farlo dobbiamo impegnarci tutti: Ministero, formatori, editori, insegnanti...

 

Seconda domanda, allora: come fare meglio in sezione e in classe ora, subito, a partire dalle Indicazioni?

Direi che il primo passo da fare è stabilire in classe un clima sereno di lavoro, non condizionato dall’ossessione della valutazione. Solo così il tempo e l’errore da nemici possono trasformarsi risorse. L’insegnante poi deve avere rispetto per il bambino, la persona che ha davanti, per le sue capacità, per la sua intelligenza: e allora potrà “osare” e proporre problemi che siano veramente tali. Ci sono tanti insegnanti che già lo fanno, che inseriscono diffusamente il problem solving all’interno del curricolo: pongono i bambini in situazioni adeguatamente complesse senza aver paura che sbaglino o “non arrivino in fondo”. L’obiettivo infatti non è evitare l’errore o “finire il problema”: è stimolare nei bambini processi di pensiero. Per raggiungere un obiettivo così ambizioso, l’insegnante e i bambini, insisto, si devono sentir liberi dal vincolo della valutazione. Ed ecco l’insegnante in un ruolo nuovo, diverso da quello che assume quando spiega o interroga: propone ai bambini una situazione, senza tanti accordi preliminari o spiegazioni. Li osserva, guarda come reagiscono senza dire continuamente “qui hai sbagliato”, “devi far così”, dando a ciascuno il tempo necessario per confrontarsi con il problema e favorendo l’interazione fra i bambini. Si rimane sempre stupiti dalle potenzialità che scopriamo negli allievi quando li trattiamo da persone intelligenti e ci prendiamo (e diamo) il tempo necessario. Provare per credere.

 

 

 (*) Rosetta Zan, già professore associato di Matematiche Complementari all'Università di Pisa, esperta in didattica della matematica. La sua ricerca ha come oggetto il problem solving, le difficoltà in matematica, il ruolo dei fattori non cognitivi nell’apprendimento, la formazione insegnanti.

 

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