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Rapporto e proporzione in situazioni di fittezza

 

Esempi schematici di percorsi-prototipo

 

Percorso-i: rapporto e proporzione in situazioni di fittezza [scarica .pdf]

 

Paolo Guidoni

 

 

I.1) Una digressione preliminare e schematica su rapporto e proporzione

 

La ricerca (con bambini e adulti) mostra che ci sono diverse “famiglie” di situazioni di esperienza che sono intuitivamente viste come caratterizzabili da un rapporto: ma che, in origine, sono considerate diverse fra loro sia nel significato sotteso che nei riferimenti percettivo-motori, e quindi incontrano difficoltà ad essere ricondotte a un unico modo di vedere e di ragionare – quindi a un unico “formalismo”.

 

In particolare, per esempio:

 

I.1a) Contesti di azione ripetuta, analizzati in termini di tre variabili percettivamente evidenti e di differente significato [cose(c) - volte(v) - cose alla volta(c/v)], in genere “diacronici” in quanto coinvolti in uno svolgimento temporale progressivo (implicito nella parola <volte>, eventualmente preorganizzato rispetto all’azione): contesti che sboccano nelle tipologie standard di “divisione di ripartizione” e/o “divisione di contenenza”, e hanno come “figura” complessiva caratterizzante lo “schieramento” (schema “sincronico”, da cui peraltro risultano evidenti tutte le proprietà delle operazioni di moltiplicazione e divisione, incluse le relazioni fra semantiche di contenenza e di ripartizione, i rapporti non interi, etc).

In questi contesti una molteplicità di situazioni-gioco possono (devono) essere affrontate, con numeri molto piccoli, a partire dall’infanzia; ma devono essere sempre esplicitamente discusse anche in termini di relazioni qualitative (relazioni e correlazioni “d’ordine”) fra le variabili in gioco (<più …, se meno … a parità di …>, <meno…, se meno …a parità di …>, etc). [Questo poi va fatto non soltanto fino a quando le numerosità sono troppo grandi per essere direttamente contate e operate, e devono essere stimate a occhio: ma anche ogni volta che si tratti di decidere sul tipo di “operazione” (o sequenza di operazioni) che caratterizza una situazione problematica].

 

I.1b) Contesti di relazione: discreto-discreto (p.es. tre caramelle ogni due cioccolatini…, indipendentemente dal numero totale); discreto-continuo (p.es. fagioli “uniformemente” distribuiti più o meno “fitti” su sagome diverse per forma e grandezza … su un calzino e su una camicia …); continuo-continuo (p.es. zucchero a velo “uniformemente” distribuito più o meno “fitto” su sagome di cartone, … latte più o meno “fitto” in una vaschetta da pesci piena d’acqua attraverso cui si guarda, con “effetto nebbia” …); etc.

Qui si tratta di situazioni in genere statiche, in cui di nuovo ci sono tre variabili percettivamente evidenti di diverso significato: p.es. la numerosità (n) dei fagioli, l’estensione (s) della superficie, la “fittezza complessiva” (f) direttamente (qualitativamente, ma sicuramente) percepita nei suoi cambiamenti in relazione ai cambiamenti di n e di s.

Il problema che “normalmente” viene intuitivamente posto è: ma cosa c’entra qui la divisione? Anche qui si comincia allora dallo studiare relazioni e correlazioni d’ordine, senza contare (<più fagioli e sagoma uguale implica più fittezza

…>, etc); e poi si può passare alla discretizz-azione (cioè alla misura) approssimata delle variabili continue (post-it per le superfici, cucchiaini per lo zucchero a velo, …) per giungere alla possibilità di “ragionare secondo numeri”. Particolare attenzione va posta in ogni caso alla variabile-rapporto: alla sua rilevanza nel descrivere “allo stesso modo” situazioni altrimenti diverse nello stesso contesto, alla sua “somiglianza” con la variabile rapporto in altri contesti: abbastanza presto diventa per esempio evidente (!) che le “cose alla volta” sono analoghe alla “fittezza” nei suoi vari aspetti, … e così via.

 

I.1c) Contesti di frazione: qui i discorsi (ancora, a partire dall’infanzia!) sono ben noti; forse un po’ meno le pratiche più efficaci per impadronirsi in modo sicuro del formalismo e dei significati.

E così via.

 

E’d’altra parte evidente a livello “esperto” (e dovrebbe diventarlo in modo esplicito ai ragazzi – il più presto possibile, senza forzature) che:

- In tutte le famiglie quello che caratterizza una situazione in quanto situazione-di-rapporto (con tutte le proprietà del rapporto - aspetto “sintattico”, o “formale”) è una condizione di invarianza: la (cruciale) variabile-rapporto non cambia se le altre due sono moltiplicate o divise allo stesso modo (per lo stesso numero) (ma … cosa succede se si alterano le variabili in altri modi?).

- In ciascuna delle famiglie c’è una varietà di situazioni che hanno caratteristiche di contesto (aspetto “semantico”, o “fattuale”) anche abbastanza diverse, magari in gruppi di contesti più o meno simili fra loro: ma sono palesemente caratterizzate dalla stessa “sintassi” che, proprio in quanto tale, permette di descrivere e prevedere.


- In tutte le famiglie lo specifico rapporto via via considerato fra le variabili definite dalla situazione si rivela come termine che definisce, proprio attraverso la sua invarianza, una più generale relazione di proporzionalità: quella legata, appunto, alla particolare forma dell’invarianza moltiplicativa. [Fare attenzione alla frequente “confusione”, cognitiva ma a volte anche percettiva, fra gruppi di situazioni in cui è invariante un rapporto e gruppi di situazioni in cui è invariante una differenza].

- <alla fine> (!) le diverse famiglie perdono dal punto di vista “formale” (quindi “operatorio”!) la specificità che sembrava caratterizzarle all’inizio, proprio in relazione a tutte le situazioni via via padroneggiate e alla varietà di esperienze che sono state soddisfacentemente interpretate e controllate attraverso uno stesso (<semplicissimo>!) schema formale.

 

I.1d) Un primo “compito adulto” per arrivare a mettersi in maggiore “risonanza” con bambini e ragazzi, attraverso tutta la scuola di base, può consistere allora nell’analizzare per bene quante più possibile situazioni di esperienza quotidiana e comune (statiche e di movimento) che sono definite da un rapporto fra due variabili, in cui la “terza” variabile (variabile-rapporto) ha a sua volta un significato direttamente percepibile; e quindi vedere quanto tali situazioni siano facilmente raggruppabili come casi particolari secondo le tre famiglie citate, o se occorra definirne altre. (Basta appena evocare la velocità come lunghezza “diviso” durata, la pesantezza come peso “diviso” volume, la dolcezza come zucchero “diviso” acqua, l’opacità come latte “diviso” acqua, il prezzo (la costosità) come costo “diviso” quantità …, e così via proseguendo; ma vale anche la pena di considerare - far considerare - subito anche la lentezza come durata “diviso” lunghezza, la leggerezza come volume diviso peso, la “sciapezza” come acqua diviso zucchero, la trasparenza come acqua “diviso” latte … l’economicità come quantità “diviso” costo … e così via, con tutti i contorcimenti concettuali e verbali relativi che non fanno altro che “smascherare” i “trucchi” impliciti nel linguaggio quotidiano. Senza contare le molteplici varianti delle situazioni frazionarie, già ben presenti nell’esperienza quotidiana fin dall’infanzia; le situazioni di probabilità e di frequenza statistica (per <mettere insieme> due teste “su” sei lanci e sette teste “su” undici lanci, bisogna fare nove teste “su” diciassette lanci … <ma allora le regole per sommare le frazioni?...>); le (cruciali!) esperienze di “ingrandimento” e “rimpicciolimento” (p.es. passando attraverso la proiezione o le mappe); … e così via.

 

I.1e) Il quadro appena delineato non rappresenta quella specie di “virtuosismo” fra l’estetico e il formale che alcuni facilmente credono di vedervi (<a scuola ci si deve occupare di ben altro!...>). Si tratta invece di uno dei (pochi!) quadri di riferimento essenziali che dovrebbero mettere in forma il fare-scuola-di-base, e quindi la mediazione culturale di tutti gli insegnanti dall’infanzia alla fine dell’obbligo, con determinata e responsabile continuità e coerenza sia “verticale” che “trasversale”. Infatti, il “caso” delle relazioni di rapporto e proporzionalità (dai “formati” analogici, a quelli puramente linguistici delle relazioni d’ordine fra variazioni di variabili ben individuate, a quelli numerici fra variabili misurate), relazioni sottese in una esplosiva varietà di situazioni di vita facilmente controllabili, costituisce uno dei “nodi fondanti” di un’esperienza cognitiva e culturale che sia continuamente risonante con le potenzialità e le necessità di “sviluppo prossimale” dei ragazzi. Infatti, sono in definitiva l’interpretazione e il controllo della varietà di situazioni di questo tipo che rendono evidenti le radici primarie di risonanza reciproca da cui si diramano in progressione, per reintrecciarsi in costruzioni sempre più complesse, esperienza fenomenologica (quello che c’è, e che succede, nel mondo); esperienza di messa-in-forma linguistica (quello che si sa/può dire con efficacia); esperienza formale (le forme “astratte”, cioè indipendenti dal contesto, proprie della “matematica” dei numeri e dello spazio); e – infine ma a monte

di tutto – esperienza di azione (esterna, interna, comunicativa e quant’altro). E su queste basi di fiducia (e

divertimento!) nel partecipare alla cultura appropriandosi di suoi strumenti “potenti” potranno poi continuare a svilupparsi percorsi di socializzazione che valorizzino anche le diversità individuali.

E’ solo ovvio che una “linea” di mediazione culturale (di “didattica”) di questo tipo è in sostanziale contrasto con le prassi più comunemente condivise e stabilizzate (all’infanzia giochi e un po’ di “schede”, poi le addizioni, poi le sottrazioni, poi le moltiplicazioni, poi le divisioni, poi le frazioni, e intanto un po’ di grammatica … poi alle medie, se

va bene, un po’ di proporzioni - e le prove invalsi, di lingua e matematica, sono sempre troppo “difficili” …): senza mai

veramente mettere in gioco le “forme culturali” variamente imposte/sovrapposte al pensiero naturale “contro” le vere forme del mondo che ci circonda. Ma la ricerca dice che un altro mondo dell’apprendere è accessibile; che è possibile, per esempio, arrivare in quinta discutendo il galleggiamento in termini di “pesantezza”, e l’allungarsi di un elastico in termini di “durezza”: scoprendo con soddisfazione che <pesantezza e durezza sono come una specie di fittezza, o una specie di prezzo>.

Mentre è altrettanto ovvio che non si può “cambiare didattica” come si cambia un vestito: per il bene di tutti è importante procedere gradualmente e in modo “lungimirante” – buttare poco a poco le acque sporche, salvando la pelle dei bambini (e la propria!).

 

 

I.2) Per esempio: cosa succede nell’acqua-e-zucchero?

 

I.2a) E’ facile evocare situazioni di soluzione in cui la variabile-rapporto diventa evidente anche molto precocemente con l’età (fin dall’infanzia, con relazioni inizialmente qualitative: quanto zucchero in quanto latte per una certa dolcezza, quanta acqua con quanto colore per una certa intensità, etc). Ora però il problema da discutere in termini di “approccio scientifico” diventa un altro: cosa si vede che succede – cosa si pensa che succeda quando si mette p.es. lo


zucchero nell’acqua (mescolando, senza mescolare, in acqua calda o fredda, in tanta o poca acqua …etc)? In particolare: cosa succede allo zucchero? Cosa succede all’acqua? Cosa succede alle “proprietà” inziali di zucchero e acqua? (durezza, colore, peso, dolcezza, trasparenza, …). Che cos’è, alla fin fine, l’acqua-e-zucchero?

In ogni contesto guardato in atteggiamento “scientifico” si tratta allora per prima cosa di guardare bene <come è> la realtà (guardare e vedere bene cosa di fatto succede nel tempo, cosa cambia se qualcos’altro cambia…, etc); poi cercare di accorgersi se la realtà sott’occhio per caso <è come> (assomiglia a, in qualche modo, nel suo modo essere e/o di succedere) qualche altra realtà già nota; infine cercare di immaginare dei “modelli” su come potrebbero andare le cose anche se non si vede bene come di fatto vanno - <è come se …>. (<E’ come se lo zucchero si divide in parti proprio piccolissime, tanto piccole che non si vedono, che si vanno a infilare in tutti i buchini che ci sono dentro l’acqua …>

<buchini?!?!?> <ma no, sono le parti piccolissime di acqua che gli fanno posto …>). Ma poi. Nel caffè caldo lo zucchero si scioglie meglio: allora è come se …???. Lo zucchero in granelli affonda subito, quello sciolto nell’acqua no

– eppure le molecole di zucchero sono molto più pesanti di quelle d’acqua (controllare su un libro di secondaria): allora ci si fa a inventare un <è come se …>???. E così via.

[Notare che il famigerato giochino di <ipotesi-esperimento-verifica>, così spesso tirato in ballo a ogni piè sospinto dentro le aule/ore di scienze (e mai di fuori), non rappresenta la “sintesi del metodo scientifico” – anzi molte volte lo distorce alla radice. Ma di questo bisognerà riparlare a fondo; insieme a <ma poi, cosa vuol dire modello?>].

[Notare anche che per il buon Piaget, e per i pessimi piagetiani, sulla “conservazione del peso nella soluzione” si imposta/rivela addirittura una “struttura logica” fondamentale: quella, appunto, di conservazione (della “sostanza”, in

questo caso). <Ma, quando si mescola, la pesantezza dello zucchero scompare, perché lo zucchero non sta più a fondo

– il peso sulla bilancia invece no – ma allora …?>. Siamo in grado di rispondere, piagetiani o no?].

 

I.2b) Un primo “compito” adulto può dunque essere quello di cercare nei sussidiari, nei testi di scuola media, nei testi di secondaria che si hanno a disposizione le descrizioni, le interpretazioni in base a modelli, le “regole d’uso” … che riguardano i fenomeni di soluzione; e poi metterle a confronto con la propria (infinitamente variegata…) esperienza quotidiana; e quindi discutere i risultati del confronto prima fra amici e colleghi, poi con i bambini/ragazzi in classe. Onestamente (“da adulti normali”) cosa ci si capisce? Cosa servirebbe per capire meglio? In che termini “noi” sappiamo “spiegare” a “loro” (ma poi, cosa vuol dire spiegare?) quello che ci succede sotto gli occhi e sotto le mani dalla mattina alla sera?

 

I.2c) Un secondo, essenziale, compito adulto è quello di “provare a guardare veramente bene”; e poi, su questa base, e sulla base di tutto il resto che comunque “si sa”, “provare a interpretare” quello che succede. <E’ come se …>.

Per esempio.

In un bicchiere di plastica trasparente si mette un supporto (che non si sciolga e non galleggi) su cui si appoggia una zolletta di zucchero, dopo avere riempito il bicchiere d’acqua. Appena messo lo zucchero dentro l’acqua, si comincia a guardare bene tutto quello che si vede succedere – e a descriverlo a parole, a scriverlo, a schizzarlo con disegno … mano a mano che succede, in relazione al tempo (fino a quando <non succede più niente>) e allo spazio (tutta l’acqua nel bicchiere). (Mettere il bicchiere in modo da poterlo guardare/vedere bene di fianco, con buona luce, anche da molto vicino, magari con una lente). Per un lavoro del genere conviene essere in due, e magari ripetere la cosa più volte perché <succedono tante di quelle cose … e poi ogni volta un po’ uguali e un po’ diverse …>: quando è che ci si sente soddisfatti di aver visto bene “tutto”, di averlo detto-scritto-disegnato in modo adatto a dare un’idea dei fatti reali (sono vietate scorciatoie insignificanti tipo <gradualmente lo zucchero si scioglie>), di aver esplorato almeno un pò <cosa succede se…>? (Se invece che dal rubinetto si prende dell’acqua ghiacciata, o dell’acqua calda …; se dopo che la prima zolletta è <sparita> (!) se ne mette un’altra nella stessa acqua, e poi un’altra …; se … Etc.) .

Dallo sforzo di descrizione, in base ai fatti raccolti percettivamente, si passa quasi senza accorgersene sul piano dell’interpretazione – e, per poter interpretare (per poter “spiegare”) quello che succede, alla modellizzazione. Torna, quello che si vede, con le idee che comunque abbiamo da prima? Con quello che c’è scritto sui libri? Come si potrebbe proseguire, facendo crescere a scuola (ma anche da adulti) il discorso cominciato a 5 anni: <ma come fa l’acqua che è così molle a mordere lo zucchero che è così duro, e poi a masticarlo fino fino …> <ma no, non vedi che non è l’acqua che lo mastica, è lo zucchero che preferisce dividersi per poter stare in mezzo all’acqua, piuttosto che stare con l’altro zucchero …>?.

 

I.2c) Attenzione.

- E’ molto utile darsi la pena di procurarsi zollette di zucchero di canna (supermercati grandi, …) perché il colore scuro permette di seguire molto meglio le interazioni fra zucchero e acqua.

- Il lavoro va fatto da soli o in due (adulti o ragazzi, di tutte le età), magari anche in tre; poi si confronta quello che nei diversi gruppi si è fatto/visto/scritto/disegnato/interpretato/modellizzato, e eventualmente si torna a fare le cose di nuovo per “sciogliere” (!) eventuali dubbi; qualcuno con una cinepresa che ha lo zucchero in primo piano fa riprese bellissime, che poi tornano utili per discutere tutti insieme (ma SOLO SE prima tutti hanno fatto/visto le cose direttamente).

- Vale la pena di fare almeno un altro lavoro, simile e diversamente entusiasmante: un foglio di carta crespa (rossa, blu…) “appoggiato” a galla su una vaschetta da pesci, guardata di fianco e da sotto in su …. E poi confrontare quello che succede nei due contesti. <Ma come fanno a sapere, lo zucchero e l’acqua, il colore e l’acqua, che devono mettersi dappertutto “in proporzione”? … chi ha controllato che la fittezza (la dolcezza… il colore…) sia la stessa dappertutto, quando poi tutto si ferma e non cambia più niente? …>. E così via variegando.

- E’ solo ovvio che non si può fare “tutto” il discorso di scienze in questo modo: ma prima di lamentarsi per il tempo che così facendo si “perde” è essenziale confrontarsi con l’esperienza da adulti, e valutarne il “valore aggiunto” globale rispetto a qualche riga di libro, o a una figura. Spesso poi anche l’insegnante “a righe” resta stupefatto di quello che in situazioni del genere viene – o non riesce a venire! – fuori, a livello di testo scritto-e-disegnato. Mentre è un’esperienza cruciale per bambini (dai 4 anni in su) e adulti cercare nella propria esperienza (e poi se mai su un vocabolario) tutti i diversi significati che la parola <sciogliere> ha nella nostra lingua (sciogliere lo zucchero … come sciogliere il burro? come sciogliere i capelli? come sciogliere un voto? come sciogliere il cane? come sciogliere il parlamento? …): e quindi domandarsi perché per così tanti significati ci possa essere una parola sola …

- Questo tipo di lavoro-di-scienze sugli argomenti più diversi (“laboratorio povero”, qualcuno lo chiama) ha, attraverso gli anni, un ruolo cruciale: quello di formare persone che imparino a trattare la realtà, la lingua naturale, la propria testa immaginante e ragionante (tutte così spesso stuprate da quello che si è costretti a “fare” a scuola) … con quella comune cura amorevole, creativa, gioiosa che è necessaria per non far diventare la vita un videogioco sempre più grigio e noioso (e scusate la retorica!).

- E poi: esperienze di questo genere, iniziate a scuola, possono essere facilmente proseguite e variate (fatte proseguire e variare) “a casa” - o in giro per il mondo - usando qualche oggetto banale e un quadernetto di appunti. Perché è proprio facendo e rifacendo cose del genere provandoci gusto che ci si accorge che le cose si capiscono veramente bene solo quando si fanno cambiare, e si cerca cosa resta di invariato al mutare delle condizioni.

- Ovviamente, “alla fine” viene bene anche qualche “giro” controllato di <ipotesi-esperimento-verifica>.

Ma ricordando sempre che l’educazione scientifica (in senso lato) di base non consiste nella memorizzazione comportamentistica di un po’ di regole di discorso-azione (di qualunque tipo), nell’indurre lo scimmiottamento di comportamenti tipo “piccolo scienziato” (anche se curiosità e creatività di bambini e ragazzi sono un patrimonio prezioso – possibilmente da non sprecare). Quello che la scuola dovrebbe (potrebbe, se volesse) mediare è il significato della cultura (del “sapere che”) come strumento potente e espansivo di interazione (“sapere come”) con la realtà del mondo così com’è: la convinzione che quello che la cultura propone è plausibile rispetto a come vanno le cose, coerente nelle loro diverse determinazioni, comprensibile e appropriabile, utile per vivere e per interagire con gli altri. (E scusate se è poco).

 

 

Percorso ii: rapporto e proporzione in situazioni di Spazio, luce, movimento, cambiamento

 

II.1) C’è un universo di possibilità, praticamente infinito, aperto davanti al capire e all’imparare. Un universo definito dall’intreccio strettissimo fra “proprietà” dello spazio (da cui è  nata storicamente tutta la matematica, numeri e geometria, e in cui si aggrovigliano le radici di ogni sviluppo cognitivo - “formale” e “metaforico” che sia); “proprietà” della luce (dal fatto che ovviamente <va dritta>, pur senza sapere perché <va>…; al fatto che evidentemente si attenua con la distanza, senza che sia chiaro <dove va a finire>…; al fatto che ovviamente “rimbalza su” la superficie di uno specchio, anche se l’immagine <sta dietro>…; fino all’intrico percettivo cognitivo e linguistico fra luce e immagini – fra <raggi di luce> e <raggi di vista>…; e così via); “proprietà” della conoscenza per cui (in modo solo apparentemente paradossale) <solo di quello che non cambia c’è conoscenza possibile> (Platone), mentre solo di quello che cambia (attraverso il movimento, o un “cambiamento” vero e proprio dell’osservabile) ci si accorge, e quindi si è portati/spinti a dar conto; “proprietà” della lingua naturale, per cui tutto quello che succede, o potrebbe-succedere-se, viene come <trafilato> attraverso una struttura linguistica imposta dalla cultura e di per sé e totalizzante - a sua volta potentemente “formante” i modi di pensare, agire, capire, etc.

Non ci si fa ad affrontare qui i modi, globali e particolari e che dovrebbero riguardare tutto il fare-scuola di base, attraverso cui mettere a frutto questo universo di possibilità (oggi per lo più grettamente sprecato o distorto) per indirizzare una crescita robusta, creativa e collaborativa dei modi di pensare delle persone.

Quindi, qui e ora, si fa solo un cenno a un possibile “modo per cominciare” (a qualunque età, si intende) con il

<giocare a luce-e-ombra>.

Mentre si rinvia alla prima parte del primo percorso per un necessario “promemoria” sui modi di pensare (fra l’altro)

in termini di rapporti e proporzioni.

 

 

II.2) Due “setting” possibili, fra i tanti, utili per “cominciare” (a qualunque età):

 

II.2a)  Collettivo, di prima esplorazione degli innumerevoli “effetti” e delle relazioni, qualitative e approssimativamente quantitative, fra quello che succede e le variabili che sono in gioco nella dinamica sorgentediluce-oggetto-ombra: per esempio, il <teatro delle ombre>.

(Attenzione: usare un lenzuolo bianco p.es. appeso con le mollette a un filo teso a metà stanza – non uno schermo da proiezione o un muro – per poter accedere al “teatro” <di qua e di là> dello schermo; usare una lampadina a incandescenza, trasparente e con filamento il più piccolo possibile, senza paralume – non un proiettore, una torcia, una lampada al neon o “salvaenergia”… (comunque tutte cose rispetto a cui spiegarsi, e spiegare, i “perché” – dopo averne constatato gli effetti…); usare all’inizio sagome piatte, per esempio ritagliate in cartone; poi oggetti tridimensionali – eventualmente da “indovinare” in base all’ombra, in diverse posizioni; poi le persone stesse, anche in vere e proprie “rappresentazioni”;…etc; proseguire-riprendere il lavoro a distanza di tempo, riferendolo sempre e sistematicamente alle numerose evidenze di vita quotidiana che il lavoro stesso inevitabilmente evoca; etc).

Per esempio.

Esplorare cosa succede all’ombra della sagoma se … (ingrandire e impicciolire l’ombra, in relazione alle distanze; ma anche “dimagrire” o “accorciarsi” o in genere “deformarsi” dell’ombra, se la sagoma viene fatta in vario modo ruotare – fino eventualmente a “sparire”, contratta in una linea …); giocare con le possibili relazioni fra strutture fisse, p.es. definite da strisce di scotch nero sul lenzuolo oppure da oggetti situati nello spazio fra sorgente e schermo, e strutture variabili definite dalle trasformazioni delle ombre …; “raccontare” (descrivere) quello che si vede in contrappunto con la “spiegazione” di <cosa succede dietro>; accorgersi di una varietà di fatti cruciali (p.es., con i più piccoli, che perché

il pesce-sagoma sia proiettato con l’occhio rosso è inutile disegnare sulla sagoma l’occhio col pennarello rosso, ma bisogna fare un buchino e coprirlo con carta velina rossa; … ); etc;

 

II.2b)  Di piccolo gruppo, per l’esplorazione più accurata – in particolare quella delle relazioni formali: p.es. le <ombre da tavolo>.

(Un piccolo schermo verticale bianco; una piccola lampadina (da pila, tipo led, …) appoggiata sul tavolo; per cominciare, p.es.un oggetto-pennarello-in-piedi che fa ombra sullo schermo in situazioni diverse delle distanze relative, mantenendo inizialmente la linea lampadina-pennarello (circa) perpendicolare allo schermo; possibilità di misurare lunghezze).

Per esempio.

La prima cosa da fare è ritrovare in questo contesto, opportunamente variato, quanto eventualmente già notato nel teatro delle ombre, inclusi gli effetti di (vari tipi di) inclinazione dell’oggetto; mentre si può verificare facilmente con stecche sottili che il variare del confine dell’ombra quando si cambiano le situazioni induce a pensare che <la luce va dritta> (anche se il confine dell’ombra è sempre un po’ “sfumato”, per l’estensione della sorgente luminosa); etc.

Poi si può passare decisamente alla “geometrizzazione” dell’osservazione, già ben accessibile nelle sue relazioni “qualitative” (relazioni d’ordine) anche a bambini “piccoli”. Se S è la distanza lampadina-schermo, P la distanza lampadina-pennarello (in piedi), PP la lunghezza del pennarello e OO la lunghezza dell’ombra (fare subito un disegno su cui ragionare!...), la prima cosa che preme a un libro per bene (o a un insegnante per bene) è “verificare” che in una situazione data, quindi (!) in generale per tutte le situazioni, vale la “proporzione diretta” OO:PP=S:P (in questa versione, proporzione “omogenea”; ma vale anche la proporzione “disomogenea” OO:S=PP:P. Il discorso su proporzioni omogenee e disomogenee è essenziale, ma va affrontato in generale, e “a latere” rispetto a questa esperienza). Peccato però che di solito le prime cose che i ragazzi (per bene) notano siano invece fatti diversi, legati ai cambiamenti della situazione più che alla sua analisi “statica” (fatti che sono peraltro già ben evidenti anche a livello di teatro delle ombre). Per esempio che <le ombre possono soltanto ingrandirsi, al massimo sono uguali all’oggetto se l’oggetto è appoggiato allo schermo>; e che <più l’oggetto è vicino alla luce, più l’ombra diventa grande … anche grandissimissima>. In particolare quest’ultima, ovvia, notazione percettiva risulta spesso difficile da formalizzare (anche a ragazzi di scuola secondaria), ed è spesso fonte di “blocchi” per la dinamica di classe. La trappola scatta attraverso la gestione linguistica degli “opposti” (<più vicino>, o <meno distante>?) e la (correlata) presenza in questo caso di una “proporzionalità inversa” (relazione talmente bistrattata nel normale fare-scuola da configurare una vera e propria “lesione cognitiva”). Ovviamente (?) la relazione formale appropriata può essere riscritta in questo caso (p.es. a partire dalla proporzione “disomogenea”) come OOxP=SxPP=costante al variare della posizione del pennarello, se la lampadina è tenuta fissa; quindi, per due posizioni diverse del pennarello, OO’xP’=OO’’xP’’; quindi OO’:OO’’=P’’:P’. (E’ evidente che tutto si gioca sui diversi “modi di guardare” che si possono attivare in situazioni diverse: ma è proprio questo il contributo critico che la cultura – la scuola – può/deve dare al pensiero in crescita delle persone).

Per esempio.

Cosa succede se la lampadina è a sua volta fissata su un piedistallo, invece che appoggiata sul piano? Ovviamente ci possono essere due proiezioni parziali dell’ombra, sul piano stesso e sullo schermo, e si scatena la caccia alle regole …

Per esempio.

Si possono prendere delle forme piane geometricamente semplici (un quadrato…) e studiare come si trasformano al variare del loro orientamento in relazione alla lampadina e allo schermo; per poi confrontare con quello che succede se le ombre sono fatte dal sole …

Per esempio.

Cosa succede se, lasciando da parte lo schermo, ci sono due <lampadine-lampione>, e il pennarello in piedi ci <passeggia> in mezzo? L’evocazione immediata è a cosa succede per strada quando si cammina sul marciapiede fra due lampioni, con un’ombra davanti e una dietro, ombre che via via si allungano-accorciano, diventando più-meno contrastate sullo sfondo del pavimento comunque illuminato … E se si cammina <di fianco> ai lampioni? … E se ci sono tre lampioni <non in fila>? (I bambini anche piccoli hanno gli occhi pieni dei giochi di ombre multiple che sono ben evidenti nelle partite di calcio in notturna, viste direttamente o in televisione).


Certamente non è banale “trasportare” relazioni di spazio vero (a tre dimensioni) in relazioni di spazio disegnato (comunque convenientemente “proiettato” a due dimensioni, dove si può insegnare-imparare a lavorare imparando a servirsi del conforto culturale di Euclide). Ma non è neanche difficile, se si prendono bene le “misure” concettuali e cognitive, e si lavora con calma attraverso gli anni: e proprio a questo potrebbe/dovrebbe servire il fare-scuola.

 

 

Appendice (A): Brevi (S)Punti Di Riflessione Su Rapporto E Proporzione

 

(1)

- Dalla ricerca internazionale (di qualche anno fa).

Fra l’infanzia e i primi due-tre anni di scuola elementare molti bambini posseggono e sviluppano in modo autonomo capacità “intuitive” di riconoscere le situazioni che sono gestibili con semplici strategie operative sostanzialmente di rapporto (in analogia con altre situazioni già padroneggiate e gestite implicitamente in questo modo). Tali capacità hanno però un brusco regresso appena a scuola viene introdotta la “divisione”, e sono recuperate solo lentamente negli anni.

- Dalla ricerca internazionale (recentissima).

Fatto ben noto: fra i 12-14 anni comincia ad aumentare la capacità di risolvere correttamente problemi che implicano l’uso di strategie di proporzionalità (doppio rapporto); tale capacità poi continua ad aumentare attraverso tutta la scuola secondaria. Fatto da poco assodato: a tale aumento è strettamente associato un altro fenomeno (statisticamente altrettanto imponente), l’uso cioè della strategia di doppio rapporto anche in situazioni (di contesto esperienziale simile) in cui la strategia corretta sarebbe quella di una doppia sottrazione. Domanda ovvia: ma cosa succede, “normalmente”, a scuola?!?

 

(2)

Contributo di Angelo, studente “in crisi totale” alla fine del primo anno di fisica:

D <ma perché per valutare la pressione bisogna fare “forza diviso superficie?”>

R … <io voglio fare l’astrofisico …ho letto tanti libri di astrofisica, e proprio mi piace …anche andare a lezione e prendere appunti mi piace … al liceo scientifico ho sempre preso 7 e 8 in matematica e fisica … il fatto però è che è dalla scuola elementare che non ho mai capito perché si deve dividere …>.

Domanda ovvia: ma cosa succede, “normalmente”, a scuola?!?