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Siamo noi i veri selvaggi?

 

In catene

Siamo noi i veri selvaggi?

 

Luciano Luciani

 

Michel de Montaigne (Bordeaux, 1533-1592), di fronte al problema del rapporto con i popoli da poco scoperti nelle Americhe, ci offre un punto di vista originale e razionale.

Con interesse etnologico e curiosità antropologica raccoglie precise, e tutt’altro che superficiali, informazioni sui loro costumi e tradizioni, assumendo posizioni intelligentemente relativiste di cui cerca di spiegare il senso.

I primitivi appaiono a Montaigne ricchi di uno stile di vita in armonia con la natura, che è stato avvilito dalla corrotta civiltà europea per dominare, senza alcun diritto, queste popolazioni e avviarle all’estinzione.

Lo scrittore francese, tra l’altro, sa cogliere la contraddizione tra la presunta barbarie dei primitivi, e la vera inciviltà delle guerre europee, che Montaigne definisce “malattia dell’umanità”. Fortemente polemico nei confronti dei contrasti religiosi che avevano afflitto e affliggevano l’Europa del suo tempo, li chiama “crudelissimi” e sorti “sotto il pretesto della pietà religiosa”. Nel capitolo XXXI del libro I degli Essais, Montaigne sostiene che non c’è niente di selvaggio negli indios brasiliani “se non che ognuno chiama barbarie quello che non è nei suoi usi”.

Montaigne si rende conto che noi scegliamo, come verità universali, gli esempi e le idee del Paese in cui viviamo; per contrasto, dichiariamo errato tutto ciò che è differente dal nostro modo di pensare e di agire, senza cercare di comprendere che esistono tante culture diverse, tutte allo stesso modo portatrici di una qualche verità. Ma dal momento che siamo prevenuti nei confronti dell’“altro” riveliamo così la nostra identità nei suoi aspetti più negativi.

Il filosofo francese sostiene che gli indios delle Indie Occidentali sono pieni di vitali virtù naturali “che invece noi abbiamo imbastardito, soltanto per adattarle al piacere del nostro gusto corrotto”. Sono esseri umani molto semplici, forse anche arretrati, ma comunque puri, governati da leggi naturali che non conoscono alcuna organizzazione sociale, politica ed economica simile a quella europea: allo stesso modo, però, ignorano le parole che per il loro significato avvicinino all’ipocrisia e all’inganno. Felici di quanto hanno a disposizione, a loro basta lo stretto necessario; godono della propria condizione e si accontentano: tutto il resto per loro ha poco significato. Vivono lungo il mare in vaste pianure e hanno alle spalle alte montagne: beneficiano di un clima temperato e di abbondanza di pesce e carne. Le loro abitazioni sono costituite da lunghe costruzioni capaci di contenere due o trecento persone. Per letti si servono di amache e ognuno ha la propria. All’alba si alzano e mangiano subito, una sola volta per tutta la giornata, e bevono diverse volte durante il giorno. Danzano spesso e gli uomini soprattutto vanno a caccia. Le donne si occupano del cibo e delle bevande e gli anziani, prima di mettersi a mangiare, tengono un discorso a tutti gli abitanti basato su due principi: il valore contro i nemici e l’amore per le proprie mogli.

Sono rasati e si fanno la barba “molto meglio di noi, senz’altro rasoio che non sia di legno o di pietra”. Credono che le loro anime siano eterne e che coloro che hanno agito bene siano mandati dagli dei a oriente del cielo, i maledetti, invece, a occidente. Prima di intraprendere qualsiasi iniziativa interpellano un indovino che stabilisce, per esempio, se fare o meno la guerra: se, però, la sua lettura del futuro non funziona “è tagliato a pezzi”. Questi popoli affrontano la guerra senza armature, completamente nudi, solo con archi e spade di legno. Combattono con tenacia e straordinario coraggio fino alla fine “perché non sanno cosa siano fughe e paura”.

Montaigne sostiene che il loro modo di intendere la guerra è nobile, unico fondamento è la passione per il valore, la sola conquista del vincitore la gloria: l’aver dimostrato la propria superiorità e il coraggio. Non li spinge il desiderio di conquista di nuove terre, né la volontà di allargare i propri confini.

Al ritorno dalla battaglia, ognuno riporta come trofeo la testa del nemico che ha ucciso e l’appende all’ingresso della propria abitazione.

I prigionieri vengono trattati bene, con tutte le comodità possibili. Poi il capo riunisce tutti in una grande assemblea “attacca una corda a un braccio del prigioniero e lo tiene per un capo di essa, lontano di qualche passo per paura di esserne colpito e dà da tenere alla stessa maniera l’altro braccio al suo più caro amico; e tutti e due, alla presenza della intera assemblea, l’ammazzano a colpi di spada”. Dopo di che lo smembrano, “lo arrostiscono e lo mangiano tutti insieme, e ne mandano dei pezzi ai loro amici assenti”. Non lo fanno per nutrirsi: il loro cannibalismo ha un carattere rituale e solo attraverso questa pratica antropofaga essi ritengono di poter raggiungere la vittoria definitiva sul nemico.

Montaigne racconta anche un altro episodio: alcuni indigeni, provenienti dal Brasile, vennero condotti a Rouen presso re di Francia, Carlo IX, e fu mostrata loro quella importante città e i modi di vivere dei francesi. Quando più tardi qualcuno chiese le loro impressioni risposero che erano rimasti sbalorditi per due cose: la prima che a loro sembrava strano che uomini adulti obbedissero a un fanciullo (il re); la seconda, che si erano accorti che nel Paese che li ospitava vi erano uomini “pieni fino alla gola di ogni sorta di agi” e altrettanti uomini che “stavano a mendicare alle porte dei primi, smagriti dalla fame e dalla povertà”. Trovavano strano che quella metà sofferente “potesse tollerare una tale ingiustizia”.

Montaigne biasima apertamente il fatto che noi europei ci permettiamo di dire a voce alta “quanto barbarico orrore ci sia nel modo di vivere di questi popoli” e che, mentre giudichiamo le loro presunte colpe, “siamo tanto ciechi riguardo alle nostre”.

Critico spietato dell’idea di centralità dei valori dell’uomo europeo, il letterato francese non può non notare che noi consideriamo orribile e crudele la loro pratica del cannibalismo quando, sotto la scusa della religione, abbiamo dato la morte non a nemici, ma a nostri concittadini: “possiamo, dunque, ben chiamarli barbari, se li giudichiamo secondo le regole della ragione, ma non confrontandoli con noi stessi, che li superiamo in ogni sorta di barbarie”.