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C’è chi li chiama Neet

 

 

aspirante precario

C’è chi li chiama Neet


Luciano Luciani

 

Perdita di senso e male di vivere sembrano costituire oggi – sia pure con corpose eccezioni – la ‘cifra’ per interpretare la condizione comune diffusa tra gli “under venti” e anche qualche anno di più.

Cresciuti a overdose di televisione, sala giochi e tanto pallone, carne da discoteca o da curva sud, aspiranti pueri aeterni con scarsa voglia di crescere, gli adolescenti e i loro fratelli di poco più grandi ci appaiono oggi ristretti in una condizione di sofferenza e solitudine quale mai, forse, si era data prima.

Eppure, non di rado, in questi ultimi due secoli, proprio i giovani hanno contribuito in maniera significativa e a volte decisiva alla storia e al progresso della società civile e politica di questo nostro Paese.

Si pensi alla generazione giacobina e napoleonica, a quella risorgimentale, ai “ragazzi del ’99”, alla partecipazione dei giovani alla Resistenza. Non si smemori neppure il ’68 e i suoi dintorni, quel ‘bagliore di democrazia’ che ha fornito e continua a dare significato alla vita di tanti oggi appartenenti alla generazione dei padri maturi che si vanno trasformando in nonni preoccupati.

Poi, da allora, un silenzio compatto, livido proprio mentre si accentuavano, si perfezionavano e si facevano totalizzanti le forme del dominio e dello sfruttamento. I ventenni non si indignano più, non protestano. Accettano la disillusione e si parcheggiano ai margini del mondo produttivo: non studiano, non lavorano, non si preparano ad assumere un qualsivoglia ruolo all'interno delle comunità di appartenenza: un acronimo, sempre più usato, li definisce come Neet (Not in Education, Employment or Training). Soprattutto non si ribellano alle numerose ingiustizie ereditate e a quelle inedite proprie del loro tempo. Non si rivoltano, ma la società, crediamo, dovrà pagare caro in seguito, nei tempi medio-lunghi, l’inverno del loro scontento e non potrà mai più chiedere a queste generazioni un impegno alto, una scelta forte, un sacrificio, la partecipazione a un progetto collettivo.

Il loro disinganno verso la famiglia sociale, che prima li ha illusi e poi delusi, è imprevedibile e devastante. Appena raggiunta la maggiore età, se votano lo fanno spesso a destra, né si scandalizzano a tingere i propri comportamenti di tutte le forme di intolleranza; praticano spesso e volentieri il bullismo, il cyberbullismo e la violenza vecchia maniera. Contro tutti e, sempre più di frequente, contro se stessi, tragicamente, quando si accorgono che il loro faticoso processo di formazione non coincide con nessuno dei futuri promessi o fatti intuire.

Non è questa la sede per un’analisi storica, politica, sociologica, antropologica intorno alla caduta delle tensioni ideali e morali dei giovani adulti del nostro tempo e circa il grave deficit di buone ragioni, di ragioni giuste – solidarietà, socialità, impegno – che segnano i nativi digitali di questo cupo primo quindicennio di secolo e millennio: degni figli, voluti e pianificati, di quel ‘nuovo Rinascimento’ vantato per anni da alcuni fin troppo noti tuttologi. Rampolli ‘replicanti’ di uno sviluppo distorto che è riuscito a perdere per strada perfino l’alfabeto, la scrittura, la parola, umiliando la scuola di massa – una delle conquiste sociali più importanti degli anni ’70 – e riducendola a luogo della sola riproduzione di un semianalfabetismo generalizzato.

Per loro, per gli adolescenti di questa società si può al più prevedere un futuro di poco “panem”, molti “circenses”, nessun potere. 

La perdita delle parole.

Crediamo di non essere troppo lontano dalla verità quando affermiamo che la marginalità, il disagio, la esclusione, la droga, la disoccupazione, che contraddistinguono tanta parte della condizione giovanile contemporanea trovano alimento anche nella mancanza dell’alfabeto, della scrittura, delle ‘parole per dirlo’, intese come strumento della relazione, dello scambio, della crescita civile e culturale, della partecipazione.

Non sono solo le cifre e i riscontri di ricerche ancora parziali, ma comunque tali da prefigurare inquietanti scenari possibili, a preoccupare: sono piuttosto le storie di ordinaria violenza metropolitana che punteggiano le nostre cronache, i segnali di una nuova barbarie diffusa e ‘normale’ che trovano sempre nella deprivazione culturale il loro ‘brodo di coltura’.

Non riusciamo ancora a quantificarlo in dati precisi... Eppure sentiamo, sappiamo che quando viene meno la capacità di leggere, di scrivere, la straordinaria carica liberatrice ed emancipatrice del libro, del giornale, dell’alfabeto, della scrittura, della parola allora si preparano davvero tempi bui. 

Sempre meno numerosi, i giovani, sempre più silenziosi. Sempre più sconfitti perché progressivamente più poveri di alfabeto e di parole. E le parole sono importanti, addirittura decisive nell’inedita temperie storico/culturale di questo inizio di millennio.

L’aveva capito un autore come Stefano Benni, uno dei pochi ancora in grado di entrare in sintonia con settori importanti delle giovani generazioni quando nel suo romanzo più bello, Comici spaventati guerrieri, scriveva: “Nostro compito Lucia è impedire che ci rubino le parole e magari nutrire le nuove. A nessuno verrà mai rubato il tesoro delle parole, della scrittura. Una delle poche libertà, si ricordi”.