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Sfiniti, ma puliti

 

Endeavour

Come fu che Australia e Nuova Zelanda entrarono nell’orizzonte dell’uomo moderno

 

Sfiniti, ma puliti

 

Luciano Luciani

 

Correva l’anno 1771, il 18 luglio per la precisione: un brigantino, piuttosto male in arnese, l’Endeavour, entrando nel tratto di mare noto con il nome di Gallion’s Reach, portava a termine una delle più straordinarie imprese della marineria di tutti i tempi. Salpata, infatti, dall’Inghilterra nell’agosto di tre anni prima, l’imbarcazione aveva compiuto il periplo del mondo, rilevato oltre 5000 miglia di costa e, cosa più importante, smentita la leggenda di un vastissimo continente australe, un mito senza fondamento scientifico che durava dai tempi di Magellano.

Eppure, le accoglienze entusiastiche e festose dell’opinione pubblica inglese non si rivolsero tanto al capitano della nave – come generalmente avviene in questi casi – quanto agli “uomini d’ingegno” che lo avevano accompagnato. Toccarono a loro le luci della ribalta, la fame e la notorietà, mentre a James Cook, capitano dell’Endeavour e vero artefice della memorabile vicenda, furono riservati un trattamento e un’attenzione complessivamente modesti: un singolare errore di prospettiva, che doveva essere corretto solo nei decenni successivi e che si spiega forse con il carattere austero del personaggio e le sue umili origini.

Figlio di un bracciante dello Yorkshire, dove era nato nel 1728, James Cook era un uomo che, come si suol dire, si era fatto da sé. Dapprima commesso presso un mercante di panni, si era sottoposto al duro tirocinio dell’arte marinara a bordo di una nave che trasportava carbone. Per tredici lunghi anni il futuro esploratore dei mari del Sud si era dedicato, da autodidatta, allo studio della matematica e della scienza della navigazione. Poi, ancora due anni su un mercantile che faceva rotta nel Baltico: sempre modesti i suoi ruoli, ma era tutta esperienza. Nel 1755 si arruolava, come semplice marinaio, nella Marina di Sua Maestà e nel giro di un mese veniva promosso al grado di “secondo”, quindi a nostromo e infine a comandante. Nel frattempo era scoppiata la guerra dei Sette anni (1756-1763) che dall’Europa dilagava nei territori coloniali francesi ed inglesi: Cook partecipa all’assedio di Luisburg e, trasferito alla nave ammiraglia dà ampie prove del suo ingegno e della sua preparazione eseguendo dettagliati rilievi del fiume San Lorenzo, che risulteranno utilissimi per la conquista del Québec francese da parte dell’ammiraglio Wolfe. Dopo il passaggio del Canada agli inglesi, Cook intraprende nuovi rilevamenti al largo delle coste della Nuova Scozia, del Labrador e dell’isola di Terranova. I cinque anni successivi passati a comandare la Grenville gli servirono per richiamare su di sé l’attenzione dell’ammiragliato e della Real Society per il rigore scientifico per cui aveva saputo osservare le fasi di un’eclissi solare. La stima della celeberrima istituzione inglese per James Cook è confermata, indirettamente, dagli illustri personaggi che nel 1768 presero il mare insieme a lui: si va dal dottor Daniel Solander, botanico e naturalista svedese, allievo del famoso Linneo, a Charles Green, vice astronomo reale, a Joseph Banks, membro della Real Society, un gentiluomo dai molti mezzi, un po’ fatuo che non esitò a spendere 10000 sterline per il proprio equipaggiamento. Di lui si ricorda che era un’autorità nella storia naturale e che si tirò dietro sei dozzine di camicie di seta…

Obiettivo della spedizione scientifica inglese, l’osservazione del transito del pianeta Venere sul disco del sole che doveva verificarsi l’anno successivo alla partenza dell’Endeavour: luogo ideale individuato per gli esperimenti, Tahiti nella Polinesia meridionale.

A sobbarcarsi il peso finanziario della spedizione era l’ammiragliato inglese che, in verità, lesinò alquanto sulle spese: per quell’impresa fu in grado di allestire solo un vecchio veliero provato da anni di mare ma ancora assai robusto. Il comandante James Cook, però, era un uomo d’eccezione e assolutamente all’avanguardia per i suoi rempi. Uno dei suoi primi ordini fu di bruciare zolfo nelle stive per stanare ratti, scarafaggi e insetti, eliminarli e così garantirsi da malattie ed epidemie cui andavano soggetti gli equipaggi impegnati in navigazioni che duravano lunghi mesi. Ripulita la nave Cook pensò bene anche di ripulire la ciurma abituandola all’igiene personale: dagli ufficiali di bordo all’ultimo dei mozzi venne imposto il cambio della biancheria almeno due volte alla settimana, distribuite razioni regolari di verdura fresca e stabiliti turni di guardia meno faticosi. In seguito, il comandante inglese, al momento di scendere a terra, non esiterà a mettere in ceppi i luetici per impedire loro di contagiare gli indigeni.

Tahiti venne raggiunta con un largo anticipo sul previsto ma, nonostante tutte le cautele, l’esperimento di osservazione di Venere ebbe un esito negativo. Erano stati infatti commessi grossolani errori di calcolo, addirittura per milioni di chilometri, come risulterà vari decenni più tardi. Ma lo studio del passaggio dell’astro non era che l’aspetto meno importante della missione voluta dall’ammiraglio inglese. Oltre all’osservazione astronomica, Cook aveva l’ordine di “salpare senza indugi per realizzare le ulteriori istruzioni contenute in un plico sigillato”. Qui gli si diceva che c’era motivo di supporre che in direzione sud si stendesse un continente di grandi dimensioni e ancor più grandi potenzialità economiche e strategiche: l’ordine era di scoprirlo, e, se possibile, esplorarlo e prenderne possesso.

In rotta verso sud muovendo da Tahiti, Cook toccò i 40° 22’ senza avvistare terra: virò quindi ad ovest per approdare a quella che verrà riconosciuta come l’isola settentrionale della Nuova Zelanda. Proseguì allora in direzione sud, lungo la costa sino a Capo Tumagain; di qui si diresse a nord per compiere il periplo dell’isola settentrionale e trovare che lo stretto, poi detto di Cook, divideva completamente la terra. Rilevò 2400 miglia di coste con straordinaria precisione, provò in maniera conclusiva che la Nuova Zelanda era formata da due isole, smontò definitivamente la fantasiosa costruzione di una terra australe intesa come un immenso continente. Ma Cook non si limitò a questo: si trattenne sei mesi nelle acque della Nuova Zelanda, scese spessissimo a terra, fece in modo di conoscerne gli abitanti, i Maori, annotò un gran numero di parole della lingua degli indigeni, disegnò uomini nei loro costumi, alberi, animali, coltivò orti, liberò animali europei come pecore e maiali.

A questo punto Cook avrebbe potuto ritornare soddisfatto in patria. Nel marzo 1770 decise, invece, di puntare sulle Indie Orientali passando lungo le coste meridionali dell’Australia che non erano state ancora rilevate. Per realizzare questo obbiettivo si tenne così vicino alla costa da andarsi a cacciare in mezzo al pericoloso passaggio tra la terraferma e gli scogli. Nonostante la sapienza marinara di Cook, la nave s’incagliò nei banchi di corallo e la robusta fattura dell’Endeavour fu messa a dura prova. Cook e l’equipaggio riuscirono comunque con molta fatica a rimetterla a galla e il comandante inglese scelse coraggiosamente di arenarla sulla costa per poter procedere alle riparazioni necessarie. Solo ad agosto la nave poté riprendere il mare e raggiungere Capo York e Possession Island. Quindi, attraverso lo Stretto di Torres, raggiunse Batavia nelle Indie Orientali per mettere in sesto un’imbarcazione ormai appena in grado di tenere il mare. Si concludeva così la parte esplorativa del viaggio.

L’impresa non era costata la perdita di una sola vita umana per le tradizionali malattie cui andavano soggetti gli equipaggi. Le scorte di cipolle, agrumi, orzo carne fresca, rinnovate ovunque fosse stato possibile avevano permesso all’intelligente navigatore di tenere a bada il temutissimo scorbuto, la terribile malattia dovuta a carenze di vitamina C che faceva strage di marinai.

Durante il viaggio solo pochi uomini furono colpiti dal morbo e tutti si rimisero in salute. A Batavia, però, a missione praticamente compiuta, morirono sette uomini e quaranta si ammalarono durante il viaggio di ritorno: di questi, ventidue, sfiniti dalle fatiche dell’impresa, dalla malaria, e dalla dissenteria, non toccarono il suolo inglese.

Nonostante queste perdite dolorose, il viaggio era stato un successo la cui importanza si sarebbe misurata meglio a distanza di qualche tempo: la Terra Australis, non più continente incognito, ma un continente-isola destinato a un grande futuro. Ne fu profeta lo stesso Cook che così scriveva: “Tutto ciò che la natura ha regalato a questa terra vi si sviluppa in maniera smisurata. Qui potranno attecchire tutti i generi di cereali, frutti e tuberi che saranno coltivati con la cura dovuta. Né mancherà mai, in nessuna parte dell’anno, il nutrimento per un bestiame molto più numeroso di quanto sia possibile allevare oggi su questo suolo.”