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Peste e Poste

 

 

poste antiche

 

Peste e Poste

 

di Luciano Luciani

 

 

Risale al 1527 la pratica istituita dalla Repubblica di Venezia, doge Andrea Gritti, di disinfettare obbligatoriamente la corrispondenza per scongiurare il pericolo che le lettere si tramutassero in veicoli di diffusione di infezioni devastanti: un provvedimento in breve tempo seguito anche dalle autorità degli altri Stati italiani ed europei. Però, per incontrare il primo documento che faccia riferimento alla disinfezione obbligatoria del materiale postale, bisogna arrivare al 1629: in Italia infuria la peste, tanto mirabilmente descritta dal Manzoni nel suo capolavoro, e il 3 luglio le autorità di Bologna, il cardinal Spada, legato pontificio in Bologna “con la partecipazione e il consenso del signor Gonfaloniere di Giustizia e de’ signori Assonti del reggimento sopra la Sanità”, cercano con tutti i loro mezzi a loro disposizione di fare fronte ai guasti della disseminazione del contagio, enumerando minutamente casi, situazioni e soprattutto pene da infliggere agli eventuali trasgressori, i celeberrimi e fantasmatici untori. Ma, come sappiamo, nessuna epidemia si è mai arrestata davanti a qualsivoglia normativa per quanto ben scritta e debitamente firmata, controfirmata e sigillata: così, nonostante le quarantene, quella generale e quella postale, a Milano morirono sessantamila persone persone, quasi la metà dei suoi allora cento trentamila abitanti.

In un altro bando del 1739, promulgato dal Maestro di sanità di una Mantova ormai austriaca, si può leggere che: “rispetto alli Corrieri, che verranno dal medesimo Stato pontificio, li medesimi non oltrepasseranno i confini; e le valigie con lettere e mazzi saranno spurgate dal di fuori, e introdotte le stesse in questa città, si praticheranno le solite diligenze esterne e interne, secondo la pratica in simil maniera”. E quali erano le solite diligenze? Per esempio, le lettere erano esposte a prolungati suffumigi, senza aprirle, tagliarle o forarle. Poi, venivano inoltrate al destinatario con la bollatura “netta di fuori, sporca di dentro”. Come dire “io ho fatto tutto quello che potevo, ora arrangiati”. Un altro metodo era quello di immergere a lungo la corrispondenza in fumigazioni dopo avere praticato tagli e fori per permettere ai “profumi” di penetrare all’interno e svolgere la loro azione disinfettante. In questo caso, la dicitura esterna che veniva apposta differiva da quella precedente: “netta di fuori, netta di dentro”. L’igiene assoluta era testimoniata da un bollo di garanzia apposto dall’Ufficiale di Sanità. Se per caso la corrispondenza giungeva da zone notoriamente infette, le fumigazioni dentro e fuori potevano essere anche più d’una. Le sostanze impiegate per la disinfezione erano l’acido solforico, l’acido cloridrico, il solfato di ferro al 50%, cloro, gomme e resine aromatiche, incenso, mirra, formalina.

Esisteva poi un terzo metodo ritenuto in assoluto il più sicuro: si aprivano, con tanti saluti alla privacy, e si immergevano nel “profumo”; quindi, si ripiegavano e si sigillavano. Le necessità igieniche sbandierate dalle autorità si sommavano in tali casi a preoccupazioni d'altro tipo: quelle del controllo politico e culturale sulle idee dei propri sudditi.

Le epidemie di peste sarebbero cessate nel 1720 - ultimo caso, Marsiglia - per essere sostituite da nuovi flagelli: il tifo, il colera e, il più temuto di tutti, la rivoluzione.